1. Un gigantesco puzzle impossibile a comporre
Una delle ricorrenti lamentele che si indirizzano all’università italiana è quella di non preparare i loro laureati per le professioni e per le esigenze di un mercato del lavoro sempre in continua evoluzione. Troppo astratta, generica, poco professionalizzante la preparazione che viene data nei curricula universitari, che non hanno nessuna connessione col mondo del lavoro e che pertanto non forniscono alle aziende le figure tecniche e i quadri di cui queste hanno bisogno. A tale esigenza si è risposto in passato attraverso la creazione della duplice articolazione della processo formativo (laurea triennale e magistrale), nella convinzione che le lauree magistrali potessero costituire l’anello mancate tra formazione e luogo di lavoro e nella illusione che si potessero attivare lauree triennali che – senza la necessità di un approfondimento disciplinare – potessero già dare la preparazione indispensabile per l’inserimento lavorativo.
Il più delle volte è stata questa una illusione: lo attesta il modo fallimentare in cui è stato implementato il modello 3+2, specie per quanto riguarda tutto il settore delle lauree non tecnicamente ben caratterizzate (e dunque le cosiddette humanities), nel quale il 3 fornisce una preparazione generica e sostanzialmente inutilizzabile in ogni contesto e il 2 non rappresenta affatto una articolazione del precedente percorso in ambiti più specifici, ma spesso solo una ripresa di quello che prima si è fatto; e ciò per la sopraggiunta esigenza di rispettare i requisiti minimi che non permettono la moltiplicazione dei corsi, per cui spesso ad un 3 corrisponde un solo 2, venendo quindi a mancare quel percorso di ulteriore specializzazione che invece doveva rappresentare il naturale prosieguo di un corso di carattere più generale. Tanto è vero che nei settori disciplinari più accorti (e più forti), come giurisprudenza e medicina, il 3+2 non è stato implementato, rendendo la formazione universitaria più adeguata alla specificità delle professioni da formare e senza catastrofi di carattere pedagogico.
Ma al fondo v’era – e ancora persiste, specie in alcune dichiarazioni che provengono dal mondo delle imprese – un azzardo di fondo: che fosse possibile fornire attraverso il sistema universitario e mediante il suo iter curriculare standard quelle figure finite che, come tanti tasselli di un gigantesco puzzle, potessero incastrarsi nelle caselle sempre cangianti e in continua ridefinizione del mondo lavorativo della società contemporanea. Un azzardo che ha dimostrato tutto il proprio carattere aleatorio perché, anche ammettendo un’ottima capacità previsionale delle figure lavorative necessarie, i tempi per mettere a regime corsi di laurea che rispondano alle esigenze del mondo del lavoro sono talmente lunghi – vista la lentezza della burocrazia ministeriale e universitaria e i tempi tecnici necessari – che nel contempo esse sono mutate, rendendo obsolete le figure che si volevano formare e quindi creando laureati decentrati e privi di punti di riferimento. Nel frattempo la distruzione di una buona formazione di carattere generalista – sia pur settorializzata per ampi campi disciplinari –, caratteristica dei corsi di laurea dell’università precedente al 3+2, e la sua sostituzione con percorsi sempre più specialistici e con discipline sempre più ridotte a pillole di sapere, ha creato laureati con competenze tecniche assai specifiche, scarsa flessibilità adattiva e poca creatività nel definire il proprio ruolo: mancano, infatti, quelle basi del sapere che sole permettono di ricollocarsi al suo interno senza eccessivi smarrimenti. Se una volta, ad es., un laureato in lettere (o giurisprudenza) seguiva un curriculum in cui non erano assenti apporti disciplinari diversi, invece ora una malintesa ricerca della specializzazione e della qualificazione fa seguire corsi di laurea segnati da una monocultura di scarso respiro, con la conseguenza che alla fine il laureato può fare solo l’insegnante di lettere, essendo incapace di assumere altri ruoli lavorativi, come invece era solito avvenire in passato.
2. Il mondo caotico dei master
Nel contempo – insieme all’inseguimento della preparazione professionale con i corsi di laurea – abbiamo assistito alla introduzione dei master di primo (dopo i tre anni) e di secondo livello (dopo la laurea magistrale). Tuttavia la loro fisionomia normativa non è stata del tutto definita in modo univoco: dovrebbero servire all’avviamento al mondo del lavoro, ma spesso hanno la caratteristica di un ulteriore corso aggiuntivo a quelli universitari, creando ulteriori specializzazioni spesso sconnesse col territorio. E ciò deriva dal fatto che – come abbiamo già spiegato in un precedente articolo – coesistono insieme i master regolati dalle normative nazionali emanate per l’università e i sistemi di alta formazione, e quelli invece organizzati da soggetti privati di diversa natura e qualità. Nel primo caso esiste una normativa che per l’università fa riferimento in sostanza al DM 509 del 1999 (prescindiamo qui dall’AFAM che comprende le altre istituzioni di alta formazione come Accademie di belle arti, l’Accademia nazionale di danza, ecc. vedi il nostro precedente articolo). In esso si stabilisce che «le università possono attivare, disciplinandoli nei regolamenti didattici di ateneo, corsi di perfezionamento scientifico e di alta formazione permanente e ricorrente, successivi al conseguimento della laurea o della laurea specialistica, alla conclusione dei quali sono rilasciati i master universitari di primo e di secondo livello» (art. 3, c. 8 – corsivo mio). Viene anche stabilito (art. 7, c. 4) che il master richiede l’acquisizione di almeno 60 crediti, che si aggiungono a quelli delle lauree triennali e magistrali. A questa stringata normativa a livello nazionale (ripetuta senza significative modifiche in successivi provvedimenti normativi, come ad es. il DM 270 del 2004) si aggiungono poi i regolamenti che i singoli atenei si danno e che disciplinano i master da loro gestiti, fissando requisiti per l’istituzione di carattere finanziario, organizzativo e gestionale, per la docenza, per i titoli di ammissione, le attività didattiche e la loro durata temporale, gli esami, le convenzioni con altri enti e organizzazioni e così via (si veda ad es. il regolamento dell’università di Bologna). Nella sostanza quasi tutto viene demandato alle singole istituzioni universitarie, il cui unico obbligo è quello dei 60 crediti minimi. È da notare che nessun riferimento esplicito è fatto ai master nella riforma Gelmini.
Accanto a quelli universitari sono nel contempo proliferati “master” organizzati da enti privati e associazioni varie, per i quali il titolo di “master” è una semplice mutuazione della denominazione universitaria: in questo caso non si rilascia un titolo riconosciuto dallo stato, essendo il corso per lo più una sorta di addestramento o specializzazione professionale (o supposta tale), il cui valore sta tutto nella qualità del percorso didattico, dei docenti e dell’organizzazione che li gestisce. Lucrando sulla denominazione e senza alcun vincolo normativo per il suo utilizzo, si organizzano così “master” (magari finanziati dall’UE) il cui valore è tutto da accertare caso per caso e che a volte si possono trasformare in autentiche truffe per coloro che vi si avventurano, spesso pagando costi di iscrizione assai salati (che possono giungere ai 6 mila-8 mila euro e anche più). Basta una piccola ricerca su internet per rendersi conto di ciò: vi sono master che non danno neanche informazioni su docenti, sui comitati scientifici e su molte altre cose fondamentali per valutarne la qualità e serietà; ma vi sono anche master che specificano tutto ciò e sono organizzati da categorie professionali, gruppi di aziende o specifici settori produttivi ed economici che nella sostanza selezionano e preparano in questo modo i quadri futuri che potrebbero essere da loro fruiti, con ciò completando e in parte sopperendo alla formazione universitaria; o semplicemente, con il marchingegno dello stage, si assicurano a cadenze semestrali mano d’opera specializzata non retribuita o con bassissimi salari, nella speranza di una assunzione stabile: si potrebbe affermare che in questo caso è il lavoratore a pagare il datore di lavoro per poter lavorare (tenendo conto anche della somma assai elevata pagata per la frequenza del “master”, che non dura affatto un anno come quelli universitari, ma si può esaurire nello spazio di due-tre mesi). Questi master ovviamente non danno crediti universitari, spesso non richiedono neanche il possesso di laurea (di primo o secondo livello) e certificano solo un percorso di studio e di tirocinio effettuato non avente alcun valore legale: in questo caso la condizione che verrebbe a configurarsi con la fantasticata e irrealistica abolizione del “valore legale” della laurea – da tanti auspicata come la panacea per l’università italiana – è di fatto già realizzata.
Abbiamo dunque nell’universo “master” una sorta di polarizzazione tra due realtà: i master universitari e quelli non-universitari, con inevitabili confusioni e possibilità di inganno. Quelli universitari dovrebbero dare la certezza di una qualità certificata e una serietà nella organizzazione e nel curriculum che riflette il prestigio e il livello qualitativo delle singole università e dei loro docenti. Tuttavia essi non sempre sono connessi in modo organico al mondo lavorativo e a volte (specie in ambito umanistico) rispondono prevalentemente ad esigenze disciplinari interne al mondo accademico; inoltre – a causa di una assenza di riorganizzazione normativa – si sovrappongono in maniera poco chiara a tutti gli altri titoli che le università rilasciano. Infatti, avendo i master la duplice funzione di “perfezionamento scientifico” e/o di “qualificazione professionale” (come recita il DM prima citato), in parte si sovrappongono ai corsi di dottorato, a quelli specializzazione e ai diplomi di perfezionamento di vario tipo che – secondo la normativa italiana – possono essere rilasciati dalle università italiane (vedi il sito sul quadro dei titoli italiani), sicché essi più che distinguersi per le finalità o le figure che formano, finiscono per essere diversi dagli altri titoli solo per le specifiche normative e i regolamenti che li reggono. Di contro i master non universitari sono, nei casi virtuosi (lasciando da parte quelli truffaldini e ingannevoli), espressione diretta del mondo del lavoro, delle professioni o delle stesse aziende e quindi incanalano i propri studenti verso uno sbocco occupazionale ben definito e che dà una qualche garanzia di “placement”, visto che sono gli stessi interessati che programmano questi master, anche in base alla proprie esigenze occupazionali. È in questo caso quasi sempre del tutto escluso il fine del “perfezionamento scientifico”, a favore dello sbocco lavorativo.
Sono ovviamente possibili master universitari che vengono organizzati con la partnership di aziende o gruppi di aziende e che quindi dovrebbero presentare i vantaggio delle due tipologie prima descritte; ma questi sono casi fortunati e per lo più gestiti da quelle università specializzate (come la Bocconi) o direttamente legate al mondo produttivo (come la LUISS). Ma anche in questo caso persiste la sopra menzionata sovrapposizione tra questi master e gli altri titoli rilasciati dalle stesse università che li organizzano e non sempre la partnership con i privati si traduce in un loro effettivo interessamento per le figure professionali formate, anche perché la loro gestione – almeno nelle università pubbliche – risente della farraginosità e delle lentezze burocratico-amministrative di una università sempre più ingessata da regolamenti, norme e lentezze nei processi decisionali, che la riforma Gelmini non ha affatto risolto, ma in molti casi sta contribuendo a ulteriormente esasperare.
E in effetti l’introduzione dei master in Italia è avvenuto, come al solito, a seguito di uno scimmiottamento del sistema anglosassone, senza tener conto del contesto complessivo in cui il master viene inserito. Negli USA, infatti, il master non ha nessuna pretesa di “perfezionamento scientifico”, in quanto si configura come un corso cui si accede dopo la graduation (che sarebbe la nostra laurea di primo livello, in genere di quattro anni) e ha prevalentemente lo scopo di permettere un’alta qualificazione spendibile già nel mondo del lavoro. Dopo si può ovviamente accedere al dottorato, il PhD, che invece costituisce il prerequisito indispensabile per la carriera scientifica all’università, ma è anche una qualificazione spendibile nel mondo del lavoro (tuttavia, in questo caso, la sua spendibilità dipende non dal “corso” che si è fatto, ma dallo specifico contenuto specialistico seguito dal singolo studente ed attestato dalla sua tesi di dottorato). Pur nella grande varietà e multiformità del sistema statunitense, esso sembra per questo aspetto meglio organizzato e più chiaro di quello italiano.
3. Un futuro per i master e il rapporto università-mondo del lavoro
In questa luce il master, così come è stato implementato in Italia, appare un’occasione sprecata, in quanto finisce il più delle volte per sovrapporsi senza frutto ai percorsi di laurea, reduplicando una ricerca per la preparazione professionale che nell’università, per quanto si faccia, è sempre difficile conseguire. Eppure esso potrebbe rappresentare la cerniera indispensabile e opportuna per collegare una formazione universitaria inevitabilmente di carattere generale con una preparazione e addestramento professionale (fatto di teoria e di stage addestrativi) flessibile e sempre in grado di adattarsi con facilità e rapidità alle esigenze del mondo del lavoro. Una società complessa e in rapida evoluzione ha bisogno non di figure professionali rigide, bensì plastiche: laureati capaci di acquisire nuove competenze anche al di là di quelle ottenute nel breve ciclo universitario e quindi in possesso di un armamentario concettuale in grado di renderli criticamente e intellettivamente autonomi. Non dunque la legnosità dello specialismo acquisito una volta per tutte, all’interno di corsi di laurea cablati su esigenze molto specifiche; piuttosto una formazione critica e generale, aperta e duttile, capace di adattarsi ai diversi contesti lavorativi ed in grado di acquisire in breve tempo le competenze necessarie per inserirsi pienamente nella professione cui le vicende della vita e le trasformazioni della società destineranno il laureato. Sono appunto queste le competenze che possono essere fornite dai master. L’università non può diventare un laboratorio di addestramento professionale, non può sostituirsi all’impresa, né può fornire delle specializzazioni professionali, che soltanto la pratica sul campo, nei luoghi di lavoro, può far acquisire; non deve fornire un prodotto finito, l’oliata rotella che perfettamente si incastri in un ipotetico e fantasticato meccanismo lavorativo, assai spesso partorito dalla fertile ed interessata fantasia dei docenti universitari.
Ecco allora l’importante funzione che potrebbero avere i master se una normativa saggia ne riformasse l’architettura e il ruolo all’interno del sistema universitario italiano: non un ulteriore, inutile titolo che si aggiunge e sovrappone a quelli già esistenti, ma il luogo in cui mercato del lavoro e mondo della formazione si incontrano mettendo insieme le competenze nel mondo universitario con quelle indubbiamente esistenti presenti al di fuori di esso e legate e specifici contesti produttivi e lavorativi. Una loro organizzazione duttile e facilmente adattabile al mutamento del contesto sociale, svincolata dai complessi procedimenti di valutazione e accreditamento che sempre più stanno ingessando l’università italiana e i suoi corsi di studio, cogestita dalle università e dal mondo produttivo, potrebbe costituire il canale fondamentale attraverso il quale si possono formare quelle specifiche figure professionali richieste dal mercato del lavoro, lasciando all’università la cura di una formazione complessiva più generale e di qualità, che prepari sia per specifiche figure professionali (come fanno già molte tipologie di lauree, ad es. ingegneria, giurisprudenza e così via) sia anche per ambiti disciplinari abbastanza generali, che potrebbero poi essere ulteriormente articolati in master più specifici e diretti a nicchie lavorative difficilmente coperte e copribili dai normali corsi universitari.
Un solo esempio: per fare il giornalista non è necessario – a mio avviso – uno specifico corso di laurea; basterebbe una buona laurea in lettere o in filosofia o in scienze politiche e poi un master in giornalismo (o in tutte le varietà che tale ambito conosce), organizzato con le organizzazioni professionali e le aziende ad esso interessate. I master così concepiti avrebbero anche un’importante funzione di riqualificazione professionale, di aggiornamento e di mobilità lavorativa che nella società di oggi sono sempre più richieste in ossequio alla cosiddetta “flessibilità”. Tutto ciò potrebbe inoltre portare ad un ripensamento del cosiddetto “numero programmato”: esso non dovrebbe essere più riferito ai corsi di laurea, che rispondono anche ad una esigenza di cultura e formazione generale, a quel diritto all’istruzione che fa parte dei fondamentali diritti umani e che permette di innalzare la qualità del capitale umano e la consapevolezza civile e democratica di una nazione. Invece esso sarebbe del tutto plausibile per i master per i quali, organizzati in consociazione (secondo una normativa agile e flessibile tutta da creare) con le categorie professionali e con gruppi di aziende accomunate da un comune profilo produttivo e spesso per conto proprie associate in categorie, sarebbe molto più agevole prevedere il fabbisogno nazionale di certe figure professionali come anche il profilo delle competenze ad esse necessarie. L’università fornirebbe, con i propri docenti, le competenze disciplinari di carattere teorico, le categorie professionali e le aziende fornirebbero le conoscenze tecnico-pratiche da loro ritenute indispensabili, oltre a permettere agli studenti consistenti periodi di tirocinio che – evitando il loro sfruttamento come mano d’opera gratuita – li preparerebbero ad un inserimento professionale senza traumi e soluzioni di continuità.
Infine il cosiddetto “prestito d’onore”, da tanti invocato per l’università, potrebbe essere riferito solo ai master, aventi una tassa di iscrizione più elevata che nella sostanza ne permetterebbe l’autofinanziamento, lasciando invece all’università il compito costituzionale di garantire una formazione culturale a tutti i cittadini (la “terza missione” sempre più trascurata nell’attuale politica dell’università). Ciò consentirebbe inoltre, grazie allo stage obbligatorio per ogni master (che non dovrebbe essere inferiore ai sei mesi), di fornire alle aziende della mano d’opera a basso costo atta sia a sostituire le attuali figure di apprendistato sia a ripagare il prestito d’onore concesso (sarebbero le aziende a farlo) e che potrebbe trasformarsi più facilmente (grazie anche ad una opportuna modifica della normativa esistente o ad incentivi) in un lavoro stabile.
Ma a tale fine sarebbe necessario un ripensamento della normativa esistente (o “inesistente”) sui master universitari, che fornisca un quadro complessivo e semplificatore rispetto alla normativa sovrappostasi negli ultimi anni, in modo da evitare che la giungla dei master organizzati al di fuori dell’università e dell’AFAM possa divenire una truffa per studenti e famiglie (ad es. impedendo che si dia la qualificazione di “master” a corsi che sono per lo più di preparazione professionale, allo stesso modo di come avviene col titolo di “laurea”). È anche necessario approntare strumenti normativi e organizzativi affinché la cogestione dei master tra università e soggetti privati possa effettivamente realizzarsi senza gli ostacoli burocratici e regolamentari che sembrano sempre più infittirsi in ambito universitario. Ed infine è necessario un ripensamento del modo in cui è organizzata attualmente la didattica e la ricerca universitaria, che dovrebbe conoscere una svolta (o un ritorno) a corsi di carattere più generalista che mirino non tanto a fornire competenze finite, ma a forgiare quello strumento “testa” senza il quale ogni successiva specializzazione per mezzo dei master sarebbe impossibile, facendo anche in modo che i laureati abbiano la possibilità e la capacità di effettuare una scelta quanto più ampia possibile tra le varie possibilità offerte dai master via via organizzati. I master possono rappresentare una grande risorsa per l’università e le aziende, forse l’uovo di Colombo, l’anello mancante tra il mondo della formazione universitaria e il mondo della produzione e delle professioni. Ma affinché si riesca a cogliere tale possibilità è indispensabile che mondo della produzione e sistema universitario abbandonino l’ideologia delle facili soluzioni e si rimboccano le maniche per pervenire ad una nuova e più razionale organizzazione della formazione e della ricerca.
E che dire dei disgraziati insegnanti precari costretti a pagare ogni due anni salatissimi master, di qualità più che discutibile anche quando promossi dalle università costrette a procacciarsi quattrinbi in ogni modo, per aver punti di modo da non essere retrocessi nelle graduatorie, moderna forma dell’acquisto delle cariche di medievale memoria? Certo che i master andrebbero ripensati, come tutto il resto, affidato a una logica che scimmiotta il mercato co i nemeretti dell’Anvur!
Commento giustissimo! e’ una vergogna che una amministrazione pubblica attribuisca un punteggio, ai fini dell’assunzione a “masters” a volte costosissimi e sempre di contenuto incerto.Come mai i sindacati della scuola hanno accettato questa stortura e questa ingiusta gabella inflitta ai docenti precari?
Orrenda poi la terminologia “master” che mimica un’espressione inglese che da sola si traduce a volte come “signorino”, altre volte come “padrone”, a volte ancora come “maestro” o “esperto”, e solo accompagnata dalla parola “degree” o dalle specificazioni “of arts”, “of philosophy” ecc. indica un titolo accademico.
Quando fu proposto al direttore generale per l’università di sostituire la denominazione di “laurea specialistica” con quella più omogenea alla terminologia internazionale di “laurea magistrale”, fu anche proposto di sostituire la denominazione “master” con “diploma di perfezionamento”. Le due proposte erano collegate: si voleva essere più vicini alla terminologia in uso all’estero (“master of arts, “maitrise”), evitando di creare confusione nei riconoscimenti accademici. Ma la terminologia di “master” fu mantenuta.