Presentato in questi giorni dal ministro Bray, il progetto di riforma del Ministero dei Beni e delle attività culturali e del turismo (MiBACT) avvalora un’immagine folklorica dell’Italia e contribuisce a riportare in auge i clichées del “paese più bello del mondo”. E’ mai possibile che persino l’arte contemporanea, con le attività di ricerca e formazione ad essa connesse, debba essere sacrificata alla stucchevole retorica del “pittoresco”?
La bozza di riforma del MiBACT trasferisce le competenze sull’arte e l’architettura contemporanea alla Direzione generale dello spettacolo. Tale trasferimento, che non comporta riduzione della spesa e non è dunque sorretto da necessità contabili, è a mio parere sbagliato. Provo a spiegare perché.
L’equiparazione dell’arte contemporanea agli eventi effimeri fissa come prescrittivi criteri di intrattenimento e immediata “popolarità” che confliggono con la storia dell’arte contemporanea stessa. Ha senso equiparare un’esposizione a un festival o a una sagra? Non evochiamo logore gerarchie che distinguono tra “alta” e “bassa cultura”, a cui nessuno crede più. Parliamo invece concretamente di economie, tradizione culturale, destinatari e processi di produzione. Possiamo preferire l’una (la fiera) o l’altra (la mostra) o considerare entrambe meritevoli della nostra partecipazione. Ma è evidente che perché una mostra sia qualificante per l’istituzione che la ospita e la comunità cui si rivolge occorrono politiche culturali chiare, autonomia di ricerca e programmazione di lungo periodo.
Per prima cosa proviamo a disfarci della nozione di “popolare”, o quantomeno del suo uso ideologico: risulta fuorviante se riferita a una qualsiasi merce (o “bene”) culturale. Foklore, eredità, patrimonio materiale e immateriale, curatele sono parimenti integrati nei circuiti del consumo e distribuiti sul mercato dell’industria dell’intrattenimento collettivo. La distinzione da fare è un’altra.
Nei migliori musei internazionali mostre, convegni e conferenze o seminari alimentano la discussione pubblica attorno a temi di interesse generale. Una mostra ben fatta (e dunque anche godibile) non è mai casuale o improvvisata. Presuppone un’intensa attività di ricerca, impegno didattico e capacità di comunicazione. Impegna le risorse economiche e la reputazione del museo. E’ sorretta da radicate convinzioni sull’importanza del pensiero critico. Possiamo ben contestare il mainstream artistico-contemporaneo, la deriva oligarchica del collezionismo o il connubio tra pratiche artistiche e industria del lusso[1]. Questo non ci impedisce tuttavia di ritenere che un’attività espositiva finanziata da denaro pubblico debba essere coerente e durevole, inserirsi in un’autorevole cornice istituzionale e avere una dimostrata utilità sociale.
In uno stato democratico la sola ratio dell’investimento pubblico in “cultura” è l’educazione dei cittadini all’esercizio attivo della cittadinanza. Come potranno contribuire a questo una sfilata di moda o la scintillante presentazione di un’auto e di un gioiello, gli “eventi” più remunerativi che si supponiamo potranno avere luogo in musei come il Maxxi, il Mambo o il Castello di Rivoli? Esiste una divergenza formidabile tra la vocazione di un’istituzione pubblica e l’ambito delle pubbliche relazioni. La prima deve (o dovrebbe) diffondere attitudini critiche. Le seconde mirano a produrre consenso politico o commerciale.
La disgregazione di un’opinione pubblica culturale informata e indipendente mi preoccupa più delle eventuali offese alle competenze storico-artistiche e curatoriali. “Ma che riforma è?”, sbotta Gabriella Belli, direttore della Fondazione musei civici veneziani[2]. “E’ vero che l’arte contemporanea è anche performativa, ma la consideriamo ‘spettacolo’? Ci sono voluti anni perché in Italia il contemporaneo si sedesse al tavolo di tutte le altre arti. Adesso si divide quello che si è cercato di unire”. Il punto pare proprio quello di una crescente (e dissennata) divaricazione tra Antico e Moderno; o se si preferisce tra conservazione e tutela da un lato, produzione dall’altro.
La bozza di decreto stabilisce che la Direzione del patrimonio mantenga i compiti di studio, educazione e promozione delle collezioni permanenti. Solo le “attività” strettamente contemporaneistiche sarebbero dunque da annoverare tra gli “spettacoli”: le collezioni rimarrebbero tra i “beni”. E’ una ripartizione che separa artificiosamente l’”evento”-mostra dalla formazione ad esso connessa, prelude a un sostanziale definanziamento e concede la più ampia discrezionalità a una burocrazia ministeriale sprovvista di competenze[3]. Renderà inoltre impossibile costituire (o accrescere) una collezione con acquisti tempestivi. “Non si considera che l’arte ‘contemporanea’ sarà presto storica”, osserva Anna Mattirolo, direttrice del Maxxi Arte. “Se eccettuiamo i pochi anni in cui, attraverso la Direzione per l’arte e l’architettura contemporanee (DARC), il Ministero disponeva di un budget accettabile, non c’è mai stata la possibilità di creare una collezione pubblica. Ma se non acquistiamo le opere oggi non potremo farlo nel futuro: saranno già troppo costose e le lacune diventeranno incolmabili. Un esempio? La collezione della Galleria nazionale d’arte moderna di Roma, che ha mancato pressoché per intero New Dada e Arte povera”[4].
C’è stato un momento nella storia postbellica italiana, tra secondi Cinquanta e primi Sessanta, in cui l’arte contemporanea è sembrata poter partecipare al disegno civile e politico di una moderna democrazia industriale da costruire. Quel progetto critico e ideologico è fallito per più motivi, non ultimi la mancanza di riforme, la divaricazione ideologica, la finanziarizzazione della grande industria. Eppure proprio la ricerca dei possibili rapporti tra l’arte contemporanea da un lato, le politiche del lavoro e dell’innovazione sociale dall’altro avrebbe meritato maggiore fortuna.
Del tutto in controtendenza rispetto alla tradizione modernista, il progetto di riforma avvalora un’immagine turistica dell’Italia, la stessa che si intende esportare sui mercati globali. Si riportano in auge, nel vagheggiamento neoarcadico di una cultura immune da conflitto, forbita e insieme popolare, gli insulsi (e riduttivi!) clichées isolazionistici del “paese più bello del mondo”, del “vivere borghigiano”, delle gioie dell’enogastronomia. Temiamo il mutamento ormai più di ogni altra cosa. Sembra dunque coerente che persino l’arte contemporanea, stracciato vessillo di un progetto radicale e egalitario, debba essere sacrificata al “pittoresco”.
In una democrazia liberale l’opportunità di affrancarsi dalle limitazioni di un’unica cultura di riferimento, locale o familiare, dovrebbe essere assicurata a tutti. Qual è il rapporto tra arte contemporanea e sfera pubblica? Tra cultura e cosmopolitismo? O tra stato di diritto e “filantropia culturale”? Queste sono solo alcune tra le domande cui un qualsiasi progetto di riforma istituzionale dovrebbe curarsi di rispondere[5].
@MicheleDantini
[1] Ancora pochi mesi fa, all’apice di una crisi economica provocata in larga parte dall’irresponsabilità di banche e finanza speculativa, Francesco Bonami, direttore artistico della Fondazione Sandretto Re Rebaudengo di Torino e già curatore della Biennale di Venezia bel 2003, spronava a “incrociare i minitrend di supernicchia della leadership colta e giramondo che frequenta gli appuntamenti culturali così come gli incontri come Davos; che coltiva interessi globali e vuole essere stimolata”. Comprensibile che, a fronte di affermazioni tanto fatue e corrive, l’arte contemporanea sconti oggi in Italia un deficit di autorevolezza con cui occorre confrontarsi. La proposta di riforma del MiBACT getta tuttavia il bambino con l’acqua sporca: finisce per colpire proprio quel 99% che si propone di tutelare. Sul tema cfr. International Council of Museums Italia (ICOM), qui.
[2] Francesco Erbani e Dario Pappalardo, L’arte declassata, in: la Repubblica, 8.2.2014, p. 46.
[3] Cfr. Alberto Statera, Burocrazia, in: la Repubblica, 27.2.2014, p. 36.
[4] Comunicazione personale di Anna Mattirolo all’autore.
[5] Se in un primo tempo Bray aveva previsto che la riorganizzazione complessiva del ministero dovesse essere decretata, alla data in cui questo post è pubblicato il ministro ha reso noto che la bozza dovrà essere esaminata dalle commissioni cultura di Camera e Senato e seguirà il normale iter parlamentare. La riforma del MiBACT incrocia la crisi politica aperta dalla caduta del governo Letta.
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