Tutti gli esseri umani hanno diritto a costruirsi come persone complete, intere. Ad armonizzare il più possibile capacità e bisogni. A conoscere se stessi attraverso gli altri; e gli altri attraverso se stessi.  È questa la scuola di Gramsci. Essa si basa sulla stella polare di questi principi. È una scuola «disinteressata», perché non mira a sfornare uomini “preconfezionati” da esporre sullo scaffale del supermarket sociale. In questo senso non è subalterna agli interessi spesso volubili, e comunque egocentrici, dell’economia capitalista. Ed è una scuola realmente democratica, non in virtù di un egalitarismo astratto e formale, ma perché vuole fornire a tutti, a prescindere dalla provenienza sociale, strumenti intellettuali direttivi, indipendenza, pensiero critico. Questa scuola sa anche aspettare. Gramsci sapeva che ogni strato sociale apprende e rielabora la cultura con i propri tempi e secondo proprie  modalità. Integrità dell’uomo e sviluppo lento e molecolare della realtà sono dunque le parole-chiave del pensiero di questo gigante intellettuale, che è tradotto e discusso in tutto il mondo, ma poco in Italia – tempestivo ed opportuno dunque l’ottimo libro di Giuseppe Benedetti e Donatella Coccoli su Gramsci per la scuola, appena uscito con l’Asino d’oro.

In Gramsci la tensione pedagogica diventa la chiave di volta con cui analizzare tutta la realtà. Per lui «ogni rapporto di “egemonia” è necessariamente un rapporto pedagogico». E ogni uomo è un intellettuale, perché rappresenta l’incarnazione vivente di una concezione del mondo. Coerentemente «ogni maestro è sempre scolaro, e ogni scolaro maestro». Ciò non vuol dire che Gramsci non riconosca le diverse funzioni. Anzi, batte spesso sul tasto della «coercizione» necessaria allo studio e a esso connaturata. Gli allievi devono abituarsi a quel faticoso «tirocinio psico-fisico», che li condurrà pian piano al tesoro del ragionamento astratto. Per chi non appartiene al novero dei privilegiati, ovvero per i proletari, «è un dovere non essere ignoranti». Per provare a sottrarsi al dominio essi devono entrare in possesso, come scrisse Franco Fortini, di «procedure di astrazione e razionalizzazione […] In questo senso la scuola è essenzialmente scuola a livelli di astrazione sempre più elevati».

La scuola di oggi viaggia a distanze siderali da questo tipo di visione complessiva. Il trionfante senso comune privatistico e l’ideologia aziendalistica inoculata quotidianamente nel corpo sociale individuano addirittura nella scuola la causa principale dell’attuale disoccupazione di massa.  Nascondendo il fatto che invece siamo di fronte a una crisi sistemica del capitalismo che marginalizza il lavoro, estrapolandolo dai processi produttivi, immiserendolo, togliendo diritti e comprimendo i salari.

La scuola italiana non riesce più a combattere la diseguaglianza e a promuovere l’ascensore sociale. È oggettivamente osservabile come lo strato sociale di provenienza influenzi sempre più il percorso scolastico degli studenti, dal conseguimento del diploma fino alla frequentazione dell’università. Inoltre una scuola pubblica sempre più deprivata di finanziamenti finisce di fatto per produrre diseguaglianze, perché mentre i ceti abbienti sopperiscono in altri modi alle mancanze educative di un sistema traballante, tutti gli altri non possono che subirle impotenti. La scuola delle “competenze”, che sono spesso capacità di natura soggettiva, per quanto l’Invalsi pretenda di misurarle “oggettivamente”, assomiglia sempre più a quella dello spontaneismo pedagogico, per cui si impara solo ciò che già si è. Si tratta proprio di quell’innatismo rousseauiano verso cui Gramsci rivolge gli strali della sua critica. Per lui al contrario tutta la realtà è in movimento e in perenne trasformazione. E tutti gli uomini sono filosofi. Sviluppo e senso della totalità sono i due fari culturali e politici di un uomo che neanche in carcere ha mai smesso di pensare la relazione sociale in termini educativi. Nelle celebri Lettere dal carcere inviate ai familiari, Gramsci si lamenta più volte a proposito delle fotografie dei propri figli che i familiari gli inviano. E per due motivi. Perché li ritraggono sempre e solo dal busto in su, senza le gambe. E perché le foto arrivano troppo sporadicamente, e in più una alla volta. Così gli risulta impossibile «seguire il loro sviluppo», cogliere la loro «individualità nascente», decifrare la traiettoria invisibile di un lentissimo cambiamento: «Mi manca proprio la sensazione molecolare; come potrei, anche sommariamente, percepire la vita del tutto complesso?». Interezza e molecolarità procedono insieme nella forma mentis di un pensatore che fu brutalmente separato dal suo presente e che, nonostante ciò, lo comprese meglio di tanti altri, proiettando l’ombra lunga delle sue riflessioni verso un futuro che giunge all’oggi, lo interroga, chiamandolo a uno scatto qualitativo necessario, ma ancora tutto da costruire.

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