Riceviamo e volentieri pubblichiamo il seguente testo firmato da:

Calogero Massimo CAMMALLERI (Università di Palermo), Andrea ABATE (Università di Salerno), Emma BUONDONNO (Università Federico II), Adriana BRANCACCIO (II Università di Napoli), Petronia CARILLO (II Università di Napoli), Armando CARRAVETTA (Università Federico II), Marco COSENTINO (Università dell’Insubria), Brunello MANTELLI (Università della Calabria), Maurizio MATTEUZZI (Università di Bologna), Valeria MILITELLO (Università di Palermo), Enrico NAPOLI (Università di Palermo), Ugo OLIVIERI (Università Federico II), Giorgio PASTORE (Università di Trieste), Delia PICONE (Università Federico II), Sergio BRASINI (Università di Bologna), Giorgio TASSINARI (Università di Bologna)[1]

NdR: La redazione di Roars ha convenuto di dare spazio alla discussione sul ruolo unico pur non condividendo tale proposta. Le opinioni di alcuni dei redattori di Roars potranno essere lette nei commenti al presente articolo. Le due principali obiezioni che la redazione di Roars muove rispetto alla proposta sono

  1. essa si presta ad essere utilizzata quale strumento per aumentare il grado di burocratizzazione delle università poiché aggiunge alla pletora di strumenti di valutazioni allo stato esistenti, un ulteriore livello di “valutazione continua” dei singoli ricercatori;
  2. a fronte di ciò la proposta non pare apportare alcun beneficio ai numerosi ricercatori non strutturati ed in formazione che vedono incombere sulle loro teste il rischio dell’espulsione dal sistema.

 


Perché il ruolo unico

 

C’è chi dice che il ruolo unico della docenza universitaria c’è già: professori ordinari e associati sono solo due fasce di un unico ruolo. Alla lettera della normativa vigente è vero[2]. Ma è difficile spiegare a colleghi stranieri come mai un unico ruolo preveda così tante differenze di diritti a parità di doveri. Ultimamente, di là di motivazioni di principio, sta aumentando l’interesse da più parti, in ambito accademico, ma anche politico[3],[4], per discutere e studiare possibili implementazioni operative di un vero ruolo unico della docenza universitaria, e questo semplicemente per ragioni di efficienza del sistema e anche di adeguamento alle condizioni di emergenza in cui si trova l’Università.

Prima di tutto qualche numero riguardante la composizione del corpo accademico (professori e ricercatori, di qui in avanti semplicemente docenti). Essa si è assottigliata sempre più negli ultimi anni con un sensibile invecchiamento del corpo docente.

Secondo l’ufficio statistica del MIUR[5] – dati riferibili ai 66 atenei statali e ai 25 non statali – nel 2008 il corpo accademico era formato dal 62.768 docenti.

Di questi fino al 2013 ne sono stati perduti 9.322, pari al circa il 15% del totale, e ci siamo ridotti a 53.446.

Quello che è più allarmante è i pensionamenti del 2014 e del 2015 saranno di 781 che, con  proiezione al 2018, ascendono a 1.437; cioè perdiamo 10.000 docenti in un decennio, mille l’anno, 500 al semestre accademico.

Ancora più allarmante si rivelano i dati sulla composizione del corpo docente.

Al 2013 esso è composto da 13.890 ordinari (di cui solo 2935 donne). Di questi solo 23, di numero– meno del due per mille – sono infra quarantenni, e nessuna donna. Non va meglio se consideriamo la coorte fino ai 45enni, solo 419, meno del 3 per cento stavolta e solo 80 donne, né se la estendiamo fino ai cinquantenni: solo 1.835 (poco più dl 10%) di cui solo 338 donne.

Facendo una proiezione al 2018 sulla base dei dati del 2013, fino a quell’anno andranno in pensione 2.752 ordinari e non ci sarà nessun ordinario infra-quarantenne. Il corpo docente ultra sessantenne sarà di ben 18.800 docenti su 53.000, quello infra-cinquantenne sarà solo di 4.145 di cui solo 419 ordinari e solo 781 associati.

 

Non è perciò un’esagerazione affermare che siamo in presenza di una concreta emergenza.

 

Essa, tuttavia, non risiede nei numeri in sé considerati, quelli semmai possono indurre ad agire con urgenza: sarebbe a dire con provvedimenti contingenti o peggio – tanto per citare il libro Maurizio Matteuzzi a proposito dell’innominabile ministra – con riforme “epocali”, ammannite sotto varie egìde, dentro qualche tunnel di neutrini o dentro “i carceri” per fannulloni[6]

 

L’emergenza  crediamo vada invece aggredita alla radice,  eliminando le determinanti causali, che, se non rimosse, inevitabilmente  ridetermineranno nel futuro prossimo una nuova emergenza. E la causa strutturale di tale emergenza non risiede, a nostro avviso, né nel blocco delle assunzioni, né nei vari meccanismi concorsuali o selettivi o idoneativi o abilitativi, né nel centralismo o nel localismo del reclutamento e degli avanzamenti, tutti del resto già sperimentati nel corso dei lustri passati.

 

La causa è appunto strutturale, cioè è quella di un sistema che non ha saputo adeguare il proprio statuto ai tempi: e ciò in secula seculoroum. Il “sistema università” è ancora una riproduzione – abbastanza fedele – del sistema feudale che, com’è a tutti noto, è un sistema che più tecnicamente invera la “rete vassalla”.  Un sistema rigidamente gerarchico basato sulla fedeltà personale del vassus al suo signore, cioè colui che lo aveva “creato”. Questi gli concedeva la giurisdizione sul feudo attribuitogli e i conseguenti proventi derivanti dall’attività del restante 98% della popolazione: contadini liberi e dai servi della gleba, cioè ricercatori e precari. Il sistema feudale codifica che l’inferiore, a ogni livello, assuma obblighi e impegni solamente col suo immediato superiore, a cui deve il beneficio, come il … “barone creatore”. In assenza di questa semplice regola d’ordine e di ordinamento il sistema non si reggerebbe. E infatti sappiamo che nella società moderna è scomparso. Tranne che all’università tuttavia, dove ancor oggi ancora impera, vieppiù dopo gli interventi degli ultimi ministri. Gli interventi di “riforma”, sempre pubblicizzati sotto la réclame della lotta al baronato universitario, hanno invece incredibilmente rafforzato il “rapporto vassallatico-beneficiario”. Ne sono testimonianza diretta l’esclusione dei ricercatori e degli associati dalle commissioni di concorso[7], l’assoggettamento dell’Università all’ANVUR[8] (con toni e modi da un “campiere o soprastante”) e tramite essa al potere politico di turno, l’esautoramento del Senato Accademico nel governo degli atenei e così via. E non è stata un’eterogenesi dei fini. È stata un’apocalisse.

 

Che l’università sia organizzata in un sistema feudale o, con ossimoro beffardo, in una democrazia feudale, è testimoniato dall’organizzazione della componente docente del sistema: i suoi costituenti, cioè precari, ricercatori, professori associati, professori ordinari, pur svolgendo taluni di fatto (precari e ricercatori) tal altri di diritto (professori associati e professori ordinari), le stesse medesime indistinguibili funzioni basiche, cioè ricerca e insegnamento della loro ricerca, godono di un differente sostanziale regime giuridico, e ciò perfino laddove la legge sembri proclamarne l’unità: cioè nel caso dei professori di prima e di seconda fascia.

La differenziazione di stato giuridico tra soggetti che svolgono le medesime funzioni:

– da un lato è una distinzione artificiale: se nessuno avesse la casacca diversa nessuno se ne potrebbe accorgere osservando l’uomo al lavoro;

– da un altro è una distinzione artificiosa: serve per mantenere in vita quel corpo artificiale che altrimenti vita non avrebbe.

La differenziazione di stato giuridico si concreta empiricamente da un lato nel “monopolio della riproduzione” e da un altro nel “monopolio di governo”; monopoli, entrambi affidati a un manipolo di soli professori ordinari, i signori; gli unici soggetti che possono governare e “creare” i ricercatori e i professori della loro “rete vassalla”. Il sistema feudale è qui dunque perfettamente riprodotto: solo l’ordinario cioè il “superiore” beneficiario (della fedeltà) può legittimare l’“inferiore” (suo vassallo) e tale rapporto feudale dura a vita, (certo qualche anarchico ogni tanto scappa, ma basta isolarlo e non dargli troppo peso, ché tanto da sé stesso non si potrà riprodurre!) e si badi esso è sì forte che riproduce la relazione vassalla anche all’interno della cerchia dei professori ordinari. Sebbene con qualche attenuazione, la rete vassalla, attraverso il meccanismo non scritto del professore ordinario anziano e potente (quello che la vulgata non a caso appella barone) è il beneficiario della fedeltà di molti professori ordinari giovani. È così che il “barone” esercita la sua signoria nelle commissioni di concorso e nel governo dell’università. Tramite la sua rete, la sua la “politica” si riproduce e la somma di esse costituisce alla fine la politica universitaria.

 

Proviamo solo a riflettere su quanto un sistema di governo che si basa sul “rapporto vassallatico-beneficiario” sia ancora utile per l’università (ammesso che mai lo sia stato) oppure di quanto possa esserle oggi particolarmente dannoso, poiché oramai, com’è testimoniato dalle statistiche accennate, esso è perfino incapace di rigenerarsi. E questa incapacità del 2% della popolazione rischia di trascinare con sé tutto il restante 98%.

 

Dal punto di vista dell’efficienza del sistema, l’apartheid tra le fasce della docenza imbriglia le energie nuove e quelle più fresche e quelle più audaci, perché la ricerca di chi dipende, per la propria carriera, dal rispetto del patto non scritto – e per tale ragione maggiormente insidioso –  di “omaggio vassallatico-beneficiario” non può essere libera e indipendente. Un Paese senza libertà di ricerca e d’insegnamento della ricerca libera è anche un paese senza possibilità d’innovazione. Un paese senza innovazione è un Paese che muore. Ci si passi il brutto termine: occorre “defedaulizzare” l’Università e occorre farlo in fretta, molto in fretta; farlo prima di ogni altra riforma si voglia fare, anzi farlo come premessa necessaria a ogni rinnovamento.

E l’unico “vero” modo per farlo, come suggerisce il titolo più che appropriato, icastico, del convegno di Torino è “rivoluzionare” il sistema o – in altri e più chiari termini – passare dalla “rete vassalla” al “ruolo unico”, perché se no, mentre a Roma si discute dell’ennesima riforma sistemica l’Università, L’Università quella statale, libera, pubblica, sarà espugnata da quella privata, mercantile e – solo younghianamente –  “meritocratica”!

 

E il merito? Non viene calpestato ipso-facto da questa idea del ruolo unico? Ma che cultura del merito c’è in un sistema, come quello attuale, in cui il passaggio di fascia garantisce a vita una rendita di posizione, appena solo mitigata dal meccanismo delle mediane per le commissioni di concorso?  Paradossalmente, per chi considera la battaglia per il ruolo unico come l’anticamera della negazione del merito, agitando vieti spauracchi di appiattimento verso il basso, un ruolo unico in cui la progressione stipendiale e l’accesso alle cariche apicali siano costantemente vincolate alla valutazione positiva, non una tantum ma costante, diventa un vero e verificabile traguardo di implementazione della vera meritocrazia nei fatti e non negli slogan.

 

[1]                 I firmatari sono tutti componenti del Co.N.P.Ass. – Coordinamento Nazionale dei Professori Associati delle Università Italiane

[2]                           D.P.R. 11 luglio 1980, n. 38, art. 1 – “Il ruolo dei professori universitari comprende le seguenti fasce: a) professori straordinari e ordinari; b) professori associati.”

[3]                 “Il Ruolo Unico: una rivoluzione necessaria? Discussione nazionale nella prospettiva di una riforma dello stato giuridico della docenza universitaria”. Convegno, organizzato dalla Rete 29Aprile, 2 marzo 2015, Politecnico di Torino.

[4]                 ” Ruolo Unico della docenza: una via di fuga o una soluzione? Università di Università di Bari “Aldo Moro”, 14 ottobre 2013.

[5]                           http://statistica.miur.it/scripts/personalediruolo/vdocenti0.asp

 

[6]                 Matteuzzi M (2014) I neutrini, i carceri e le egìde. Cronaca di una riforma epocale. Aracne Ed. ISBN 978-88-548-6870-0

[7]                 Legge 30 dicembre 2010, n. 240, art. 16 comma 3 lettera f.

[8]                 Legge 30 dicembre 2010, n. 240, art. 1 comma 4.

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120 Commenti

  1. Mi ricordo di un professore che diceva che lui era “di fascia zero”, cioè Accademico dei Lincei, per distinguersi dai banali professori di “prima fascia”.

    Ehm, è un matematico (fisico matematico, classe 1925, che effettivamente ha dato un contributo molto importante alla nascita del calcolo numerico in Italia).

  2. C’è una malattia del bestiame che sia chiama afta epizootica. E’ una malattia a decorso benigno, ma abbastanza lunga e gli animali si infettano l’un l’altro lentamente così prima che tutto l’allevamento ha fatto la malattia possono passare diverse settimane. La malattia non si trasmette all’uomo, ma la lunga durata rende non più produttivo l’allevamento (gli animali non crescono e non producono latte).
    Oggi si vaccina e si abbattono i capi infetti – mero morivo economico per evitare la diffusione del virus.
    In passato, nell’incertezza della profilassi vaccinale si ricorreva all’«aftizzazione» struffando uno straccio intriso di liquido aftoso sul musello degli animali sani, per accelerare il decorso.
    Un po’ come quando si mettevano nello stesso letto i bambini con l’influenza o con le malattie esantematiche per togliersi il pensiero una volta per tutte.
    Ecco, secondo me, il ruolo unico va visto come un’aftizzazione, vista l’incapacità del “sistema” di garantire una seria campagna vaccinale.

    • Oggi (o meglio da vent’anni) In UE non solo non si vaccina più ma è proprio proibito il vaccino. http://www.epicentro.iss.it/ben/precedenti/marzo/3.htm
      Si è arrivati all’eradicazione dell’afta grazie ad una fase di profilassi vaccinale, preceduta anche dall’aftizzazione che minimizzava le perdite. Diciamo piuttosto che il Ruolo Unico è una vaccinazione, utile per evitare epidemie e stamping-out in periodo di forte circolazione del virus, cui potrebbe seguire una efficace eradicazione.

  3. @Cammalleri 23 e qcosa
    Nelle università anglosassoni ci sono di regola commissioni (in gran parte di membri esterni, e, in non pochi casi, anche stranieri) sia per il reclutamento (equivalente a un concorso, con più candidati) che per le promozioni (dove si esamina un solo candidato, ma spesso si chiede ai commissari esplicita e dettagliata comparazione con i migliori studiosi della stessa fascia cui si aspira a passare).

  4. Maurizio Matteuzzi mi prega di postare per lui questo messaggio che non riesce a inviare per problemi di autenticazione.

    «Ho seguito con molto interesse il dibattito sul Ruolo Unico, Poiché tale dibattito cominciava con un warning, a sintesi delle perplessità di Roars, ritengo ineludibile, quale coautore e firmatario della proposta, prendere da lì l’abbrivio, per un breve commento.
    Il punto 1) mette in conto alla proposta un aumento della burocratizzazione; la nuova valutazione “continua” aumenterebbe la burocrazia. Singolare conclusione: come se la nuova valutazione dovesse sommarsi alle vecchie. Chi potrebbe pensare una amenità del genere? Essa sarebbe molto più efficiente proprio in quanto farebbe piazza pulita “della pletora di strumenti di valutazioni allo stato esistenti”.
    Il punto 1), dunque, può essere derubricato a semplice fraintendimento, non mette conto parlarne. Più complesso il punto 2); che potrebbe essere riformulato così: la proposta non risolve il problema del precariato. In realtà, ad entrare più nel dettaglio, un qualche argomento a favore lo si potrebbe pure provare; ma il punto non è questo. Il precariato si risolve solo con investimenti proporzionali alla bisogna. Noi abbiamo voluto dimostrare che l’introduzione del RU sarebbe a costo zero. E l’argomento dovrebbe essere comprensibile. E’ chiaro che ci piacerebbe avere I mezzi per risolvere il problema del precariato; e della crisi economica; e della crisi Ucraina; e del Califfato… Quali riforme dello Stato italiano risolvono queste cose? Appare pertanto da qui tutta la capziosità del punto 2).»

  5. Cari amici (lo preferisco a colleghi), non vorrei deludervi, ma se in Italia ci sono cinquanta persone interessate al futuro dell’università, tra ricercatori, docenti e rettori, è pure molto. Di queste cinquanta una decina sta discutendo qua dentro.
    Ovviamente sono preoccupato perché apparentemente CoNPass e ROARS sembrano due squadre di rollerblade, mentre, mettendo nella stessa stanza Cammilleri e Mignone ne verrà fuori materia per un bel noir. Senza contare gli interventi di alcuni generali pronti a scatenare le loro truppe, con strategici modelli alla tedesca o all’inglese, ripresi dalla battaglia delle Ardenne.
    Ne consegue che difficilmente, se non ci impegnamo ad ascoltare, potremo comprendere gli uni le proposte degli altri e le obiezioni a quelle proposte. Cerchiamo per un momento di mettere da parte le riserve vere o presunte relative al basso profilo della proposta, anche dal punto di vista zooprofilattico, al populismo dell’iniziativa, da todos caballeros, al trozkismo della stessa, da confondere l’aristocrazia PO con i borghesi PA e la plebaglia RTI.
    Immaginate una proposta fatta in buona fede e nel modo ottimale: unica figura pre ruolo, accesso con concorso pubblico al RUDUV, progressione per valutazione periodica da parte di una commissione di pari con criteri disposti dal CUN e condivisi dalla comunità scientifica internazionale.
    Chiamiamola ipotesi A.
    L’alternativa che mi pare emerga dagli altri interventi è quella di lasciare lo status quo, richiedendo di riportare la percentuale di FFO a livelli tollerabili per un paese occidentale e eliminare il blocco del turn over, in modo da poter aumentare i bandi di concorso per i passaggi di fascia e per i contratti RTDb. A questo va aggiunto un lavoro del CUN e sull’ANVUR in modo da rivedere l’ASN.
    Chiamiamola ipotesi B
    La domanda che vi pongo è la seguente: ipotizzando la necessità prioritaria di immettere nell’università diverse decine di migliaia di nuovi ricercatori (diciamo 10000 per riparare agli ultimi anni di blocco del turn over) e considerando che gli abilitati a PA e PO erano già dopo la prima tornata di ASN circa 15000, cosa ci garantisce in questo contesto del paese la sostenibilità politica ed economica della ipotesi B?
    Avete fatto dei calcoli ? Si tratterebbe di circa 8000 punti organico, contro gli 800 assegnati nel 2014, considerando tutti concorsi interni. Potremmo dire che non occorre bandire concorsi per tutti gli abilitati, ma a furia di prendere in giro i docenti appuntandogli medaglie in petto….

  6. In questa discussione c’è un argomento che non è stato evidenziato a sufficienza: quando (in un’università ideale) dovrebbe avvenire la promozione RU>PA oppure PA>PO?Al momento del raggiungimento di una maturità scientifica.

    In realtà, quello che si è visto nell’era Gelmini, che però è continuato anche con gli altri ministri, è che le mancate promozioni sono state giustificate in base a ragioni di budget. Non ci sono i soldi quindi nego che tu possa aver raggiunto una data maturità scientifica, quando le due questioni dovrebbero essere assolutamente indipendenti. Lo stesso sistema delle mediane soffre di questo peccato originale. Ammettendo con uno sforzo notevole di fantasia che le mediane misurino effettivamente la maturità scientifica, il tutto è strutturato per idoneare meno persone possibili, quelli che siano “meglio della mediana” nella fascia superiore. Sette anni di sostanziale blocco delle carriere (per motivi economici e non di maturità scientifica) hanno creato una situazione assurda, in cui la maturità scientifica, che dovrebbe essere l’unico parametro per le promozioni, è stata di fatto mai valutata. Inoltre, il danno principale è che gli ingressi nell’università sono stati di fatto bloccati. Uscire da questa situazione non è per niente banale, e la proposta dell’articolo, che riassumerei in “creiamo un ruolo unico per gli strutturati lasciando perdere concorsi infiniti e concentriamo la massima parte degli sforzi vautativi per l’immissione di nuovo personale”, è meritevole di attenzione.

    • In molta sostanza:
      1 – SSD interi (!) selezionerebbero i nuovi professori a ruolo unico (PU?) emettendo giudizi personali
      2 – i selezionati entrerebbero a far parte di graduatorie in sedi per le quali esprimono la preferenza (un po’ come avviene per la scuola, mi pare)
      3 – le successive progressioni in scatti sono divise in tre fasce di scale (che quindi corrispondono alle fasce di RTI, PA e PO)
      4 – le progressioni interne sia alle fasce, che da una fascia all’altra, sarebbero valutate da commissioni di professori di ruolo sorteggiati fra tutti quelli del dipartimento
      5 – i passaggi dagli attuali ruoli alle fasce sono determinati dagli attuali ruoli e, se ho ben capito, si garantisce un assegno aggiuntivo in caso di sottoinquadramento rispetto a quello base di una delle tre fasce per equiparare i trattamenti economici nel passaggio
      6 – chi ha già l’abilitazione può essere inquadrato nella fascia successiva, previo ottenimento di almeno uno scatto triennale nella fascia precedente
      7 – la copertura finanziaria delle operazioni 6 è assicurata dal turn-over.
      .
      Conclusioni:
      – la carriera resta localizzata ma senza concorsi, diciamo che una volta entrati in ruolo il dipartimento ha potere (di cooptazione, in sostanza) sulla carriera dei singoli attraverso la valutazione, immagino dunque che si pensi di sostenere una valutazione ex-post per l’attribuzione dei fondi statali
      – la mobilità esiste in qualche modo all’ingresso, ma poi risulta piuttosto complicata visto il trasferimento degli oneri all’ateneo di arrivo e comunque motivata solo da esigenze personali, più che di carriera
      – i p.o. sarebbero usati per ingressi in ruolo e scorrimenti interni, verrebbero meno i concorsi a budget pieno aperti agli esterni in pratica.
      .
      Dubbi, che comunque potrebbero chiaramente derivare da possibili fraintendimenti del testo:
      – qualcuno ha fatto qualche conto per vedere quale copertura finanziaria richiederebbe il passaggio di tutti gli abilitati in fascia superiore? La vedo durissima, e come si farebbe l’eventuale selezione?
      – cosa avanzerebbe per i nuovi ingressi? Si pensa di creare una divisione di risorse da destinare a ingressi e promozioni?
      – cosa succede se non c’è copertura finanziaria in futuro per chi è stato valutato positivamente all’accesso alla fascia superiore? Si congela la sua posizione?
      – il già abilitato dovrebbe quindi ottenere aver già ottenuto uno scatto triennale nel nuovo ruolo per accedere alla fascia successiva? Questo significa che se gli stipendi restano bloccati anche gli abilitati lo resterebbero?!

    • La denominazione “scala di uscita” mi sembra alquanto bizzarra. In particolare per un docente che rimarrà nella “scala di uscita” per piu’ di 20 anni.

      Nel comma 3 dell’art. 4 si parla di “scala stipendiale unica conglobata di cui all’art. 2”, ma nell’art. 2 non vedo le parole “scala unica” e “conglobata”.

      Nel comma 5 dell’art. 2 si parla di “figura dirigenziale di riferimento”. Chi è? Se capisco è un amministrativo che prende piu soldi del docente, e lo stipendio del docente sarebbe una percentuale dello stipendio di questo amministrativo. E’ cosi?

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