Nel periodo post bellico l’Istituto Centrale di Statistica (ISTAT) era chiamato “Sing Sing” per il fatto che gli impiegati lavoravano alle macchine calcolatrici per produrre tabelle statistiche con ritmi da “Tempi moderni” del film di Chaplin. Il salto di qualità si è prodotto con la nomina, nel 1980, di Guido Mario Rey. Uno dei più significativi passi avanti verso l’apertura al mondo della ricerca venne compiuto in occasione del primo “Rapporto annuale sulla situazione Paese” del 1993. L’ISTAT si avventurava nel periglioso mare dell’analisi delle statistiche da esso stesso prodotte, scelta non da tutti accettata, e da taluni avversata, per téma di perdere l’autorevolezza del produttore “asettico” di statistiche ufficiali. La sfida venne vinta e, da allora, il Rapporto rappresenta un solido punto di riferimento nel panorama scientifico e politico nazionale. Sotto la presidenza di Alberto Zuliani, iniziata nel 1993 e terminata nel 2001, l’ISTAT è entrato a pieno diritto nel novero degli enti di ricerca: in otto anni la percentuale di laureati sul totale del personale è passata dal 21% al 40%. Guardando alla storia recente dell’Istituto si può dunque affermare che si tratta di una storia di successo in cui una amministrazione pubblica si è dimostrata capace di rinnovarsi profondamente puntando sulla qualità professionale del suo personale insieme ad un opportuno cambiamento istituzionale e organizzativo: da fabbrica di tabelle statistiche a think tank.

L’Istituto Centrale di Statistica (ISTAT) è stato creato nel 1926 come trasformazione della Direzione statistica generale del ministero dell’Agricoltura. Nel periodo post bellico l’Istituto era chiamato “Sing Sing” per il fatto che gli impiegati lavoravano alle macchine calcolatrici per produrre tabelle statistiche con ritmi da “Tempi moderni” del film di Chaplin. Fino alla gestione del presidente Giuseppe De Meo, l’ISTAT aveva il compito di raccogliere e pubblicare dati, e qualsiasi tentativo di analisi era scoraggiato, se non proibito. Il “cervello” della statistica ufficiale era costituito da professori universitari e da pochi funzionari; tra quest’ultimi, quelli vogliosi di affermarsi professionalmente come statistici passavano sistematicamente all’università. Il livello scientifico del funzionariato era modesto e la gran parte del personale aderiva ai valori della burocrazia statale.

Il salto di qualità si è prodotto con la nomina, nel 1980, di Guido Mario Rey primo – ed unico – presidente, voluto da Beniamino Andreatta, non cattedratico di statistica, ma professore di economia con un trascorso in Banca d’Italia, con competenze nella raccolta dei dati e nel loro uso a fini di ricerca. Negli anni Ottanta è stata varata una serie di modifiche istituzionali: la collocazione dell’ISTAT, nel 1986, nel comparto della ricerca e, nel 1989, la creazione del Sistema Statistico Nazionale (decreto legislativo n. 322). Le radicali innovazioni nell’organizzazione del lavoro hanno scosso profondamente il corpaccione di una struttura sostanzialmente burocratica. Due esempi, tanto per fornire un’immagine impressionistica della situazione agli inizi degli anni Ottanta. Il primo. Appena nominato, Rey “costrinse” i massimi dirigenti a frequentare presso la sede dell’IBM a Milano un corso di management e sui sistemi informativi – iniziativa del tutto inusuale per la cultura dell’ISTAT del tempo. Secondo esempio che la dice lunga su come operava la burocrazia dell’Istituto. Allorché si dovette organizzare un seminario di un collega tedesco invitato per condividere la sua esperienza nella misurazione statistica dell’innovazione, gli uffici amministrativi si trovarono a dover istruire una pratica sconosciuta: non era mai successo che l’Istituto avesse rimborsato una missione ad uno straniero. Uno dei più significativi passi avanti verso l’apertura al mondo della ricerca venne compiuto in occasione del primo “Rapporto annuale sulla situazione Paese” del 1993. L’ISTAT si avventurava nel periglioso mare dell’analisi delle statistiche da esso stesso prodotte, scelta non da tutti accettata, e da taluni avversata, per téma di perdere l’autorevolezza del produttore “asettico” di statistiche ufficiali. La sfida venne vinta e, da allora, il Rapporto rappresenta un solido punto di riferimento nel panorama scientifico e politico nazionale. Va osservato che, in precedenza, l’unico Rapporto annuale sulla situazione del Paese era quello prodotto dal CENSIS, istituzione privata di grande prestigio, di taglio sostanzialmente sociologico. Altro passo avanti verso l’apertura dell’ISTAT alla società ed al mondo della ricerca è stato il varo del Laboratorio per l’Analisi dei Dati Elementari (Adele) che consente agli utenti specializzati di avere a disposizione e di trattare gli archivi di dati elementari di molte indagini dell’Istituto con la garanzia della riservatezza statistica.

Sotto la presidenza di Alberto Zuliani, iniziata nel 1993 e terminata nel 2001, l’ISTAT ha abbandonato definitivamente il modello organizzativo della burocrazia statale ed è entrato a pieno diritto nel novero degli enti di ricerca. Ciò ha consentito di sviluppare una politica del personale orientata alla qualità professionale con l’immissione di collaboratori altamente qualificati (acquisizione massiccia di ricercatori multidisciplinari, economisti, sociologi, ingegneri, oltre che statistici): in otto anni la percentuale di laureati sul totale del personale è passata dal 21% al 40%. Si è inoltre proceduto all’attribuzione delle posizioni dirigenziali in base a contratti di tipo semi-privatistico. Gli stringenti vincoli posti all’assunzione dei dipendenti in pianta stabile nella pubblica amministrazione hanno tuttavia generato l’esplosione del precariato con forti tensioni interne all’organizzazione che, tuttavia, non hanno mai condotto all’interruzione del servizio di produzione delle statistiche ufficiali. Nel nuovo assetto è stato necessario peraltro trovare un equilibrio tra la funzione di produzione dei dati statistici, funzione consolidata e vincolata al rispetto delle leggi nazionali e dei regolamenti europei, e quella della ricerca. Tale equilibrio rappresenta peraltro una sfida per tutti gli enti pubblici di ricerca. Di recente, dopo anni di attesa, il problema del precariato all’ISTAT è stato avviato a soluzione.

Nel nuovo millennio la leadership dell’Istituto ha portato avanti con coerenza e ulteriormente sviluppato il progetto avviato negli anni Ottanta. Oggi siamo di fronte ad un ente che ha cambiato pelle, che è stato capace non solo di crescere rispondendo alla domanda del paese, ma di integrarsi da protagonista nel sistema statistico europeo e internazionale.

Da burocrazia eterodiretta, per necessità, dal mondo universitario il cui output erano dati statistici, a struttura pensante che si colloca a pieno diritto nel novero degli enti pubblici di ricerca, capace di affrontare con autorevolezza e credibilità la misurazione statistica dei complessi fenomeni caratteristici di una società in rapida trasformazione, capace dunque di guardare lontano sviluppando le metodologie necessarie per poi procedere alla loro misurazione statistica. Un indicatore per tutti. Nel passato l’ISTAT organizzava occasionalmente convegni e seminari che vedevano il contributo di esperti esterni, soprattutto universitari. Il quadro è oggi cambiato radicalmente: i dibattiti, i convegni, le conferenze sono frequenti e tra i relatori la presenza dei ricercatori dell’Istituto è numerosa e qualificata: il dominio intellettuale esterno all’ente è svanito semplicemente perché la fucina interna si colloca a pieno titolo nel contesto scientifico nazionale e internazionale.

Guardando alla storia recente dell’Istituto si può dunque affermare che si tratta di una storia di successo in cui una amministrazione pubblica si è dimostrata capace di rinnovarsi profondamente puntando sulla qualità professionale del suo personale insieme ad un opportuno cambiamento istituzionale e organizzativo: da fabbrica di tabelle statistiche a think tank. Per conseguire appieno tale risultato ci sono voluti tre decenni, a riprova che le organizzazioni umane e tecnologiche complesse, per modificarsi, richiedono certamente visione, decisioni coraggiose che trovano inevitabilmente resistenze in chi punta alla conservazione, ma anche tempi lunghi. L’esperienza dell’ISTAT si può rivelare preziosa in un paese in cui la scarsa efficienza della pubblica amministrazione rappresenta un vincolo all’incremento del benessere della società e che costituisce una delle cause della bassa produttività del sistema produttivo.

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3 Commenti

  1. Sarebbe bello che qualcuno spiegasse pubblicamente il significato scientifico della definizione di “occupato” che usa l’ISTAT
    (sembra si tratti di standard internazionali ! ma di quali paesi e istituti ? discussi e decisi da chi ? validati in quale letteratura ? ci sono controversie in merito ?):

    Occupati: comprendono le persone di 15 anni e più che nella settimana di riferimento:
    hanno svolto almeno un’ora di lavoro in una qualsiasi attività che preveda un corrispettivo monetario o in natura;
    hanno svolto almeno un’ora di lavoro non retribuito nella ditta di un familiare nella quale collaborano abitualmente;
    sono assenti dal lavoro (ad esempio, per ferie o malattia). …

    su cui si basano i dati regolarmente enfatizzati nei telegiornali, …

    grazie

    • dal sito Eurostat:
      _________________
      “In the context of the Labour force survey (LFS), an employed person is a person aged 15 and over (or 16 and over in Iceland and Norway) who during the reference week performed work – even if just for one hour a week – for pay, profit or family gain.

      Alternatively, the person was not at work, but had a job or business from which he or she was temporarily absent due to illness, holiday, industrial dispute or education and training.

      This definition follows guidelines of the International Labour Organization (ILO). ”
      _________
      http://ec.europa.eu/eurostat/statistics-explained/index.php/Glossary:Employed_person_-_LFS

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