Riceviamo e volentieri pubblichiamo.
Sei anni rappresentano un arco temporale sufficientemente lungo per una prima valutazione della cosiddetta riforma dell’università italiana. Nel 2010 al governo c’era Silvio Berlusconi, oggi Matteo Renzi; il presidente della CRUI era il prof. Decleva, oggi il prof. Manfredi. Molte cose sono cambiate, se in meglio o in peggio dipende da giudizi soggettivi, mentre un bilancio storico sarà legato agli sviluppi di una situazione preoccupante. Un dato è immutato nel corso di questi sei anni: l’atteggiamento del governo nei confronti dell’Università statale, che registra un’assoluta continuità politico-programmatica da Berlusconi a Renzi. Altrettanto stabile è l’atteggiamento della CRUI, che ieri come oggi è di acquiescenza nei confronti prima ancora che del governo, di forze economiche e politiche che mirano a fare dell’Università una stampella di un sistema produttivo in difficoltà.
Di una enorme responsabilità dei Rettori nel declino dell’Università statale non si può tacere, dato che gli ultimi tre ministri sono ex rettori e un ex presidente della CRUI è capo dipartimento del MIUR. L’ assunzione di un inedito ruolo di rappresentanza da parte della CRUI, a scapito del CUN, ha coinciso con una fase in cui l’Università ha subito, più di qualsiasi altro settore della pubblica amministrazione, un taglio di risorse senza precedenti. Se si volesse essere maliziosi si potrebbe sospettare un nesso tra la carriere di alcuni e l’affossamento dell’Università pubblica, quasi fossero legati da un rapporto di proporzionalità inversa. Ma noi non siamo maliziosi e non lo pensiamo.
Nel 2010, ai tempi dell’approvazione della legge 240, i ricercatori scesero in piazza e si mobilitarono astenendosi dalle attività didattiche per denunciare non la perdita di un privilegio ma l’inizio di un processo di destrutturazione dell’Università pubblica, nato in ambienti extra parlamentari (basta leggere i giornali dell’epoca per individuare gli ispiratori di quel progetto di legge), il cui esito sarebbe stato la disarticolazione del sistema universitario statale. Si interveniva su un’istituzione già provata dalla introduzione di corsi di laurea a due cicli, che aveva fatto dell’Italia un terreno di sperimentazione dell’accordo di Bologna. Sulle macerie delle vecchie facoltà generaliste avrebbe dovuto sorgere un sistema professionalizzante e articolato in due tipologie di università: le teaching e le research universities. Tutto ciò che è venuto dopo in termini di distribuzione delle risorse umane e finanziarie è andato in quella direzione, penalizzando pesantemente le funzioni costituzionali dell’Università statale, il diritto allo studio, la ricerca e le possibilità di crescita culturale di alcune aree, in particolare del Mezzogiorno. Da quel momento il CUN si è indebolito e la CRUI non ha più avuto una politica comune ma si è polarizzata intorno a due posizioni: quella di alcuni rettori che assumevano su di sé l’onore e l’onere della trasformazione in research universities (una minoranza, per lo più localizzata nel nord del paese e fortemente appoggiata dall’establishment economico-finanziario ed infine politico italiano) e la maggioranza degli atenei che vedono sempre più incombente la prospettiva di diventare teaching universities, alle quali viene sempre sbattuta in faccia la VQR o altri ammennicoli pensati per esaltare alcuni atenei e affossarne altri. Perché poi la maggioranza si sia fatta sopraffare dalla minoranza senza opporre alcuna resistenza, è un mistero.
Nel 2010, di fronte alla protesta dei ricercatori, la CRUI reagì duramente, rifiutando di misurarsi nel merito con le ragioni della critica e appoggiando l’approvazione della legge 240, con l’argomento che si sarebbe migliorata la governance e rafforzata l’autonomia. Sebbene in sede locale molti rettori dichiarassero di condividere le ragioni della protesta, la loro voce a Roma si affievoliva o non contava, e alla fine furono concordi a isolarla. Oggi a distanza di sei anni sentiamo ripetere da parte della CRUI gli stessi argomenti per far rientrare la protesta contro la VQR, sorta in reazione all’ultimo schiaffo alla dignità della docenza: il blocco degli scatti stipendiali del 2015 e il mancato riconoscimento giuridico degli anni 2011-14. La scarsa sensibilità degli organi di rappresentanza dell’Università, davanti ad una palese discriminazione della docenza, è un segnale inequivoco di uno scambio improprio tra risorse discrezionali e dignità che viene avallato da meccanismi burocratici solo apparentemente neutri. Questi silenzi hanno nomi, cognomi e qualche sigla.
Per portare all’attenzione del governo, del Parlamento e dell’opinione pubblica lo stato di abbandono e di sotto-finanziamento in cui versa l’Università italiana, senza penalizzare gli studenti, quali strumenti abbiamo? Dopo aver segnalato a Miur e Anvur, in un documento dell’ottobre 2015, “che solo a condizione di recupero delle risorse tagliate sarà possibile garantire la collaborazione del sistema universitario allo svolgimento del nuovo esercizio Vqr 2011-2014″, la CRUI si è fatta strumento della sua attuazione. Nonostante le molte ragioni che indurrebbero a rivedere radicalmente i meccanismi di valutazione e la logica darwinista che li anima, nonostante l’assurdità di una valutazione per un periodo in cui risultiamo inesistenti sul piano giuridico, ci è stato obiettato che questa non è la forma migliore di protesta. I rettori italiani si sono assunti una grande responsabilità, accogliendo senza riserve la sostanziale chiusura del MIUR alla richiesta di un rinvio della scadenza al 30 aprile che, oltre alle motivazioni tecniche, avrebbe dato respiro all’apertura di un negoziato con la protesta in corso. A quel tavolo avremmo voluto presentare le nostre richieste minime, tra cui il versamento della contribuzione figurativa degli anni 2011-14 e il riconoscimento dell’anzianità di servizio.
Bene, stavolta vorremmo credere al vostro impegno, anche se i precedenti non giocano a vostro favore. Molti di voi sono giovani e di fresca elezione e quindi non responsabili degli errori del passato. Il presidente, dopo tanti anni, è espressione di un grande ateneo del sud, uno di quelli più penalizzati negli anni scorsi dal furore ideologico di un passato governo. È nostro dovere istituzionale a questo punto darvi fiducia e credere alle vostre dichiarazioni, alle vostre richieste persino troppo pressanti di non danneggiare gli atenei. Con questo spirito molti colleghi, spinti dall’etica della responsabilità più che da quella della convinzione, hanno deciso di aderire alla campagna VQR e di allentare una protesta più che legittima, nella quale peraltro tanti proseguono.
Adesso vi siete assunti una seria responsabilità e se fallirete o se vi accontenterete di qualche fumosa promessa, allora sappiatelo, dimostrerete di essere un club privato che non potrà più avere la pretesa di esprimersi a nome delle Università italiane. Come sapete, per molto meno i magistrati, gli avvocati, i medici e tante altre categorie di lavoratori hanno scioperato, hanno protestato nelle aule di tribunale, hanno portato all’attenzione della pubblica opinione la situazione di disagio dei loro settori interrompendo l’erogazione di un pubblico servizio o manifestando durante le inaugurazioni dell’anno giudiziario. Le inaugurazioni dei nostri anni accademici sono invece delle passerelle per ministri, sottosegretari e altre personalità di rilievo: perché? Il 17 marzo rappresenterà per i rettori e per la CRUI l’ultima occasione per dimostrare che la fiducia richiestaci non sarà stata malriposta.
A nome dell’assemblea dei docenti dell’Università di Bari del 1 marzo 2016
Cos’è quest’incontro del 17? Ho cercato notizie ma non ne ho trovate. Da come andrà a finire vedremo che Primavera tira.
[…] l’articolo-lettera a nome dell’assemblea dei docenti dell’Università di Bari del 1 marzo […]
[…] l’articolo-lettera a nome dell’assemblea dei docenti dell’Università di Bari del 1 marzo […]
voglio vedere se chi sta al governo avesse avuto una cugina sfigata assegnista in scadenza, come si sarebbe preso a cuore la questione dei precari e le altre aberrazioni universitarie…………….
Se uno che sta al governo ha una cugina sfigata assegnista, quest’ultima sara’ magicamente assunta come professore ordinario ;-)
Piu’ realisticamente, se c’e’, prendera’ uno dei 800 e qualcosa posti da ricercatore di tipo B.
@Plymouthian,
è verò, ma la riforma della scuola, appena varata, parte da una sensibilità particolare nei confronti della scuola, nel senso che Renzi ha dichiarato che non solo la moglie, ma anche alcuni dei suoi parenti più stretti sono o sono stati inseganti, quindi, inevitabilmente, se a casa parli sempre della scuola, ti viene spontaneo provare a cambiarla, se emergono lati negativi.
@Plymouthian,
devo precisare: non so quale sarebbe stato il destino accademico di una parente di Renzi, ma sicuramente della situazione universitaria italiana se ne sarebbe parlato di più, questo è sicuro 100%