Il primo ottobre 2020 il Ministro Manfredi ha partecipato ad una puntata di Fuori TG, rotocalco quotidiano di RAI3 che va in onda alle 12.30 circa, che era dedicata all’Università nella situazione COVID.
Pungolato in un dibattito dal rappresentante dell’Unione degli Universitari italiani, Enrico Galluni, il Ministro ha solennemente dichiarato:
«I punti organico non sono saturati in nessuna parte d’Italia».
Da navigato uomo delle istituzioni, pronto ad attingere al repertorio delle abilità retoriche, il Ministro replica allo studente con un’affermazione vera. Non è possibile reperire dati sul tema, ma è verosimile che nessuna Università italiana saturi ogni anno i P.O. che le vengono allocati, che, ricordiamo, sono solo una misura di spesa virtuale che designa il tetto delle facoltà assunzionali spettanti ad ogni ateneo annualmente.
Tutt’altra cosa sono invece le risorse reali che ogni ateneo riceve annualmente dal ministero guidato da Manfredi, quelle – per intenderci – che sono allocate attraverso il parametro del Fondo per il Finanziamento Ordinario. E’ a quelle risorse che lo studente alludeva, riferendosi alla circostanza che con l’accrescimento della quota premiale che compone il FFO le Università del Sud abbiano ricevuto meno risorse degli atenei del Nord in un momento storico che – viene segnalato – vede le Università meridionali aumentare la quota degli iscritti.
E’ in base a queste risorse che gli atenei, sulla base di tutte le voci di spesa che gravano sui loro bilanci, decidono se e quanto possono investire nel reclutamento, beninteso entro i limiti massimi del reclutamento possibile segnato dalla quota dei punti organico ricevuta. Ed è tenendo conto di questa circostanza che si spiega perché gli atenei non saturino tutti i punti organico che ricevono virtualmente come indicazione massima di spesa possibile dal Ministero. Ecco quindi – a beneficio di chi non conoscesse o non avesse ben chiaro il meccanismo, oggetto di un recente approfondimento su questi schermi – svelato il retroscena dell’affermazione di Manfredi.
Con abilità retorica il Ministro ha saputo eludere la domanda dello studente, ma la domanda inevasa rimane: siamo sicuri che il sistema della quota premiale, che in questi anni ha visto accrescere la sua rilevanza rispetto al metro della spesa storica, sia la strada giusta per finanziare capillarmente ed equamente le istituzioni universitarie in un territorio diseguale come quello italiano, oggi colpito dalle dinamiche che il COVID imprime alle immatricolazioni, modificando i trend geografici nel segno di una positiva ripresa delle immatricolazioni al Sud?
E’ a questa domanda che il Ministro Manfredi, in passato Rettore di uno dei più importanti Atenei del Sud, avrebbe dovuto dare risposta, invece di sfoderare un “abile alibi”.
Buona visione e buona lettura del testo dell’intervento trascritto.
Enrico Gulluni – UDU
Penso che intanto la questione l’immatricolazione sia anche una questione economica – mi viene da dire – perché purtroppo in Italia iscriversi all’università ha un costo. Ha un costo che non è basso, perché la tassa media in Italia è circa € 1200, per cui non stiamo parlando di costi bassissimi e soprattutto per andare fuori sede bisogna pagare un affitto, ci sono i costi per vivere nelle città, per cui è chiaro che in una situazione particolarmente critica sul piano economico per le famiglie, io credo sia anche fisiologico che uno studente, una studentessa, decidano di rimanere a casa propria e penso non sia proprio esattamente per motivi personali, ma più per motivi economici, perché chiaramente incentivi per andare sugli affitti, incentivi per ripopolare le città universitarie non ce ne sono stati purtroppo da parte del governo centrale.
Poi c’è un tema sulla Università al Sud. Perché noi abbiamo un metodo di finanziamento a livello universitario che è la quota premiale. Noi non abbiamo ancora i numeri degli iscritti perché ancora le immatricolazioni sono aperte. Però mi interessava sapere, visto che abbiamo la possibilità di interloquire col Ministro: se – appunto – le università del Sud aumentano gli iscritti, per quale motivo c’è stato un abbassamento dei punti organico che sono il contingente per assumere personale, visto che – insomma – se aumentano gli iscritti dovrebbe in qualche modo anche aumentare il contingente per assumere personale, in particolare personale docente per garantire una certa qualità della didattica.
Maria Rosaria de Medici – Conduttrice
Sentiamo la risposta del Ministro. Più professori, se aumentano gli iscritti al Sud.
Ministro Manfredi
Quest’anno – diciamo – è cambiato per la prima volta il sistema di finanziamento, perché non c’è stata nessuna università italiana che ho perso risorse. Tutte hanno avuto più risorse, dal 3 al 6% in più di finanziamento, compreso le università del Sud, oltre aver fatto un investimento straordinario di ricercatori per 6000 ricercatori, che rappresenta il 10% di tutti i docenti che esistono in Italia, di cui le Università del sud hanno avuto intorno al 30%. Quindi mai come quest’anno c’è la possibilità per Università del Mezzogiorno di poter reclutare. Infatti non ho ricevuto nessuna lamentela. Quando si parla di punti organico si confonde la capacità di spesa con quella che è la soglia di assumibilità, che è un aspetto puramente – diciamo – amministrativo e che non ha nessun impatto sulla reale assumibilità, perché «i punti organico non sono saturati in nessuna parte d’Italia».
Che vi sia un problema di sperequazione nelle risorse fra nord e sud è un dato di fatto, ma Manfredi ha ragione nel dire che da quest’anno c’è una novità significativa (nessuno perde, tutti guadagnano qualcosa, chi più chi meno) e i punti organico sono una facoltà assunzionale che pochissimi atenei, dotati di maggiori risorse finanziarie, riescono a saturare. Una larghissima maggioranza di atenei ha una banca di punti organico inutilizzati che presumibilmente non utilizzerà mai perché il bilancio non lo consente.
E’ evidente, dai numeri, che gli atenei (i rettori?) stanno facendo una strenua resistenza all’impiego delle risorse per le risorse umane.
Certamente il procedimento risulta molto macchinoso.
Infatti una volta che a livello di Senato accademico e/o CdA si è deliberata la quota di punti organico da attivare nell’anno, si deve procedere alla ripartizione tra i dipartimenti, il che innesca una complicata e serrata trattativa perché vanno rispettati vincoli ed equilibri non da poco: tot posizioni devono essere coperte da “esterni”, per ogni PO va arruolato un RTDB, devono essere garantiti i PO necessari per i dottorati e per le scuole di specializzazione medica, ecc, e infine il tutto va contemperato con i piani straordinari per RU e RTDB.
Una volta definita la ripartizione il processo ricomincia all’interno dei dipartimenti: tanti PA abilitati a PO, tanti RU abilitati PA, settori disciplinari che vanno estinguendosi, PO che vogliono un nuovo allievo, rivalità e recriminazioni decennali che si infiammano, ecc.
Una volta deliberato a maggioranza assoluta il panel delle posizioni da attivare: solo esterni, esterni e/o interni, solo interni, il bando può essere emanato dall’ufficio preposto e pubblicato sulla GU.
Alla chiusura dei termini per la presentazione delle domande, il Dipartimento deve nominare le commissioni (secondo i relativi regolamenti di ateneo, tutti diversi), cosa niente affatto semplice anche se si sono ormai costituite “commissioni itineranti” che girano per la penisola monopolizzando o spartendosi le procedure e dunque i posti da attribuire.
Tutta questa giostra già di per se richiede un impegno pesante sia per gli organi e gli uffici preposti, sia per i docenti impegnati nelle commissioni, sia per i candidati che devono seguire l’iter accidentato, presumibilmente in diverse sedi. Ma è stata resa ancora più onerosa per il fatto che lo scorso anno il MIUR aveva fatto la bella pensata di ripartire i punti organico tra le sedi non sulla base del necessario reintegro delle posizioni cessate per pensionamento o disgrazia, ma come premialità. E’ stato così che alcuni atenei si sono visti attribuire un incremento abnorme di punti organico, del quale si sono abbondantemente gloriati, ma che poi non sono riusciti a coprire per via degli altri vincoli, principalmente il peso degli stipendi sulle risorse di bilancio, aumentando il quale avrebbero perso la virtuosità che aveva appunto portato all’attribuzione dell’incremento di punti organico.
Gli atenei hanno trovato molto conveniente appellarsi a questioni di bilancio futuro per evitare di investire le risorse assegnate per il necessario rinnovo del personale, docente e non docente. Infatti negli anni del blocco stipendiale prolungato per ben cinque anni e anche dopo, rallentando ad arte l’attribuzione degli scatti stipendiali, hanno investito il tesoretto in operazioni di diverso tipo ma di grande impegno, alle quali devono continuare a far fronte.
Infine, la fascia dei Professori Ordinari si va velocemente restringendo (siamo a circa 14.000 rispetto ai 18.000 del 2008) e di questi circa la metà non ha i requisiti richiesti per l’abilitazione (che vengono definiti in funzione della media dei professori nel ruolo), e solo chi ha i requisiti può candidarsi a componente di commissione.
Quanto alla pretesa di non avere le risorse per coprire la progressione di carriera dei nuovi professori, risulta davvero curiosa dal momento che il punto organico corrisponde appunto al costo medio in carriera del Professore ordinario, mentre i nuovi vengono immessi in classe “zero”, senza alcun riconoscimento del servizio pregresso. Quindi le risorse per portare a fine servizio il nuovo professore sono appunto “insite” per definizione nel punto organico attribuito, con un notevole gap tra retribuzione all’uscita e retribuzione all’ingresso. Per chiarezza, se un PO va in pensione con la classe stipendiale più alta, il nuovo entra con una retribuzione pari a meno del 50%, e raggiungerà la classe più elevata soltanto se riuscirà a restare in servizio per almeno 33 anni quindi se ha meno di 37 anni di età quando diventa Professore ordinario.
Oggi, a fronte di un FFO che supera del 4% quello del 2008, risultano coperti ben 5.000 punti organico in meno rispetto al 2008, una evidente dequalificazione delle risorse di docenza, che naturalmente gli atenei hanno declinato secondo propri interessi ed equilibri di potere, in misura e modo diversi. Infatti il personale docente di ruolo (professori e ricercatori) conta ben 13.000 posizioni in meno rispetto al 2008 e 4.600 ricercatori a tempo determinato di tipo B, che rispondono soltanto al loro docente di riferimento, mentre si accumulano i Professori associati, già oggi circa 23.000, ai quali si aggiungeranno nel prossimo triennio i 4.600 ricercatori B.
“Infine, la fascia dei Professori Ordinari si va velocemente restringendo … e di questi circa la metà non ha i requisiti richiesti per l’abilitazione (che vengono definiti in funzione della media dei professori nel ruolo) …”. Sebbene gli attuali “indicatori” non corrispondano più esattamente alle precedenti mediane, la situazione è quella sopra descritta proprio per esplicita volontà del decisore politico: i requisiti richiesti per la partecipazione alle commissioni ASN sono strutturati in modo tale che *in ogni caso* circa la metà degli ordinari non raggiungano detti requisiti, anche se fossero tutti delle “stelle della ricera scientifica”.
Non certo per avere di più, ma per riconoscere lavoro e professionalità il passaggio a ordinario andrebbe riconosciuto a chi ha le soglie e servizio continuato per tanti anni. Un sistema ingiusto ora ci espone a situazioni rischiose per la nostra salute, ci chiede orari di lavoro massacranti, ci impone di seguire studenti oltre i 300, tesi, esami. In più dobbiamo essere eccellenti per la ricerca e scrivere tanto. Ma non ci riconosce il passaggio dovuto all’ordinariato in base all’arbitrio delle commissioni asn e di concorso.
Mi viene in mente che il meccanismo delle soglie che da un ciclo all’altro incrementa i requisiti per l’accesso all’abilitazione si configura come “discriminatorio” in quanto si applica solo ai nuovi professori mentre a coloro che lo sono già non sono richiesti. Da un ciclo ASN al successivo sono sempre di più coloro che restano sotto. Un meccanismo perverso che tende a ridurre la docenza universitaria ad una oligarchia sempre più ristretta, minando alla base la concezione originaria dell’università come comunità di pari.
Non sarebbe più corretto dire che i requisiti per far parte delle commissioni ASN sono stati stabiliti in modo tale che circa la metà degli ordinari non li possieda?
Certo. Tutto può esser detto. Ma la vera ricerca non si conta con articoli pubblicati. La vera ricerca ha bisogno di tempo.
Fra didattica e impegno per ricerca credo si possa parlare di uno sfruttamento stupido dei docenti. Non abbiamo più tempo per la vita, siamo frustati perché non si raggiungono mai le soglie, dobbiamo sostenere i nostri dipartimenti, conquistarci studenti ecc.