Quella dei diplomi quadriennali è una riforma che procede abbastanza sottotraccia, forse perché non si è ancora trovata la “narrazione” giusta per “venderla” all’opinione pubblica, eppure sembra andare avanti, al punto che nei palazzi governativi c’è chi la considera già una prospettiva acquisita, tanto da sbagliare il numero complessivo di anni di scuola dando per scontata la loro modifica. Soprattutto per questo vale la pena di saperne di più. Si tratta dei percorsi di scuola secondaria superiore quadriennali.

 

 

L’idea di ridurre da 13 a 12 il numero di anni complessivi di scuola pre-universitari era già stata proposta tra 1999 e 2000 da Luigi Berlinguer, nell’ambito di una riforma organica e complessiva di ampio respiro (sicuramente discutibile e animatamente messa in discussione allora, soprattutto dai sindacati dei docenti) che prevedeva tra l’altro il prolungamento fino ai 18 anni dell’obbligo scolastico, una differenziazione più graduale e meno vincolante degli indirizzi di studio, e una revisione degli assetti dell’università riformata (anch’essa in modo ritenuto da più parti insoddisfacente) nel “3+2” per connetterla ai percorsi secondari favorendo ulteriormente l’incremento degli accessi già in corso.

L’avvento a Viale Trastevere di Letizia Moratti boccò il percorso di applicazione della riforma, e di accorciamento degli anni di scuola si è tornati a parlare seriamente solo tra 2012 e 2013. A nominare una commissione di lavoro in merito fu il ministro di Monti, Francesco Profumo, in un clima completamente diverso di quello a cavallo del nuovo millennio, caratterizzato dalla continua ricerca di nuove modalità di taglio della spesa pubblica per rispondere alle sollecitazioni europee di austerità in risposta alla crisi finanziaria. È quindi soprattutto in quest’ottica che la riflessione sulla riduzione da 5 a 4 anni delle secondarie superiori è proceduta negli anni, giungendo alla conferma della stagione della sperimentazione “sul campo” tra 2017 e 2018 col coinvolgimento di oltre 200 classi che ora stanno per licenziare le prime coorti di diplomate e diplomati. Recentemente, poi, il ministro Bianchi ha deciso di ampliare ulteriormente l’adozione sperimentale dei percorsi quadriennali, coinvolgendo oltre 1000 istituti.

La proposta di riduzione degli anni ha senso? In effetti, gli anni di scuola preuniversitari sono 12 e non 13 praticamente in tutta l’Unione europea, e l’iniziativa di Berlinguer nasceva da un’esigenza di armonizzazione. Si potrebbe certo obiettare che se tale esigenza era pienamente comprensibile nel 2000, nel pieno dello sforzo per costruire un comune campo europeo per l’istruzione e la produzione di conoscenza, appare meno urgente (e forse meno sensato) sforzarsi in questo senso oggi, quando pur dopo realizzazioni importanti nel campo dell’istruzione superiore e del sostegno alla ricerca questo slancio si è decisamente affievolito, e soprattutto quando in molti dei nostri partner continentali (dalla Francia alla Svizzera, per uscire dal perimetro “stretto” della UE ma non di quello dello spazio europeo dell’istruzione e della ricerca) la tendenza pare essere quella a rafforzare e finanche prolungare i curricoli liceali. Quand’anche questa omologazione con altre realtà continentali e occidentali sia presa in considerazione, bisogna tenere conto di alcuni presupposti che almeno la proposta del 2000 mostrava di abbozzare al suo interno.

Il riferimento è in primo luogo alla necessità di rendere effettivo il completamento universale dei 12 anni di studio per tutte e per tutti, risultato tutt’altro che banale in un paese che ha il nostro attuale tasso di dispersione, pesante soprattutto nelle aree in maggiore difficoltà, e per conseguire il quale non basta sancire il prolungamento dell’obbligo sulla carta, ma piuttosto intervenire con attive e mirate politiche di promozione della frequenza.

Serve poi proseguire con l’aumento degli accessi all’istruzione post-secondaria e al conseguimento dei titoli di studio superiori, esperienze che per essere al passo coi paesi a cui ci ispiriamo dovrebbero riguardare oltre la metà delle classi di età neodiplomate e sulle quali invece l’Italia, dopo i risultati del primo decennio di questo secolo, segna il passo. E naturalmente non si tratta semplicemente di pervenire a un mero maquillage delle statistiche: occorre intervenire sulle università (e magari sugli ITS, istituzioni il cui stallo non si risolve esclusivamente con un pasticciato riferimento nel discorso d’insediamento del Presidente del Consiglio) per fare in modo che i nuovi studenti trovino un ambiente adeguato al loro background e alle loro ambizioni, col prolungamento del percorso di base e la messa in campo di risorse adeguate per il consolidamento non solo delle competenze specialistiche ma anche di quelle di base, per lo appena introdotte durante la secondaria quadriennale).

E anche quella metà di studenti che dopo i 18 anni non prosegue gli studi dovrebbe trovarsi garantito e attivamente promosso un ventaglio di possibilità di formazione continua adeguate, strutturate e di efficacia verificabile, al fine di evitare di precipitare nel baratro di un semi-analfabetismo di ritorno fin troppo diffuso anche nella forza-lavoro a qualificazione media e medio-alta.

Per ora le istituzioni e la società non si stanno muovendo in alcun modo per rendere questo scenario, da cui siamo lontanissimi, meno fantascientifico. Fino ad allora, il quinto anno di scuole secondarie è un mezzo incompleto, ma irrinunciabile, per salvare il salvabile, perché ferma ragazze e ragazzi a scuola obbligandoli a concentrarsi a tempo pieno sulla loro formazione culturale come molti di loro non potranno più fare nella vita, contribuisce allo sviluppo almeno parziale di abilità intellettuali di base che mai potranno essere recuperate in seguito, e in generale rappresenta un tempo ulteriore di assimilazione di contenuti e conoscenze che rende relativamente più solide le acquisizioni precedenti.

Portando avanti in questi anni una sperimentazione – per definirla tale “ci vuole coraggio” – il Governo ha deciso di costruire una nuova scuola partendo dal tetto, come spesso è accaduto in passato. L’idea comune nella classe dirigente interessata al progetto sembra infatti riassumersi in un “intanto tagliamo un anno di secondaria, poi si vede”. Questo perché, fin dai tempi di Profumo, a fare gola sono soprattutto i risparmi di bilancio, potenzialmente il 20% delle spese per l’istruzione secondaria, da ridistribuire solo parzialmente sulle altre classi. Un risparmio che avrebbe come effetto collaterale altrettanto gradito la riduzione del numero di insegnanti che sarà necessario reclutare e stabilizzare, e quindi la riduzione del loro potere contrattuale e della loro già limitata (e bistrattata) voce in capitolo nella progettualità scolastica.

Negli ultimi tempi sembra però affiancarsi a ciò, nel dibattito culturale che esprime l’attuale classe dirigente nella politica scolastica, anche un altro aspetto. L’idea, per dirla in estrema sintesi, che nella scuola “tradizionale” ci si interessi troppo di contenuti disciplinari fini a se stessi – quegli stessi contenuti che caratterizzano e rendono culturalmente riconoscibile un percorso di studi: le lingue classiche, matematica e fisica relativamente avanzate, le attività di laboratorio negli istituti tecnici – mentre le abilità e conoscenze essenziali all’uscita sono decisamente più scarne e, soprattutto, veicolabili al di là dell’approfondimento disciplinare. Per i più esigenti si parla di esprimersi in buon italiano, conoscere una lingua straniera, applicare la matematica di base agli scenari della vita quotidiana – in una parola le abilità che intendono misurare i test INVALSI; le uscite social delle terze file più facilmente sacrificabili di tali ambienti di pensiero arrivano però a inquadrarle nelle “competenze base in Excel”, o nel saper “leggere una busta paga” e “pagare le tasse”: tutti risultati che, avulsi da qualsiasi contenuto e progetto culturale riconoscibile, rendono 4 anni un tempo di impegno finanche eccessivo.

In conclusione dietro una riduzione degli anni di scuola che non prevede alcun miglioramento delle opportunità di formazione e dell’accesso alla cultura nelle stagioni successive della vita, a partire da quella universitaria, sembra celarsi l’idea che sia la scuola a doversi adeguare a un sistema produttivo straccione come quello italiano, piuttosto che viceversa. Questo soprattutto per i giovani destinati a costituire le nuove classi lavoratrici, potrebbe dire qualcuno, ché l’establishment di solito vuole la formazione tecnica solo per i figli degli altri. Ma anche questa accusa sembra ora lasciare spazio a un eccessivo ottimismo. Il successo, tra chi se lo può permettere per disponibilità economiche e/o per scelta abitativa che rende “comoda” la frequenza dei gravosi orari scolastici, dei licei internazionali nei centri storici di Milano e Roma, mostra che almeno in una parte della nostra classe dirigente si è deciso di barattare per la prole la solidità della preparazione e l’organicità del progetto culturale di riferimento in cambio di una precoce proiezione al network building e alla dimensione internazionale. Intanto si avrà sempre la possibilità di pagare un college dove imparare gli slogan motivazionali del momento, e col retroterra di queste scuole quadriennali difficilmente potrà emergere dalla massa chi metterà in discussione le posizioni di potere acquisite sulla base di competenze diverse.

Forse non è un caso che abbia negli ultimi giorni espresso il suo scetticismo sull’accelerazione per i diplomi quadriennali Andrea Gavosto, voce che di certo non può essere accusata di ostilità e nei confronti dello sviluppo “aziendalista” delle politiche scolastiche degli ultimi decenni.

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1 commento

  1. Dall’articolo: “La proposta di riduzione degli anni ha senso? In effetti, gli anni di scuola preuniversitari sono 12 e non 13 praticamente in tutta l’Unione europea, e l’iniziativa di Berlinguer nasceva da un’esigenza di armonizzazione…”, però dall’articolo pubblicato su ROARS https://www.roars.it/la-sperimentazione-delle-superiori-quadriennali-parte-seconda/ e dall’allegato https://eurydice.indire.it/pubblicazioni/strutture-dei-sistemi-educativi-europei-diagrammi-20162017/ sembra che non sia corretto, percorso preuniversitario ed età più comune 13 e 19 nella maggioranza dei paesi europei, se ho capito bene.

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