Recensione a “Facoltà di scelta: l’università salvata dagli studenti. Una modesta proposta” di Andrea Ichino e Daniele Terlizzese
Pubblicata su “L’Indice dei libri del mese“, edizione di giugno 2013.
Il libro di Ichino e Terlizzese è l’esposizione ben sistematizzata di una proposta di cui si parla da due anni. L’idea non nasce da loro, ma è ispirata alla recente riforma operata dal governo Cameron in Inghilterra (alla quale è attribuito un calo di immatricolazioni). Gli autori hanno comunque fatto il lavoro non banale di vagliarne l’implementabilità nel contesto italiano.
I nodi cruciali sono questi:
a) gli atenei statali avviano corsi “di eccellenza” per la quale esigere una retta di 7500 euro in media, il quintuplo della media attuale;
b) agli studenti “meritevoli” si offre un prestito di 15000 euro per ognuno dei cinque anni per accedere a uno di questi corsi;
c) questi prestiti, con interesse al 2% (più inflazione), sono condizionati al reddito: ogni anno il contraente sarà tenuto a ripagarli solo se il suo reddito eccede i 15.000 euro lordi, e solo del 10% di questa eccedenza. Ovvero: in un anno con lordo di 12000 euro, non si ripaga niente; con un lordo di 75000 euro si ripaga 6000 ((75000-15000)/10).
Secondo Ichino e Terlizzese tutto ciò verrebbe a ingenerare un circolo virtuoso secondo il quale gli studenti “meritevoli”, avendo a disposizione il prestito, sarebbero liberi di affluire laddove gli atenei offrono i corsi migliori, stimolando così la competizione fra università nel tentativo di attrarre studenti (cioè risorse) migliorando l’offerta formativa. D’altronde, dicono gli autori, questo è un gioco dove nessuno perde e guadagnano tutti: le università migliori si rimpinguerebbero dopo una lunga stagione di tagli; gli studenti migliori avrebbero facoltà di scelta nonché una formazione (e di conseguenza) uno stipendio migliore, senza il rischio di venire perseguitati da Equitalia se mai guadagnassero meno di 15000 /anno lordi; vincolando gli atenei a dirottare una parte degli incassi di queste eccellenze alla beneficenza verso i corsi “non-migliori”, spiegano gli autori, pure loro avrebbero da guadagnarci.
Insomma, un futuro davvero idilliaco. Peccato che, come ogni promessa di futuro idilliaco, il sentiero radioso che ci viene mostrato nasconde diverse perplessità. Qui in poche righe ne cito solo due (chi si appassionasse può trovarne molti altri sui blog ScienzaInRete e Roars).
La prima riguarda l’argomento più forte per la proposta. Ichino e Terlizzese difendono l’idea che il finanziamento statale all’università (pagato tramite la fiscalità generale) sia profondamente ingiusto, perché la “categoria dei poveri”, pur pagando ognuno un IRPEF relativamente più basso dei ricchi, ne usufruirebbe in proporzione molto meno, ovvero manderebbe all’università molti meno figli. Lo Stato si comporterebbe dunque come “un Robin Hood al contrario”: è questo il titolo del secondo capitolo, in cui gli autori espongono l’argomento e ne concludono che sarebbe tutto sommato più equo se l’università venisse pagata di più da chi ne trae beneficio, giustificando così l’aumento delle tasse. Peccato che pochi giorni dopo l’uscita del libro questa tesi sia stata banalmente confutata (“Chi finanzia l’università pubblica? 19/02/2013, su lavoce. info), come gli autori stessi ebbero a riconoscere: i ricchi col loro Irpef pagano anche per i poveri. Insomma, un capitolo su tre è fondato su una manipolazione dei dati che porta a conclusioni subito sconfessate.
La seconda perplessità riguarda lo stile letterario. Ichino e Terlizzese, dimostrando di possedere una buona penna, operano nei confronti del lettore una manovra di “persuasione a tenaglia”: da un lato, impiegano una retorica da “tecnici” sciorinando dati e citazioni, per conferire al discorso l’aura di “verità scientifica” (ma senza passare al vaglio di un comitato scientifico). Dall’altro, come il migliore Moccia, si lanciano in passaggi carichi di pathos, come quello relativo alla storia commovente di Emma, brillante neodiplomata, che potrà scegliere il corso di laurea dei suoi sogni proprio grazie alla loro proposta. Ma Moccia può fare solo il sindaco fantoccio in un paesino di 300 abitanti, e sul partito di Monti il tecnico (con cui c’è anche Pietro, fratello del nostro Ichino) le ultime elezioni si sono espresse eloquentemente. Queste retoriche, almeno queste, in politica non attaccano più. Per fortuna.
marcoviola.filosofia@hotmail.it
il PUNTO è : non si può dire “l’università migliore”, perchè, in Italia, e lo sapete tutti, ci sono logiche di “scuola di appartenenza”, centri di potere e imposizioni statali (il parassita, chiunque esso sia, rimane lì).
L’università migliore è quella ove, tipo USA, chi comanda sceglie personalmente i migliori. I peggiori se ne vanno e non c’è lo Stato che difende i parassiti.
Non voglio dire che il sistema USA è per forza migliore di quello italiano, voglio dire soltanto che in quest’ultimo (italiano), non si può stabilire che un università sia migliore di un’altra, perchè non c’è possibilità di fare “calcio mercato” con i docenti e, quindi, di costruire un’università migliore.
Sono stato chiaro?
L’analogia con il mercato è un po’ ingenua. La gente compra sul mercato merendine che rendono obesi, automobili che inquinano, sigarette che aumentano la probabilità di sviluppare il cancro. Le indagini di mercato rivelano anche diffuse preferenze per libri e film di dubbia qualità. Da anni assistiamo in tv a programmi, presumibilmente anche questi apprezzati dal pubblico, in cui si dice che c’è una medicina “ufficiale” e una “tradizionale” e che gli extraterrestri hanno costruito le piramidi in Egitto. Potrei continuare. Quindi la tesi che il “calcio mercato” dei docenti ci consentirebbe di avere docenti e università migliori è basata su assunzioni ampiamente discutibili (per usare un eufemismo). Ciò detto, io sono a favore di un regime di assunzioni dei docenti a base locale (con idoneità nazionale) in cui una ragionevole valutazione (ex post) aiuti le università a migliorarsi (nei diversi sensi, non sempre compatibili, in cui è possibile migliorarsi: produrre migliore ricerca, avere insegnanti migliori, dare una migliore formazione in vista delle esigenze attuali del mercato del lavoro, e così via).
nota su gli usa: la politica di dipartimento si fa anche li, e conta, di meno, ma conta caro mio…io li ho visti un paio di consigli di dip, in the uk, per esempio dove se le davano di santa ragione a riguardo recruitment
No.
In particolare, mi chiedo
a)come valutare migliori/peggiori, e chi lo fa;
b)che garanzie si abbiano che questi fantomatici Rettori-CT, lasciati liberi di assumere i (presunti) migliori professori, abbiano interesse ad assumere questi piuttosto che i loro amici e parenti: dopotutto, se l’università andasse a rotoli non sarebbero loro a pagarne le conseguenze, visto che non sono “azionisti” ma solo dirigenti pubblici.
Ovviamente c’è una risposta facile e liberista a queste domande, come ce ne sono altre meno facili ma intelligenti.
Come ho detto nel mio commento va riformato tutto. Prendere alcuni pezzi di un motore della ferrari non fara’ andare meglio una panda, anzi….
Se si vogliono universita’ anglosassoni, il Rettore , come un CT o come un manager, viene assunto con un contratto a tempo e poi licenziato se non rende.
Vivendo in Inghilterra e lavorando in una universitá inglese, non posso che sottolineare la profonda differenza del sistema universitario e della societa’ tutta rispetto a quella italiana. Prendere quindi a modello il sistema anglosassone e portarlo sic et simpliciter in Italia e’ un errore madornale.
1. Come fa notare Anto, le universita’ si contendono non solo gli studenti ma anche i docenti. Questo in Italia e’ difficile non solo perche’ il sistema non lo permette (non e’ possibile dare aumenti di stipendi, incentivi economici per il trasferiemento, ecc…), ma anche la societa’ non e’ cosi’ “mobile” da facilitare il trasferimento delle persone da una universita’ all’altra. Un esempio su tutti: gli inglesi cambiano casa in media ogni 5 anni, il mercato e’ molto piu’ “liquido”, si vende e si compra con tasse e commissioni molto basse rispetto a quelle italiane.
2. In linea di massima gli studenti concludono i loro studi nel tempo stabilito, perche’ il sistema e’ tale da costringerli a farlo (scaduto il tempo vai fuori comunque con titolo piu’ scarso). Non penso sia meglio, ma quando solo il 40% degli studenti ci si chiede cosa faranno quei meritevoli del prestito durante il primo anno fuori corso (perche’ ce ne sono tanti anche fra i migliori).
3. Il mondo del lavoro anglosassone il titolo ha valenza diversa in base a quale universita’ lo ha rilasciato. In Italia non e’ cosi’, quindi mi chiedo come si garantisce che studenti non scelgano le universita’ con criteri che non riguardano la loro qualita’ (ad es. perche’ piu’ vicine, perche’ in localita’ piu’ economiche, ecc…).
Insomma, anche per rispondere a Marco, se si vuole il sistema anglosassone bisogna prenderlo tutto con i suoi pro e i contro.
Questo significa universita’ private, con consigli di amministrazione che guardano piu’ ai soldi che alla cultura, con la possibilita’ di licenziare e di fallire.
In ogni caso per migliorare ci vogliono investimenti, le riforme a costo zero non funzionaneranno mai.
Per Viola e Ricciardi,
non sta a me, super precario della ricerca, dare risposte, ma sta a chi è strutturato e prende lo stipendio oppure al Ministero o al Governo o al Parlamento (loro sì che sono pagati e che devono risolvere i problemi).
io ho soltanto svolto una considerazione: con i meccasnismi statali-paralizzanti il sistema (tutti i ricercatori lo stesso stipendio uguale, tutti i PA lo stesso stipendio, idem i PO), non si può dire quale università sia migliore di un’altra.
Non voglio dire che è un sistema sbagliato, solo non si può dire quale sia l’università migliore.
Va meglio ora?
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il mio contributo è questo:
è inutile parlare di “università milgiore di un’altra”, perchè il sistema (dell’entrata, dell’uscita e degli stipendi – tutti uguali – è bloccato ed è sempre uguale a se stesso).
Lasciamo pure il sistema italiano così come è, ma non si può dire che ci possa essere una competizione o un raffronto tra atenei, anche perchè – se siete accademici lo sapete – molte chiamate all’interno delle facoltà – spesso sono degli scambi di favore o oggetto di accordo tra i vari “capi scuola”. E qui, consentitemi, la competizione non c’entra nulla.
Riceviamo e volentieri pubblichiamo questa risposta di Andrea Ichino e Daniele Terlizzese.
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Rispondiamo schematicamente a Marco Viola.
1. La nostra proposta non trae ispirazione solo dalla recente riforma operata dal governo Cameron (incidentalmente, il rapporto su cui la riforma si basa è stato realizzato durante il governo Brown). Esperienze di questo tipo sono state da tempo realizzate in numerosi paesi (Australia, Nuova Zelanda, Canada, Svezia, Sud Africa, Cile, parzialmente gli Stati Uniti), la riforma inglese è solo una delle tante. Ma ringraziamo Marco per aver apprezzato lo sforzo di adattamento di queste esperienze internazionali alla situazione italiana.
2. Un elemento fondamentale di questo adattamento, che Marco dimentica nel riassumere i nodi cruciali della proposta, è la concessione di una vera e completa autonomia agli atenei partecipanti (per i corsi di laurea interessati) riguardo a tutti gli ambiti della loro attività; in particolare: disegno dell’offerta formativa, assunzioni, licenziamenti, retribuzioni e promozioni del personale docente e non, criteri di ammissione degli studenti, tasse universitarie (con il vincolo di una aumento medio di 7500 euro differenziato per reddito della famiglia d’origine). Senza menzionare questo ingrediente della proposta, in effetti è difficile capire perché dovremmo assistere a un circolo virtuoso nel nostro Paese (è la domanda che si pone “anto” nel suo commento al post di Marco, alla quale speriamo ora di aver risposto)
3. Quale sia l’effetto ridistributivo del finanziamento pubblico dell’università non è “l’argomento più forte per la proposta”. Tanto è vero che la nostra proposta non modifica l’attuale ridistribuzione, qualunque essa sia, perché il maggiore finanziamento privato che noi auspichiamo non va a ridurre l’attuale finanziamento pubblico. I meriti o demeriti della proposta sono indipendenti da tale ridistribuzione. Lo abbiamo ribadito in varie circostanze e soprattuto nel dibattito con Francesca Coin e Francesco Sylos Labini su http://www.roars.it e su http://www.scienzainrete.it e nella nostra risposta a Gragnolati e Pugliese su http://www.lavoce.it, che Marco dimentica di citare.
4. Nel merito, la nostra affermazione sulla dimensione e direzione della ridistribuzione non è stata “banalmente confutata”. Chiunque avesse la pazienza di leggere con attenzione quello che abbiamo scritto (nel libro, soprattutto nella sua versione elettronica, e nel dibattito che ne è seguito) non potrebbe negare che una quota rilevante di famiglie “povere” paga per l’università senza usufruirne, trasferendo così risorse a quelle famiglie che ne usufruiscono. Come interpretare questo fatto, e che giudizio darne, è questione su cui le opinioni possono differire, ma non c’è alcuna “manipolazione dei dati” da parte nostra; dati che, per inciso, abbiamo noi stessi fornito a Gragnolati e Pugliese, come è giusto che sia in ogni dibattito scientifico.
5. E comunque continuiamo a essere sorpresi dal vigore con cui alcuni dei nostri critici da sinistra finiscono per difendere il privilegio dei più ricchi di spendere poco o nulla per mandare i loro figli all’università, anche in aggiunta a quanto essi già pagano con la fiscalità generale. I ricchi, siamo convinti, ringraziano sentitamente per questa loro battaglia. Marco Viola ha proposto a Torino di moltiplicare le fasce di reddito che determinano le tasse universitarie pagate dagli studenti: il punto però non è moltiplicare le fasce di reddito ma aumentare quanto oggi viene pagato dai più ricchi.
6. Al contrario dell’Amleto di Shakespeare, Marco Viola è gentile per essere crudele: elogiando la nostra “buona penna” ci paragona al “migliore Moccia” (rabbrividiamo all’idea che ne esista anche uno peggiore). Ci siamo sforzati di coniugare la precisione con la chiarezza; se la nostra prosa risulta convincente, forse è merito della forza degli argomenti piuttosto che della retorica. Purtroppo, lo stesso non vale per alcuni dei nostri più “affezionati” critici.
Vedo che Ichino e Terlizzese continuano a pensare per compartimenti stagni. Praticamente nulla hanno risposto alle critiche centrate sulla decontestualizzazione della loro proposta rispetto alla realta’ economica, politica e universitaria italiana. Sembrano continuare a pensare che tutti i problemi nascano e finiscono sulla questione di maggior o minor rispondenza alle ipotesi teoriche di mercato perfetto.
Tuttavia chi si occupa seriemente di problemi di Universita’, non dovrebbe esimersi dall’ inserire le proprie ipotesi nella realta’. Realta’ che come ricordato comprende:
– un Paese in cui la mobilita’ (banalmente dal punto di vista logistico) e’ difficile;
– una generale mancanza di risorse (le nozze, ma anche qualsiasi riforma non si fanno coi fichi secchi e questo mi sembra il momento peggiore per chiedere riforme senza risorse). E’ prioritario dirottare risorse di credito (da qualche parte devono pur venire ?) su prestiti d’ onore o affini, in questo momento ?
– una carenza, latitanza di controlli ex-post, e mancanza di cultura a riguardo, dell’ intero sistema, universita’ private e centri di eccellenza inclusi, condizione indispensabile per innescare qualsiasi meccanismo virtuoso. E questi non vengono magicamente dalla sola liberalizzazione del mercato;
– una situazione drammatica dal punto di vista dell’ utilizzo del sistema universitario (i famosi indicatori legati al numero di laureati per abitante, confrontati con parametri europei);
– un fondamentale e ineludibile problema di mancanza di equita’ fiscale in un Paese con i noti tassi di evasione ed elusione fiscale, per cui apparentemente siamo un Paese in cui retribuzioni lorde al di sopra di 65000 euro annue sono eventi rari;
– livelli retributivi medi dei lavoratori dipendenti decisamente bassi in rapporto al costo della vita;
– un fenomeno di “fuga dei cervelli” che sarebbe bene cercare di contrastare (sempre se non si sia convinti che questo deve essere un Paese di soli camerieri e guide turistiche). Chiedersi se certe proposte non vadano nella direzione di incentivare il fenomeno aiuterebbe ad essere meno innamorati del proprio giocattolo teorico;
– l’ importanza, per un Paese come il nostro e in questo momento storico di incentivare competenze in settori che non garantiscono nell’ immediato grandi prospettive di lauti stipendi ma che possono diventare strategici. I meccanismi ipotizzati, sembrano invece pensati da chi ha presente solo e soltanto i modelli di mercato del lavoro piu’ frequenti per alcune tipologie di laurea;
– il confronto reale sulle tasse universitarie (e sui servizi che si ottengono) in altri sistemi europei, andando al di la’ dei soliti confronti fatti unicamente con UK e per di piu’ ignorando i livelli di servizio che hanno li’ gli studenti.
Si potrebbe continuare. Ma credo che sia chiara la critica di fondo: una proposta per migliorare il sistema universitario basata unicamente su un’ analisi economica astratta centrata sulle tasse degli studenti e scollegata dal contesto appare nella migliore delle ipotesi un esercizio accademico. Non e’ questo di cui abbiamo bisogno in questo momento. Forse se Ichino e Terlizzese andassero un po’ piu’ in giro nelle universita’ italiane ed europee, e non solo nelle facolta’ di economia, potrebbero scoprire che i problemi richiedono soluzioni un po’ meno semplici e meno a buon mercato di quanto sembrano pensare.
Giorgio Pastore, supponiamo anche che la valenza della proposta sia limitata ad alcuni contesti particolari, d’accordo.
Ma mi fa sorridere che in un Paese in cui si spende 3 milioni di euro per sperimentare una cura medica senza la minima base scientifica non si riesca ad avviare un paio di corsi di laurea di eccellenza a costo zero per il resto del sistema (l’interesse del 2% rende i prestiti un investimento tutt’altro che assurdo) e valutare l’efficacia della proposta a posteriori, invece che trincerarci dietro al fatto che l’Italia è l’Italia e tutti gli altri non ci capiscono, o tirare in ballo argomentazioni che semplicemente non c’entrano (perché questa proposta incentiverebbe la fuga dei cervelli?!).
Io sono disposto a scommettere soldi veri sul successo di una eventuale sperimentazione pilota, accetta la scommessa?
Per Pb: lavoro in un settore in cui esiste gia’ una formazione di eccellenza (SISSA, SNS). Nelle condizioni attuali non garantiscono a chi ne esce, anche al meglio, questi “ritorni economici” che innescherebbero i miracolosi circoli virtuosi di I&T.
Il risultato e’ che molti dei giovani piu’ brillanti, prendono da subito la strada per l’ estero. Capito cosa c’entra la fuga dei cervelli ?
I problema resta sempre lo stesso. Non si puo’ modificare solo un tassello per fare un mosaico diverso. E rifare i mosaici *costa*.
No, non c’entra. O meglio, lei sta dicendo che questa proposta non risolverebbe tutti i problemi dell’università italiana.
OK, mi sembra verosimile. E leggermente fuori tema.
mi scusi Pb, ma questa retorica della “scommessa” che anche Ichino e Terlizzese usano ripetere è un po’ mal posta, mi pare.
Ichino ad es. sostiene che la “scommessa” non avrebbe alcun costo per nessuno, non ci sarebbe che da guadagnarci per tutti. Due scenari che possono verificarsi:
a) 2 università, Firenze e Roma, investono per uno stesso corso di restauro di eccellenza, per rifarmi d’appresso all’esempio discusso da I&T. Roma però riesce ad attrarre l’80% degli studenti, e Firenze ne attrae molti meno, e di fatto CI PERDE DEI SOLDI (quelli necessari per “pagare il biglietto” per partecipare a questo “gioco a somma positiva” alla Fondazione per il Merito). Per I&T la cosa va benissimo così: dopotutto, la competizione serve (anche) a indebolire i poco adatti a reggere la sfida per far emergere i più adatti. Ma chi paga le conseguenze di questa “inadeguatezza” dell’Università di Firenze? Il Rettore? Gli studenti? I lavoratori?
b) uno studente bravissimo va avanti per 4 anni su 5 a frequentare un corso deluxe come quelli previsti da I&T. Purtroppo al quinto anno per qualsivoglia genere di problema non termina gli studi, e di fatto si ritrova privo del titolo-di-laurea-deluxe (o meglio: delle competenze-deluxe, visto che I&T vorrebbero abolire il valore legale…), ma con sul groppone 60.000 euro di debiti (+ interessi) da scontare. Ora, se è povero nessun problema: dopotutto sotto i 15.000 euro lordi annui nessuno ti verrà a cercare. Ma se si è nella c.d. “classe media”, quel prelievo del 10% della parte che eccede i 15.000 lordi probabilmente durerà tutta la vita (come dimostrerò in un futuro articolo), e sarà una spina nel fianco non indifferente.
Mi si potrà dire che questi scenari sono eccezioni piuttosto che regole. Se ne può discutere; ad ogni modo, il fatto che queste eccezioni siano POSSIBILI confuta la tesi troppo forte secondo cui “nessuno avrebbe da perderci”.
Tornando alla sua scommessa, Pb: è nobile da parte sua offrire di scommettere dei soldi sulla sperimentazione; ma visto che una riforma simile avrebbe impatti olistici su tutto il sistema universitario, questi andrebbero per lo meno elucidati, così da chiedere a tutti gli attori potenzialmente coinvolti dai risultati di questa “sperimentazione pilota” se sono anch’essi disposti ad accettare la scommessa.
Non ho capito se lei la scommessa (con me e non con l’Università di Firenze) l’accetta o no.
Ciò detto:
a) è interessante che anche nel suo esempio estremo, in realtà non ci siano sprechi del sistema nazionale. Se davvero l’Università di Firenze arriva a fare così rovinosamente male i suoi calcoli da fare un percorso di eccellenza che non attrae nemmeno abbastanza studenti da ripagarsi i basilari costi fissi, i soldi del “biglietto non saranno nemmeno sprecati, ma torneranno in circolo. Ciò detto, tutto è possibile, ma dare la stupidità (perché non sarebbe nemmeno opportunismo) di un rettore come dato scontato di partenza giustificherebbe l’abolizione di qualsiasi forma di autonomia universitaria, eccellenza o meno.
b) una “spina nel fianco non indifferente” un 10% per avere ricevuto una formazione di eccellenza?! Opinabile. Ma soprattutto, non può lasciarlo scegliere allo “studente bravissimo” in questione? Per quel che mi riguarda, non avrei dubbi (e non per autostima illimitata, ma perché quel “15 000 €” fa una differenza notevole rispetto a ciò che succede in altri Paesi).
Non ho mai detto che “nessuno avrebbe da perderci” nell’istituire/iscriversi ad un tale corso di eccellenza (posso pensare a scenari anche più catastrofici dei suoi), ma solo che “nessuno avrebbe da perderci” ad averne la _possibilità_.
L’idea che la priorità sia concentrare risorse per creare/potenziare atenei di eccellenza sul modello dei (costosissimi) atenei americani (nel 2012 le spese operative della sola Harvard superano il 60% del fondo di finanziamento ordinario dell’intera università italiana) è un mantra che viene raramente sottoposto ad analisi. Di solito viene giustificato con un argomento “circolare” ovvero che è necessario farlo perché la nazione interessata non ha un numero sufficiente di atenei tra le prime 100-200 università delle classifiche di Shanghai, QS, THE etc. Se si parlasse di ospedali si capirebbe meglio che l’esigenza primaria è fornire un servizio di qualità a tutti i cittadini. Lo stesso vale per le università che devono fornire istruzione agli studenti e ricerca alla società su tutto il territorio nazionale. Nel caso delle università, si cerca di motivare il beneficio dell’eccellenza con un argomento di “sgocciolamento” (“trickle-down”): l’eccellenza dei pochi per qualche motivo dovrebbe sgocciolare verso il basso irrigando tutto il sistema fino a condurre ad un globale innalzamento. Tuttavia, non sembra che ci sia qualche dimostrazione che il perseguimento della disuguaglianza accademica sia destinato ad innalzare il livello di tutto il sistema. Questo è il senso delle riflessioni pubblicate da Ellen Hazelkorn nel suo articolo “Do rankings promote trickle down knowledge?” (http://www.universityworldnews.com/article.php?story=20110729142059135), a suo tempo segnalato anche da ROARS (https://www.roars.it/do-rankings-promote-trickle-down-knowledge/), di cui riporto alcuni passaggi.
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There is a strong and vocal chorus arguing that investment in a few elite universities or scientific disciplines will ‘lift all boats’. This is based on the view that high-ranked universities are better than those lower ranked.
[..] However, it is not obvious that the elite model of knowledge creation will create sufficient, patentable or transferable knowledge that can be exploited and used by society.
Indeed, there is mounting evidence that concentration could reduce overall national research capacity with specific “knock-on consequences for regional economic performance and the capacity for technology innovation”, according to the 2003 Lambert Review.
The key factor underpinning improved research performance is the total level of investment. But ultimately it is the capacity to translate new knowledge into new or improved products and services – none of which is measured by rankings.
The ‘world-class’ concept has promulgated a model of higher education derived from a handful of well-established US elite universities with considerable budgets and endowment earnings.
But, should higher education policy simply be about “producing hordes of Nobel laureates or cabals of tenure and patent bearing professors”, according to a 2008 Lisbon Council document?
Higher education operates within a complex eco-system; fundamental changes will have long-lasting implications for society and the economy.
Governments and universities must stop obsessing about global rankings and the top 1% of the world’s 15,000 institutions. Instead of simply rewarding the achievements of elites and flagship institutions, policy needs to focus on the quality of the system-as-a-whole.
Certo che il system as a whole non va dimenticato (eufemismo). E certo che ha bisogno di investimenti. Ci può essere dell’ideologia nella tesi del “trickle-down” (avere avuto per anni come colleghi dei normalisti è stata un’ottima esperienza per me che non lo ero, ma rimane la mia esperienza assolutamente personale), e soprattutto in alcune sue implementazioni. Ma c’è sicuramente dell’ideologia nella tesi opposta secondo la quale le eccellenze sarebbero un ostacolo per una formazione generalizzata di qualità (a prescindere dal loro costo per lo Stato!).
Quanto delle tesi di Ichino e Terlizzese si possa considerare applicabile per l’intero sistema universitario è una questione che non ritengo banale. Probabilmente non i prestiti d’onore. Probabilmente sì l’idea che ai ricchi si possa semplicemente far pagare di più. Sicuramente sì l’idea che se una persona meritevole non si può permettere di pagarsi gli studi, esentarla dalle tasse non basta.
anche se Ichino la considera “acqua fresca” (cit.), trovo che una bella riforma della tassazione universitaria pensata per far pagare meno i più poveri (e quindi, se non si possono abbassare le tasse, di più i più ricchi, ahiloro) sarebbe un ottimo passo avanti. A UniTo l’abbiamo implementata, peccato che non sia ancora stata prodotta e pubblicata una relazione approfondita a riguardo; se il Ministro Carrozza volesse ergersi a difesa dell’accesso all’istruzione ai più deboli, sarebbe un ottimo punto da cui partire.
In quanto alle “eccellenze”: diffido di tutte le eccellenze proclamate apriori in base a motivi di ordine essenzialmente economico (es. IIT, ma anche i corsi della proposta di I&T).
Che “i ricchi col loro Irpef pagano anche per i poveri” me ne ero accorto gia’ 27 anni fa quando ero matricola.
Ero praticamente l’unico che pagava il prezzo massimo alla mensa universitaria.
Anche i figli dei docenti universitari (medici!!) pagavano meno di me.
E cosi, invece di andare a lavorare in banca come papy e gran-papy, pensai che per
“sembrare povero”
dovevo fare il professore universitario.