La lettera che segue è stata redatta lo scorso dicembre, ispirata dal “questionario di valutazione” dei dottorati ospitato dal sito del CINECA, rivolto ai dottorandi e ai dottori di ricerca italiani. Oggi, a mesi di distanza, constato con un po’ di amarezza che le testate nazionali a cui l’ho proposta non l’hanno accolta; un fatto che tutto sommato non stupisce, visto che la stampa italiana ha dimostrato in più occasioni di interessarsi di università solo per parlarne male (dove “parlare male” ha il duplice significato di “denigrando” che “parlare in modo approssimativo”).
Gentile MIUR,
chi Vi scrive è uno trai tanti dottorandi che in questi giorni ha ricevuto il vostro invito a rispondere al questionario teso a valutare “la capacità del suo Ateneo di riferimento nello stimolare l’attività imprenditoriale”. Vi scrivo per spiegare perché non risponderò al questionario, e per invitare i miei colleghi a fare altrettanto. La ragione è che l’impostazione che lo guida mi sembra frutto di una pericolosa deriva ideologica che imperversa nel nostro paese da qualche anno: la confusione di ruoli tra università ed economia.
Vado con ordine. La distanza del mondo dell’università dal mondo economico è sotto gli occhi di tutti: un divario che, a consultare le statistiche, pare farsi ogni anno più grande, rendendo sempre più evanescente il sogno europeo di un’economia e di una società della conoscenza. Assumendo che ad animare molte Vostre scelte degli ultimi anni (tra cui inviare il succitato questionario) sia il condivisibile intento di ricolmare questo divario, mi permetto di suggerire che la strada che state percorrendo possa non essere quella giusta.
Mi spiego meglio. Nelle politiche dell’università di questi ultimi 6 anni (e nel discorso pubblico che le ha accompagnate e precedute) si può scorgere in filigrana l’idea che la colpa di questo divario e la responsabilità di ricucirlo vadano addebitata ad un sistema della ricerca e dell’istruzione obsoleti, incapaci di fornire alle nostre imprese personale specializzato nonché innovazioni di prodotto e di processo che stimolino la competitività. Questa sensazione traspare da diversi provvedimenti. Cito, a guisa d’esempio: il riassetto del CDA promosso dall’art. 2 comma 1i della legge 240/2010 (c.d. “legge Gelmini”); l’enfasi dell’attuale Ministra sui dottorati industriali; il ruolo preminente e omnipervasivo di Confindustria nell’influenzare le politiche degli enti universitari (che si riscontra ad esempio nella presenza di uno specifico accordo con la CRUI, ma anche nell’elezione a Presidente del Comitato Consultivo di ANVUR di Ivanhoe Lo Bello, che è contestualmente vicepresidente di Confindustria con delega all’educazione).
È certamente condivisibile l’intento di stimolare le università a sviluppare, accanto alle tradizionali vocazioni alla didattica e alla ricerca, la c.d. “terza missione” – che indica genericamente tutti gli altri servizi svolti dall’università per la società in cui è immersa (anche se purtroppo spesso si pensa solo al trasferimento tecnologico). Ma veramente il tessuto economico di questo paese è/sarebbe adeguato a mettere a frutto il valore aggiunto che proviene dalle nostre istituzioni formative e di ricerca? Ho qualche ragione per dubitarne.
La spesa delle imprese in R&S in Italia è tra le più basse trai paesi industrializzati; la percentuale di personale addetto a R&S è inferiore allo 0,5% (VS Francia > 0,9% , media europea > 0,7%), ma prendendo in considerazione solo il personale impiegato nelle imprese non reggiamo il confronto con gli altri paesi industrializzati.
Insomma, l’imprenditoria italiana sembra scarsamente propensa all’innovazione. Perché? La domanda non è retorica: non mi interessa assolvere le università scaricando la colpa sugli imprenditori, quanto piuttosto capire quali siano i nodi da sciogliere per migliorare la permeabilità della nostra economia all’innovazione coltivata dai nostri atenei. Quali siano questi nodi e come vadano aggrediti è ovviamente una domanda complessa. Senza pretendere di formulare diagnosi o prognosi solide, avanzo alcune ipotesi per dare qualche spunto.
Primo e più ovvio: in Italia più che in altri paesi il tessuto imprenditoriale è composto soprattutto da piccole e medie imprese, per ragioni strutturali sono meno propense ad investimenti rischiosi e di lungo periodo come quelli in ricerca e sviluppo. Aggiungiamoci pure che l’incertezza della crisi economica, la difficoltà di accedere ai prestiti e l’aggravarsi della pressione fiscale rendono ostica per tutte le aziende ogni progettualità che guardi al lungo periodo, quale è giocoforza la ricerca (è per questo che un’economista illustre come Mariana Mazzuccato insiste sul ruolo degli investimenti pubblici nel promuovere l’innovazione).
Questi nodi strutturali sono importanti, ma credo non siano gli unici da sciogliere.
Matteo Fini sull’Huffington Post si domanda come mai, su 25 milioni stanziati dallo Stato per incentivare l’assunzione di personale altamente qualificato (dottori di ricerca o equivalente), le aziende italiane abbiano fatto richiesta per meno di 5 milioni. Una possibile risposta la suggerisce AlmaLaurea, che ci ricorda come la percentuale di dirigenti in possesso di titoli di laurea in Italia sia inferiore al 25% (meno della metà della media europea!), rimarcando che “una robusta evidenza empirica … [mostra] che un imprenditore laureato assum[e] il triplo di laureati rispetto ad uno non laureato”. Peccato, perché parrebbe che “la disponibilità di laureati aumenti la propensione delle imprese a realizzare attività di riqualificazione produttiva”.
Mi pare insomma che oltre ai problemi strutturali ci sia un problema squisitamente culturale: i nostri imprenditori sono scarsamente sensibili alla ricerca e alla formazione. Concentrata com’era sull’inculcare alle università i valori dell’impresa, la politica ha fatto ben poco in questi anni per sensibilizzare le imprese al valore della formazione e della ricerca, forse perché ella stessa incapace di riconoscerlo (emblematica la dichiarazione di Berlusconi che nel 2010 domandò “perché dovremmo pagare gli scienziati se facciamo le scarpe più belle del mondo?”).
Può darsi che l’intendimento con cui avete scritto il Vostro questionario fosse proprio quello di colmare questa debolezza culturale invitando i dottori di ricerca italiani a reinventarsi imprenditori. Questo spiegherebbe come mai la struttura dei dottorati odierni è particolarmente adatta a preparare alle fatiche dell’imprenditoria: così come gli imprenditori si arrischiano ad investire i propri capitali, noi dottorandi investiamo molti anni di studio pur sapendo che in pochissimi (1 su 30) potremo ambire a mantenere il lavoro che vogliamo in questo paese; anche noi siamo abituati a lavorare senza essere pagati o rimborsati dalle istituzioni pubbliche, a dover tessere alleanze e stringere mani per garantirci un futuro, a promuovere (far citare) i nostri prodotti (pubblicazioni), a delocalizzare la nostra attività all’estero; anche noi ci rendiamo conto che per sopravvivere dobbiamo diversificare le nostre attività (io per esempio scrivo per un giornale online). Sono perciò fiducioso che un numero ragionevole di ricercatori sarebbero prontissimi a dedicarsi ad un’avventura imprenditoriale se fossero messi nelle condizioni di farlo.
Ciò detto, Vi prego: almeno Voi, che lavorate nel Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca, liberateVi da questa trappola ideologica; abbiate il coraggio di affermare che non sono i nostri atenei a doversi modellare ad uso e consumo del nostro malandato tessuto economico, ma, piuttosto, è il nostro tessuto economico a doversi rendere più permeabile e sensibile alla ricca offerta di talento e innovazione che proviene dai nostri atenei e dai nostri centri di ricerca.
La mia risposta [a caldo] alla domanda
università e mercato, chi deve dettare la linea?
La linea dovrebbero dettarla indicarla [averla dettata indicata, se rivediamo alcuni significativi esempi di debacle industriale] le risorse generate dall’università e acquisite da operatori dell’economia …. se quelle risorse non si ritrovassero in beata solitudine a dover mettere a frutto competenze acquisite che le politiche aziendali/imprenditoriali/governative valutano solo dal punto di vista del ritorno pecuniario immediato [where is the beef?]
La lettera avrebbe meritato la prima pagina di giornali che intendessero la propria missione in modo meno servile nei confronti del pensiero politico-economico dominante.
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Purtroppo, finché le idee su Università e Ricerca avranno la stessa provenienza e coincideranno con le “100 idee” di Confindustria continueremo sulla strada delle produzioni a basso contenuto di innovazione.
Nota per la moderazione dei commenti:
nel mio commento le parole “dettarla” e “dettata” sono precedute e seguite dal codice html per farle apparire cancellate [strike] …. come si vede nel mio post Google Plus
E cosa ti aspettavi?
E cosa vi aspettavate?
E cosa ci aspettavamo?
La lettera, che ha le vera dignità di un fondo, in uno Stato (anche solo quasi) normale, con stampa normale – cioè che fa il suo mestiere di informazione indipendente – sarebbe stata contesa tra le testate, altro che cestinata.
È un paese succube dei padroni del vapore che sono i padroni della stampa.
Com’è la stampa è il paese.
E noi? (Intendo tutti quelli che in qualche modo sono la Univerisità). Noi che facciamo?
Noi che la cantiamo e noi c’è la suoniamo almanaccando tra le nostre X2 posizioni ogni Y docenti.
Che ha le forze dovrebbe porsi il problema della comunicazione con il c’è grande pubblico.
Complimenti all’autore. Le lettere più vere sono quelle che nessuno vorrebbe mai far leggere.
Infatti. Continuare a dare colpe all’Università e non ad esempio alla mancanza di una seria politica industriale, non ci porterà da nessuna parte.
Se pensiamo all’università come a una delle risorse di un sistema sociale …. incapace di permettere un uso soddisfacente delle proprie risorse … dovremmo concludere che è inutile tentare di migliorare l’università se non s’inizia – prima – ad adeguare il sistema sociale ai bisogni dei suoi utenti [NOI].
Appena preso il dottorato (2006) risposi anch’io ad un’intervista telefonica sul rapporto tra università e impresa. Anche allora le domande erano “orientate”: mi si chiedeva in sostanza se l’università era all’altezza dell’impresa.
Io provai a spiegare all’operatrice che la domanda era mal posta, e che mi avrebbe dovuto chiedere il contrario. Ma questa, gentilissima, mi rispose: mi dispiace ma le domande sono fatte così.
Ma poi è davvero così? Davvero siamo su due mondi separati? E i distretti tecnologici nazionali che sono? ed i PON? Ed i vari progetti Smart Grids e Smart Energies?
Nel mio dipartimento di ingegneria ad ogni Consiglio di Dipartimento approviamo quasi una decina di convenzioni con aziende varie del territorio. E non credo che siamo gli unici in Italia.
Beh, a Fisica non è cosi scontato.
Di solito i fisici nucleari e subnucleari (quelli sperimentali pubblicano articoli a 2000 nomi) non amano molto i contatti che i fisici della materia cercano di avere con le realtà produttive.
Ed anche oggi in Italia i fisici nucleari e subnucleari sono la stragrande maggioranza. Mentre negli altri paesi occidentali la maggioranza dei fisici è nel settore condensed matter.
Come mai in Italia due enti di ricerca fortemente portati all’innovazione tecnologica quali l’Istituto Nazionale per la Fisica della Materia (INFM) e l’Istituto Nazionale di Ottica (INO) sono stati eliminati come enti autonomi (ed inglobati nel CNR), mentre due enti di ricerca piu’ inclini alla pura ricerca di base quali l’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare (INFN) e l’Istituto Nazionale di AstroFisica (INAF) sono invece rimasti autonomi?
Perché hanno fatto IIT: d’altronde da noi i geni abbondano.
Complimenti per l’articolo condivisibile al 100% anche perché supera la vulgata che diffonde l’idea che le Università si sviluppano in maniera autoreferenziale eventualmente per dare posti ai professori mentre non sono attente alle esigenze…. del mercato e dell’economia.
Senza essere troppo sofisticati basterebbe mettere a confronto il numero dei laureati (triennali, magistrali, dottorati e specialisti di area medica) che lasciano il paese e quelli che dagli altri paesi entrano in Italia. Il saldo, come è noto, è assolutamente negativo. In effetti esportiamo laureati e personale altamente qualificato ed importiamo camerieri, badanti e, nel migliore dei casi, operai da adibire a lavori pesanti e poco remunerati. Chi conosce la realtà, al netto di chi va all’estero per ragioni alte (ricerca altamente competitiva, settori estremamente di nicchia, etc.) e di chi va fuori per brevi periodi meritoriamente per specializzarsi o per imparare le lingue, un grosso numero di laureati compete sul mercato del lavoro internazionale (europeo ed extraeuropeo) e vince superando laureati sia europei che extraeuropei.
Prima domanda (retorica): come mai il nostro sistema educativo (dalla scuola primaria al dottorato) produce un numero così elevato di personale competitivo sul mercato del lavoro internazionale se, come si dice, non è attento alle esigenze del mercato?
Seconda domanda (retorica): coma mai il nostro sistema produttivo non assume laureati dagli altri sistemi educativi (europei ed extraeuropei) visto che, come si dice, il nostro sistema universitario è poco attento alle esigenze del mercato?
Terza domanda (retorica): il sistema universitario per adeguarsi al mercato del lavoro dovrebbe ridurre l’offerta formativa in Ingegneria, Architettura, Medicina, Fisica, Economia, etc. per sviluppare corsi superiori di addetti all’accoglienza ed alla ristorazione, corsi di badantologia e, nel migliore ei casi, corsi tecnici per operai addetti ai lavori pesanti?
Per quanto riguarda la classe docente, non ci sono molte preoccupazione, si è adattata all’attuale delirio burocratico-amministrativo, alle regole più assurde, ai commissari OCSE, alle umiliazioni più cocenti da parte della classe politica e della stampa militante di destra e di sinistra, quindi saprà adattarsi al nuovo corso trasformando gli insegnamenti adeguatamente. Chi si meraviglierebbe di un corso in badantologia di base e specialistica o di scienze del pannolone, o di un corso (rigorosamente in inglese) in organizzazione di eventi turistico-gastronomici?
Con un po’ di amarezza non ci resta che ripetere ai nostri studenti ed ai nostri figli la famosa allocuzione eduardiana “Fuitevenne”.