Una recente sentenza della Corte Costituzionale ha affermato che “le legittime finalità dell’internazionalizzazione non possono ridurre la lingua italiana, all’interno dell’università italiana, a una posizione marginale e subordinata, obliterando quella funzione, che le è propria di vettore della storia e dell’identità della comunità nazionale, nonché il suo essere, di per sé, patrimonio culturale da preservare e valorizzare”. Conseguentemente, i corsi di laurea interamente in lingua straniera potranno affiancare, non sostituire, quelli in italiano, garantendo sempre un percorso formativo nella nostra lingua. La sentenza non chiude la vicenda, che dovrà tornare di fronte al Consiglio di Stato, mentre è ormai improcrastinabile il recepimento dei principi enucleati dalla Corte mediante atti di indirizzo generali, rispettosi dell’autonomia universitaria e, insieme, del primato della lingua ufficiale della Repubblica, anche al fine di evitare ulteriori violazioni degli stessi principi, con gli inevitabili riflessi sulla programmazione universitaria.

Riceviamo e volentieri segnaliamo la seguente lettera aperta  indirizzata al Presidente della Repubblica e al Presidente del Consiglio dei Ministri (più di 2.400 firme al 12 marzo 2017). Tra i primi firmatari il Presidente dell’Accademia della Crusca e il Presidente emerito, oltre a 54 docenti del Politecnico di Milano.

Link per firmare: L’italiano siamo noi

 

L’italiano siamo noi

Con una recentissima sentenza (n. 42/2017), la Corte costituzionale ha ribadito la centralità costituzionalmente necessaria della lingua italiana, quale elemento fondamentale di identità individuale e collettiva, nonché elemento costitutivo della storia e dell’identità nazionale.

Il giudizio dinanzi alla Corte – traendo origine dalle delibere del dicembre 2011, con le quali il Politecnico di Milano, imponeva l’inglese come “lingua ufficiale” nelle lauree magistrali e nelle Scuole di dottorato, escludendo, dunque, l’italiano – aveva ad oggetto l’art. 2, c. 2, lettera l), della legge 240/2010, che consente, per il miglior perseguimento dell’internazionalizzazione, l’attivazione di corsi “anche” in lingua straniera.

Ora, dice la Corte, “le legittime finalità dell’internazionalizzazione non possono ridurre la lingua italiana, all’interno dell’università italiana, a una posizione marginale e subordinata, obliterando quella funzione, che le è propria di vettore della storia e dell’identità della comunità nazionale, nonché il suo essere, di per sé, patrimonio culturale da preservare e valorizzare”.

Non solo. L’esclusività dell’inglese, “imporrebbe, quale presupposto per l’accesso ai corsi, la conoscenza di una lingua diversa dall’italiano, così impedendo, in assenza di adeguati supporti formativi, a coloro che, pur capaci e meritevoli, non la conoscano affatto, di raggiungere «i gradi più alti degli studi», se non al costo, tanto in termini di scelte per la propria formazione e il proprio futuro quanto in termini economici di optare per altri corsi universitari o, addirittura, per altri atenei”.

Detta imposizione potrebbe, inoltre, “essere lesiva della libertà di insegnamento, poiché, per un verso, verrebbe a incidere significativamente sulle modalità con cui il docente è tenuto a svolgere la propria attività, sottraendogli la scelta sul come comunicare con gli studenti, indipendentemente dalla dimestichezza ch’egli stesso abbia con la lingua straniera; per un altro, discriminerebbe il docente all’atto del conferimento degli insegnamenti, venendo questi necessariamente attribuiti in base a una competenza – la conoscenza della lingua straniera – che nulla ha a che vedere con quelle verificate in sede di reclutamento e con il sapere specifico che dev’essere trasmesso ai discenti”.

Molto saggiamente, dunque, la Corte, consapevole dell’importanza di una lingua veicolo della comunicazione scientifica e tecnologica, non ha dichiarato l’illegittimità della disposizione scrutinata, ma ne ha fermamente censurato l’interpretazione aberrante, perché della legge “è ben possibile dare una lettura costituzionalmente orientata, tale da contemperare le esigenze sottese all’internazionalizzazione (…) con i principi di cui agli artt. 3, 6, 33 e 34 Cost.”, sicché i corsi di laurea interamente in lingua straniera potranno affiancare, non sostituire, quelli in italiano, garantendo sempre un percorso formativo nella nostra lingua.

Insomma, l’affermazione dell’italiano come «unica lingua ufficiale» del sistema costituzionale «non ha evidentemente solo una funzione formale, ma funge da criterio interpretativo generale», teso a evitare che altre lingue «possano essere intese come alternative alla lingua italiana» o comunque tali da porre quest’ultima «in posizione marginale» (Corte cost. n. 159/2009).

D’altra parte, secondo la Corte, proprio l’esigenza dell’internazionalizzazione – correttamente intesa – fa sì che il primato della lingua italiana risulti oggi “costituzionalmente indefettibile” non certo quale “difesa di un retaggio del passato, inidonea a cogliere i mutamenti della modernità” ma in quanto “garanzia di salvaguardia e di valorizzazione dell’italiano come bene culturale in sé”, elemento di una “biodiversità linguistica”, che costituisce espressione della specificità del modello europeo di società, nel contesto di una politica che concilia democrazia, pluralismo culturale e integrazione sovranazionale degli ordinamenti.

Il punto è che la sentenza non chiude la vicenda, che dovrà tornare di fronte al Consiglio di Stato mentre è ormai improcrastinabile il recepimento dei principi enucleati dalla Corte mediante atti di indirizzo generali, rispettosi dell’autonomia universitaria e, insieme, del primato della lingua ufficiale della Repubblica, anche al fine di evitare ulteriori violazioni degli stessi principi, con gli inevitabili riflessi sulla programmazione universitaria.

Più ancora, è urgente – e i tempi sembrano maturi – per mettere in campo tutte le azioni (legislative, di ricerca, di formazione, di digitalizzazione dell’immenso patrimonio librario e archivistico italiano, etc.) – atte a tutelare, promuovere e valorizzare la nostra lingua, in Italia e all’estero, a iniziare dall’esplicito riconoscimento in Costituzione dell’“italiano come fondamento culturale della Repubblica e propria lingua ufficiale”.

È tempo, insomma, di dar vita a una nuova, diversa e attiva politica linguistica italiana.

Maria Agostina Cabiddu – Politecnico di Milano

Emilio Matricciani – Politecnico di Milano

Adriana Angelotti – Politecnico di Milano

Stefano Crespi Reghizzi – Politecnico di Milano

Giancarlo Consonni – Politecnico di Milano

Mario Fosso – Politecnico di Milano

Renzo Rosso – Politecnico di Milano

Graziella Tonon – Politecnico di Milano

Maria Cristina Treu – Politecnico di Milano

Lorenzo Mezzalira – Politecnico di Milano

Giuseppina Macrì – Avvocato in Arezzo

Alessandro Dama – Politecnico di Milano

Michele Gasparetto – Politecnico di Milano

Claudio Marazzini – Presidente Accademia della Crusca

Nicoletta Maraschio – Presidente emerito Accademia della Crusca

Paolo Caretti – Università di Firenze

Luigi Lombardi Vallauri – Università di Firenze

Rosamaria Marini – Materie letterarie Istituti di istruz. superiore – Firenze

Maria Luisa Villa – Accademia della Crusca

Giovanni Serges – Università di Roma 3

Emanuele Banfi – Università degli Studi di Milano Bicocca

Domenico Storace – Università di Firenze

Michele Gazzola – Humboldt-Universität zu Berlin

Paolo Berdini – urbanista

Lidia Decandia – Officina dei saperi

Francesco Trane – Officina dei saperi

Laura Marchetti – Officina dei saperi

Daniela Poli – Università di Firenze

Carlo Cellamare – Officina dei saperi

Ilaria Agostini – Università di Bologna

Giuseppe Saponaro – Officina dei saperi

Vittorio Boarini – Officina dei saperi

Roberto Budini Gattai – Officina dei saperi

Romeo Bufalo – Università della Calabria

Piero Bevilacqua – Università la Sapienza

Pier Luigi Cervellati – urbanista

Maria Pia Betti – scuola secondaria – Grosseto

Antonio Porta – Politecnico di Milano

Luca Piero Marescotti – Politecnico di Milano

Amedeo Bellini – Politecnico di Milano

Giovanni Baule – Politecnico di Milano

Luigi Procopio Quartapelle – Politecnico di Milano

Stefano Longhi – Politecnico di Milano

Pellegrino Bonaretti – Politecnico di Milano

Marco Lucchini – Politecnico di Milano

Francesco Vescovi – Politecnico di Milano

Arturo Baron – Politecnico di Milano

Marco Politi – Politecnico di Milano

Aldo Castellano – Politecnico di Milano

Marina Cristina Tanzi – Politecnico di Milano

Maurizio Vogliazzo – Politecnico di Milano

Marcello Magoni – Politecnico di Milano

Giuseppina Gini – Politecnico di Milano

Alfredo Ronchi – Politecnico di Milano

Valentina Dessi – Politecnico di Milano

Ezio Puppin – Politecnico di Milano

Fabrizio Campi – Politecnico di Milano

Gianfranco Pertot – Politecnico di Milano

Anna Tiziana Drago – Università degli studi di Bari

Alessandra Cherubini – Politecnico di Milano

Francesco Repishti – Politecnico di Milano

Federica Boschetti – Politecnico di Milano

Franco Chiaraluce – Università Politecnica delle Marche – Ancona

Pierantonio Frare – Università Cattolica di Milano

Elena Landoni – Università Cattolica di Milano

Francesco Spera – Università degli Studi di Milano

Paola Petrini – Politecnico di Milano

Lorenzo De Stefani – Politecnico di Milano

Gianfranco Fiore – Politecnico di Milano

Cesare Mario Arturi – Politecnico di Milano

Angelo G. Landi – Politecnico di Milano

Amedeo Bellini – Politecnico di Milano

Luigi Pietro Maria Colombo – Politecnico di Milano

Paola Ponti – Università Cattolica di Milano

Antonio Zollino – Università Cattolica di Milano

Enrico Gianluca Caiani – Politecnico di Milano

Mariateresa Girardi – Università Cattolica di Milano

Silvia Morgana – Accademia della Crusca e Università degli Studi di Milano

Lorenzo Giacomini – Politecnico di Milano

Luigi Tesio – Università degli Studi di Milano

Fabrizio Frezza – Sapienza Università di Roma

Frank Marzano – Sapienza Università di Roma

Cristina Tonelli – Politecnico di Milano

Maurizio Quadrio – Politecnico di Milano

Anna Anzani – Politecnico di Milano

Giuseppe Polinemi – Università degli Studi di Milano

Maria Rosa Giacon – docente di Liceo – Venezia

Paola Polito – Lettrice di Italiano – Università di Copenaghen

Federica Millefiorini – Università Cattolica di Milano

Annalisa Andreoni – IULM – Milano

Giancarlo Gioda – Politecnico di Milano

Lucio Curreri – Université de Liège

Massimo Prada – Università Cattolica di Milano

Secci Rosa – pensionata

Secci Battistina – pensionata

Secci Caterina – pensionata

Giovanni Pighizzini – Università degli Studi di Milano

Gianfranco Bonola – Università degli Studi Roma 3

Enrico Elli – Università Cattolica di Milano

Mario Fiorentini – Università di Trieste

Elena Granata – Politecnico di Milano

Gabriele Crespi Reghizzi – Università di San Pietroburgo

Cesira Macchia – Politecnico di Milano

Lucinia Speciale – Università del Salento – Lecce

Cristina Bergo – Politecnico di Milano

Antonello Boatti – Politecnico di Milano

Rocco Ronza – Università cattolica di Milano

Luigi Tesio – Università degli Studi di Milano

Donatello Santarone – Università degli Studi Roma 3

Marcello Buiatti – Università di Firenze

Sergio Brenna – Politecnico di Milano

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36 Commenti

  1. Mussolini quando volle italianizzare il SudTirolo arrivò a cambiare i nomi sulle lapidi dei cimiteri. Nel calcio non si parlò più di cross ma di traversone, il rugby divenne palla ovale, il film divenne pellicola, il colore bordeaux divenne colore barolo (giuro è vera) Adesso se avremo uno studente straniero John Smith, Jean Forgeron gli cambieremo il nome in Giovanni Fabbro.
    In realtà l’ Italia è un paese caratterizzato da plurilinguismo, considerando le molte comunità alloglotte e dove l’uso del codice dialettale è tuttora ampiamente adottato negli scambi comunicativi quotidiani. In una parodia di Totó sull’ epoca fascista Galileo Galilei divenne Galileo Galivoi.
    Non si può dividere l’ Italia tra i nostalgici del “piccolo mondo antico” e certi quadri intermedi di aziende (principalemente) del nord che per informarti ti devono “briffare…”. L’uso della lingua inglese nella comunicazione scientifica è abituale in tutto il mondo, molte università tedesche, olandesi o scandinave, nelle materie scientifiche fanno lezione senza problemi anche in inglese.

    • Tutta la differenza tra noi e le molte università tedesche, olandesi o scandinave sta in quel “anche”.

    • Cambiare il nome a uno studente straniero? Come battuta è un pochino debole.
      In ogni caso non esiste solo la comunicazione scientifica in inglese. Il mondo è assai più vasto. Quando non esisteva il numero chiuso a medicina venivano in Italia parecchi studenti stranieri e si adattavano ad ascoltare le lezioni in italiano senza problemi: dopo pochi mesi lo parlavano già tutti.

    • Non è vero che L’Italia è particolare in quanto a plurilinguismo.
      L’Italia non è più plurilingue della Francia e della Germania, giusto per citare i paesi più grossi che hanno una situazione linguistica simile all’Italia. Francia, Italia e Germania hanno ciascuna una pluralità di lingue (cioè di varietà dialettali) già in origine molto simili fra loro, e che senza problemi da SECOLI usano una lingua comune (il francese, l’Italiano, il tedesco standard). La Germania in particolare credo sia più ‘plurilingue’ dell’Italia, in quanto i dialetti del nord appartengono al gruppo ‘basso-tedesco’ mentre il tedesco standard è ‘alto-tedesco’.
      Vi è anche una zona della germania dove si parla il frisone, che
      è sensibilmente diverso dal tedesco standard. In molte città del nord germania vi sono le doppie scritte.
      Se un linguista sta leggendo potrà confermare.

    • Per quanto riguarda le scienze umane e sociali io non le considero nel discorso solo perché sarebbe troppo facile difendere l’insegnamento in Italiano… non c’è più controversia, è un’ovvietà.

    • “Battaglia provinciale e retrograda. Studiate l’inglese please.”
      __________________
      La battaglia “provinciale e retrograda” viene citata come “a case worth carefully watching” da University World News in un articolo di Rosemary Salomone (Kenneth Wang Professor of Law at St John’s University School of Law, USA), che segnala anche la lettera aperta “L’italiano siamo noi”.
      __________________


      __________________
      «Meanwhile, an ongoing petition posted on the internet and directed to the president of the Republic and other high level officials, gathered more than 1,000 signatures in just four days. The numbers continue to grow. Entitled “L’italiano siamo noi”, it calls for a “new, diverse and active Italian language policy”.

      On its face are the images of Dante, the father of modern Italian, and Galileo, the father of modern science: icons from Italy’s storied past and symbols of what some fear may be forgotten in the race towards English instruction.

      The Constitutional Court’s decision is significant for Italian universities and especially for the Polytechnic Institute. Yet the public response it has elicited raises equally important questions.

      Will the passions unleashed in preserving the national language sweep beyond academia and beyond Italy? Will the decision’s legal weight give momentum to a backlash against English and globalisation eroding national identities?

      The Italian Constitution is not unique in protecting language rights and education access. So will forces in other countries follow Italy’s lead and draw the courts into the debate over global English? Or will the initial fervour soon evaporate in the air of academic “business as usual”?»
      http://www.universityworldnews.com/article.php?story=20170307132621476

    • Ma lei sta scherzando o dice sul serio? Davvero lei crede che
      se uno conosce bene l’inglese, e lo parla fluentemente, non firmerebbe mai questa petizione?
      Se crede questo, allora lei è STRA-provinciale…..

    • Mi sarei aspettato un commento in inglese.

      Sulla battaglia “provinciale e retrograda”, è un opinione. Come è opinione che per fare corsi universitari attrattivi per gli stranieri l’ unico problema sia la lingua inglese.

      Sono fatti:
      1. la non attrattività per studenti olandesi, tedeschi, britannici, USA dei nostri corsi di studio interamente in lingua inglese; forse potrebbe essere un’ idea sprovincializzare prima il nostro sistema di borse di studio e residenze universitarie ?
      2. che in germania, francia, olanda ed altri paesi con cui vorremmo confrontarci e competere non tutti gli insegnamenti sono in inglese;
      3. che il livello di conoscenza dell’ inglese dei nostri studenti e’ in media peggiore di quello dei loro coetanei in molti dei paesi europei e che di questo non dovrebbe farsi carico l’ Università; ma non possiamo neanche pensare che tutti i problemi debbano ricadere sugli studenti e le loro famiglie.
      4. che il mondo del lavoro italiano chiede anche competenze relative alla redazione e comprensione di rapporti tecnici scritti in italiano.

    • @Giorgio Pastore: devo spezzare una lancia però a favore degli studenti italiani che sanno l’inglese ‘meno dei loro colleghi’.
      Questo è vero solo per i loro colleghi olandesi, tedeschi e scandinavi, ed è ovvio che sia così: l’inglese è una lingua germanica come l’olandese, qualunque versione del tedesco, e qualunque lingua scandinava. E’ del tutto normale che in quei paesi l’inglese sia mediamente appreso meglio che non in Italia. Gli olandesi sono praticamente bilingue, ma …. basta fare un semplice esempio, la classica frase ‘il libro è sul tavolo’, in Inglese è ‘the book is on the table’ in olandese è: ‘de boek is op de tafel’. Domanda: è più facile per un italiano o per un olandese parlare inglese…? Certe volte gli italiani esagerano alquanto nell’autocritica.. I Francesi non parlano meglio l’inglese: hanno quasi tutti un accento francese pesantissimo che è veramente disturbante, E comunque il francese ha molte più parole simili all’inglese che non l’italiano. Se poi andiamo sugli orientali, questa presunta ‘cattiva conoscenza dell’inglese’ io non la vedo proprio. Se andate in Giappone vedrete che il livello medio di conoscenza dell’inglese è lì inferiore persino al ‘restaurant english’ che parlano quasi tutti gli italiani.

    • Errata corrige: è ‘het boek is op the tafel’, boek è neutro, e il suo articolo è ‘het’. Comunque cambia poco, la similitudine con l’inglese rispetto all’italiano si vede già in un semplice esempio.

  2. Sembra che l’articolo di Rosemary Salomone non veda contraddizione fra la ‘protezione dei diritti del linguaggio e l’accesso all’educazione’ e la decisione del Politecnico di Milano di bandire l’italiano dal Politecnico stesso….

    • Trovo difficile prendere una posizione netta in questa contesa, ma ricordo che il Politecnico di Milano non voleva “bandire l’italiano dal Politecnico stesso”, ma svolgere dei corsi di laurea magistrale (non triennale) solo in inglese.

  3. I soldi per fare gli investimenti necessari ad accrescere le conoscenze linguistiche dei ragazzi non ci sono. In Italia, ad esempio, la art. 1, comma 7, della l. 107/2015 (c.d. “Buona scuola”), prevede che l’insegnamento delle lingue straniere tramite metodologia CLIL (acronimo per “apprendimento integrato di lingua e contenuto”), cioè insegnare in lingua straniera di una materia non linguistica, deve essere attuato “senza nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica”, cioè gratis. L’austerità fiscale e l’anemica crescita economica non fanno intravvedere nuove risorse all’orizzonte.

    http://www.michelegazzola.com/brexit.html

  4. trovo ridicolo chi crede che i giovani stranieri vengano in italia per sentie lezioni in inglese. Alcuni (la maggioranza) lo sanno meglio del docente. Vengono per altre cose. Il fascino della nostra terra, bellezza, cultura tradizione etc. Non c’è dubbio che la lingua internazionale della scienza sia diventata l’inglese, ma lo scambio più proficuo si svolge ben oltre la aule universitarie, nei laboratori in cui la collaborazione, l’interazione continua il prevalere del fare insieme è ben più importante della lingua anche se sulla lingua scientifica si basa. Mi permetto di insistere poi sul fatto che i sistemi di traduzione istantanea stanno faceno passi da gigante Google Neural Machine Translation System (GNMT) . Mi sbaglio?

  5. A me pare che il dibattito nasca su una forzatura. Quando si parla di corsi in inglese si parla di corsi di laurea magistrale (o dottorato) di ambiti scientifico-tecnici in cui la lingua dominante è comunque l’inglese. Qualcuno ha in mente atenei in cui si vogliano proporre in inglese la storia dell’arte o le scienze politiche? E’ pacifico che in Italia non si insegni giurisprudenza in inglese. C’è bisogno di dirlo?
    Ma in molte materie scientifico-tecniche (penso alle Biotecnologie, all’informatica e a molte altre) la letteratura, la terminologia ed i congressi sono esclusivamente in inglese. Insegnare tali materie in italiano comporta spesso la creazione di terminologie ad hoc goffe ed inutili. Penso all’uso di “ritornare” per le funzioni, alle “stringhe”, alla fatica inutile di tradurre “helix-turn-helix” e distinguerlo dalla traduzione di “helix-loop-helix”, creando solo confusione negli studenti, senza alcun beneficio.

    Per quanto riguarda l’attrazione di studenti stranieri nei corsi magistrali o di dottorato in ambito scientifico-tecnico, è chiaro che nessuno immagina di invogliare Inglesi, Statunitensi o Australiani. Il punto è facilitare la vita a Greci, Croati, Bulgari, Lituani, Cinesi e via dicendo che magari potrebbero essere interessati ad i nostri corsi ma che avrebbero problemi a seguirli in italiano, che (strano!) è un po’ meno studiato dell’inglese in giro per il mondo.

    • “Qualcuno ha in mente atenei in cui si vogliano proporre in inglese la storia dell’arte o le scienze politiche? E’ pacifico che in Italia non si insegni giurisprudenza in inglese. C’è bisogno di dirlo?”
      ________________
      Al Politecnico di Milano si era deciso di eliminare la didattica in italiano da tutte le lauree magistrali incluse quelle di architettura, che non sono poi così estranee alla storia dell’arte (e dove anche le questioni urbanistiche hanno buone ragioni per essere legate al territorio sia in termini linguistici che legislativi). paolomal pensava di formulare una domanda retorica, ma forse c’era veramente bisogno di dirlo.
      ================
      “insegnare tali materie in italiano comporta spesso la creazione di terminologie ad hoc goffe ed inutili”
      ________________
      Si possono benissimo usare termini tecnici in inglese all’interno di un corso in italiano. Se parlo di stimatori “non polarizzati” spiego ai miei studenti che nella letteratura in lingua inglese si traduce “unbiased” e che altri sinonimi italiani sono “stimatori corretti” e “stimatori non deviati” (più desueto).
      ================
      “è chiaro che nessuno immagina di invogliare Inglesi, Statunitensi o Australiani. Il punto è facilitare la vita a Greci, Croati, Bulgari, Lituani, Cinesi”
      ________________
      Fermo restando che è lodevole favorire la circolazione delle persone e delle idee, sarebbe prioritario garantire il diritto allo studio degli studenti italiani e migliorare la qualità della didattica anche al fine di ridurre abbandoni e ritardi. Molti stranieri, visto il buon livello delle nostre università e lo scarso livello del nostro mercato del lavoro, si laureano da noi e poi emigrano in altre nazioni europee. Offriamo un servizio (lodevole) ma non mi è chiaro se l’internazionalizzazione all’ingresso (che spesso comporta un abbassamento del livello della formazione che offriamo) sia la panacea che si vuol far credere. Ci sono ovvie esigenze di scambio e circolazione (vedi la Cina per esempio), ma potrebbero essere assolte con iniziative mirate da parte degli atenei interessati (e che hanno le risorse) senza adottare un unico modello per tutti.

    • Il problema non mi sembra essere l’inglese, per esempio
      Helix-loop-helix o helix-turn-helix, il più delle volte, nella letteratura scientifica diventa HLH e HTH, dopodiché gli italiani
      diranno ‘acca-elle-acca’ gli inglesi ‘eich-el-eich’ e i giapponesi
      ‘echì-rè-echì’ etc etc. e il problema di incomunicabilità si ripresenta intatto, almeno finché non ci si fa l’orecchio, poi l’inglese non correggerà più noi quando diciamo ‘acca-elle-acca’ e noi non correggeremo più il giapponese che dice ‘echì-rè-echì’. Pronunciarlo correttamente in inglese ‘eiceleich’, o in italiano ‘accaelleacca’, diventa del tutto inessenziale: agli studenti italiani si dirà accaelleacca agli stranieri eiceleich (ma anche se scappa un ‘accaelleacca’ dopo un pò nessuno ti corregge più, perché ha capito lo stesso). Vi è da aggiungere che nella letteratura scientifica molti termini sono neologismi inglesi inventati da autori non anglofoni. E’ normale coniare un nuovo termine nella letteratura scientifica, e siccome viene coniato spesso in inglese (ma, attenzione: non sarebbe obbligatorio, perché il termine è nuovo, e quindi una qualsiasi lingua andrebbe bene) poi nei corsi universitari solo del termine inglese si dispone. Va comunque precisato che l’Italiano include la maggior parte dei termini tecnici-scientifici in modo consolidato
      (non siamo una lingua ‘minore’ e senza tradizione scientifica) e solo i più recenti sono in inglese (cioè da quando la lingua scientifica mondiale è diventato il solo inglese). Ma anche per questi, il gergo tecnico italiano è abbastanza esteso da rendere facilmente traducibile un neotecnicismo (per esempio: per un nuova particella subnucleare, si fa: ‘qualcosa’+ONE, non c’è bisogno di ritenere il termine inglese).

    • Questi qui sono solo i solerti servitori del progetto imperiale volto a cancellare l’identità del popolo italiano per renderlo docile e asservito. Ai deportati di Auschwitz le guardie urlavano ordini in tedesco, mica si curavano del fatto che non potevano capirli e quindi neppure obbedire… per chi vuole sottomettere spesso e’ più importante il SIMBOLO che non l’immediato fine pratico (farsi obbedire).

  6. C’era una volta (tra il 1945 e il 1993), una rivista satirico – umoristica ungherese (“Ludas Matyi”, ma sorvoliamo sul nome), che naturalmente ha avuto rapporti complessi ma anche interessanti e mutevoli col potere comunista (guarda caso non è sopravvissuta di molto al 1989, sarà defunta per mancanza di sostanze nutrienti che il neocapitalismo postcomunista non le forniva più), e che al massimo della sua fortuna era arrivata ad una tiratura di oltre 600mila copie. Il motto di questo settimanale recitava “Non ci sono barzellette vecchie, ci sono soltanto vecchi. Per un neonato ogni barzelletta è nuova.” All’insegna della globalizzazione, globalizziamoci dunque un po’, ma anche in direzioni diverse dalla solita.
    E’ comprensibile che per chi è più giovane, il neodibattito su italiano (o altro) vs inglese possa sembrare fresco di giornata. In realtà è già stantio o, meglio, decongelato. A http://disblogo.blogspot.it/2006/06/il-multilinguismo-vi-rende_114936017373972255.html troverete l’articolo “Il multilinguismo vi rende liberi: studiate l’inglese!”, del 2006, nella cui bibliografia figura, modestamente, anche un mio contributo del 1998 sul plurilinguismo, nella cui bibliografia figurano testi che forniscono altre informazioni ecc. Nel 2005 è uscito il rapporto dello svizzero F.Grin “L’enseignement des langues étrangères comme politique”publique”, purtroppo in francese ma forse sono disponibili anche versioni in inglese English, http://www.ladocumentationfrancaise.fr/rapports-publics/054000678/. Purtroppo, per la seconda volta, si ha voglia di studiare, analizzare, raccomandare, persino predicare. In questi ultimi 15 anni, tanto per fare un esempio contromano, Alfano e tanti altri avrebbero potuto imparare un po’ di inglese, per lo meno a leggerlo (basta guardare certe bibliografie; il caso grottesco opposto è quello di darsi tono escludendo titoli in lingua propria). Così come una politica sociale accurata avrebbe potuto imparare qualcosa da studi, analisi, raccomandazioni e prediche sui problemi attuali del plurilinguismo, finanziati spesso con soldi pubblici. Ma, purtroppo, per la terza volta, sono l’economia e la politica di un certo tipo e in situazioni di crisi di ogni sorta (non solo economica), a dettar non legge ma leggi ben concrete, finanziarie, di risparmio, di selezione, e in fin dei conti favorenti una certa élite interna e internazionale. L’ivoriana Tanella Boni (https://it.wikipedia.org/wiki/Tanella_Boni) sostiene (e non sarà la sola): ci sono i “mondialisateurs” (minoranza) e ci sono i “mondialisés” (maggioranza). Tutto all’insegna della c.d. rapidità della comunicazione, come se rapidità significasse di per sé bontà, qualitativa e democratica.

    • E rispetto a quell’articolo del 2006 la situazione è divenuta persino più grottesca: adesso l’insistenza a voler insegnare solo l’inglese (contraddicendo il plurilinguismo predicato, rigorosamente solo a parole, a Bruxelles) è divenuto insistenza su una lingua che nemmeno appartiene all’unione (!)

      Cercando di uscire per un attimo dall’ipocrisia dominante
      (che però spesso è solo pura e semplice ignoranza..)
      è chiaro che tutte le finalità pratiche (non entro nel merito di stabilire nell’interesse di chi) che si vogliono perseguire
      in una unità economica sono meglio perseguibili se in quell’unità economica si parla la stessa lingua, e cioè vi è un unico veicolo di trasmissione della cultura e delle informazioni in generale.
      Ora l’impero romano fu l’unico che riuscì ad applicare questo principio a metà del proprio territorio, cioè riuscì ad imporre il latino ai galli e ai celtiberi, ma non ci riuscì coi greci (e lo credo bene: ci riesci, al limite, con quelli culturalmente ‘inferiori’..).
      Da allora nessun impero riuscì a fare di meglio. La Finlandia per esempio è sempre stata, prima del 1917, sotto un qualche impero (prima sotto gli svedesi, e poi sotto i russi). Ciononostante nessuno è mai riuscito a far parlare i finlandesi in una lingua diversa dal finlandese…
      Adesso la UE vorrebbe riuscirci con una lingua NON SUA…
      Siamo ben OLTRE il ridicolo….

    • Nello stesso articolo c’è la notizia che, al contrario, in Germania la VW ha imposto l’inglese come lingua di lavoro nei propri stabilimenti, suscitando però le proteste dei sostenitori del tedesco. Vedremo come va a finire, e se anche li una qualche Consulta dichiarerà illegittima questa decisione…

  7. Non entro nel merito della questione ma, pur capendo perfettamente le esigenze del marketing e della comunicazione 2.0 , mi domando se per una petizione a difesa della lingua italiana non fosse preferibile scegliere un titolo rispettoso della grammatica della nostra bella lingua.

    • E’ un titolo ‘sgrammaticato’ come potrebbe esserlo questo ‘E’ Stato la Mafia’, che è effettivamente il titolo (volutamente) ‘sgrammaticato’ di un libro recente.

  8. Pare che la giustificazione (ideologica) di fondo sia che perorare corsi in Italiano voglia dire essere in fondo FASCISTI, perché il fascismo italianizzava tutto. D’altra parte all’Università di Trento si privilegia in qualche modo il personale che parla tedesco o anche tedesco. Sempre ovviamente con la motivazione (ideologica) di fondo di non essere FASCISTI. Qualcuno può notale che l’obbligo di bilinguismo (anche il ladino) di certe province italiane è abbastanza lontano dal concetto di ‘internazionalizzazione’. Ma tant’è, basta che la motivazione (ideologica) di fondo ci assicuri di essere antifascisti. Abbiamo ripudiato la storia romana per non rischiare di essere fascisti e gli stranieri la studiano molto più e meglio di noi, imparando anche l’italiano. Abbiamo ripudiato quasi l’orgoglio di aver avuto un Marconi che inventò la radio, perché incidentalmente ebbe un incarico al CNR nel ventennio. Sempre per essere progressisti e non volere il nozionismo abbiamo impedito che la scuola media e superiore ci insegni bene l’inglese parlato e scritto, perché è più importante fare la letteratura inglese, piuttosto che imparare la lingua. Avevamo molti studenti stranieri all’Università che imparavano l’italiano, ora che non ne abbiamo quasi, vogliamo, per internazionalizzarci, parlare solo in inglese. Il provincialismo di queste persone è disarmante. La loro pochezza e grado di adesione al conformismo del momento è imbarazzante. Però sono sicuramente antifascisti!

    • Eccolo lì: la vera anima di Braccesi sta venendo fuori. Mi ricorda quel film con (credo) Tognazzi ex gerarca col tic al braccio che gli faceva partire a tradimento il saluto romano.
      Il problema dell’Italia è la commedia all’italiana.

    • Per me la questione è ben riassunta nel titolo ‘l’Italiano siamo noi’, cioè: fascisti o non, siamo noi, e lo svilimento della lingua significa svilire noi stessi. Insomma, non è che quando Mussolini è stato appeso per i piedi, la gente che sputava sul suo cadavere non parlasse più in italiano per odio verso l’ex Duce. Odiare l’italiano solo per odio verso il fascismo mi sembra alquanto estremistico… non vi pare? Estremistico e aggiungerei: infantile.
      Ma purtroppo temo non sia solo infantilismo estremista, qui c’è una bella dose di conformismo e servilismo sotto sotto.. o nella migliore ipotesi: menefreghismo, ignoranza, la stessa cosa che porta molti leghisti a gridare ‘chi non salta italiano è’ ma a dirlo in italiano, senza curarsi dell’evidente contraddizione…

    • Eccoli là. Ma come siete prevedibili. Avete risolto tutto nell’etichettarmi come ‘fascista’. Bravi! E del tic così diffuso ed automatico, che ovviamente nessun film ha mai immortalato, che vi fa dare del fascista a tutti quelli che non la pensano come voi, che ne dite?

  9. Mi è semblato di vedele un gatto, dice Titti. A me sembra di percepire un sillogismo falso ma diffuso: secondo il quale l’adozione della lingua inglese sarebbe condizione necessaria per la cosiddetta internazionalizzazione. Che lingua usavano Zariski, Castelnuovo e Enriques per parlare? In che lingua comunicavano Enrico Betti e Riemann? Eccetera.

    • E’ condizione necessaria per l’internazionalizzazione…a guida americana. Se l’internazionalizzazione fosse ciò che non è, e cioè un processo neutro, in cui nessuna nazione deve prevalere sulle altre, questa avverrebbe in un lingua neutrale: forse si ripescherebbe il latino, visto che non è più lingua madre di nessuno. Certo è che se una nazione vuole competere, e non auto-sciogliersi chiedendo di essere annessa ad un’altra (simili annessioni non si sono mai viste fra nazioni linguisticamente diverse, se non sotto la pressione di gravi minacce) cambiare lingua di istruzione NON è certo lo strumento per competere.
      Supponiamo per esempio che in Italia si crei un centro di eccellenza un una qualche materia così prestigioso che tutti i ‘cervelli’ versati in quella materia sognano di entrare in quel centro di eccellenza. Allora quello che succede è cha andrebbe da sé che questi cervelli comincerebbero a studiare l’italiano già nel proprio paese, nell’attesa speranzosa di coronare il loro sogno e venire in Italia. ECCO cosa si deve intendere per ‘competizione’: questo è esattamente lo scenario di un esito di successo nella competizione mondiale in una qualche materia.
      Come si vede la ‘necessità dell’inglese’ non c’è proprio….

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