Il progetto di riforma generale del sistema della ricerca italiano, escluso le Università, è stato elaborato nelle stanze del Ministro della Ricerca senza nessun dibattito, analisi pubblica o contributo degli addetti. Gli esiti meritano un ulteriore silenzio dal momento che la chiusa della proposta dice che “dall’attuazione delle disposizioni del presente titolo non devono derivare nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica.”
Pensare ad una riforma del sistema della ricerca pubblica in Italia con questa condizione finale non può essere considerata un “pensiero” serio essendo ampiamente noto e dimostrato che uno dei problemi centrali del nostro ritardo in materia di ricerca consiste proprio nel costante minor impegno finanziario da parte dello Stato (oltre che del privato) per cui siamo caduti in fondo alle classifiche europee, superati anche dalla Spagna, nella progressiva penalizzazione di questa ricerca con provvedimenti come quello per la riduzione al 20 % del turn-over. Certamente anche in queste condizioni si può sostenere la necessità di razionalizzare la spesa, controllare gli investimenti, eliminare gli sprechi, ecc., ecc., e, in omaggio a questi principi, si può anche far finta di costruire delle riforme o meglio dei provvedimenti per rabberciare la situazione e poi chiamare il tutto con l’impegnativa parola di “riforma”. Per la verità operazioni di questa natura sono già state tentate in questi anni e non è quindi un caso che si sia diffusa la convinzione che non solo sia inutile ma che sia del tutto negativo parlare di riforme a costo “zero”. Ma forse l’errore sta nella pretesa di attribuire alla parola “riforma” un significato automaticamente positivo. Il perché il ministro abbia voluto sfidare questa diffusa convinzione non è facilmente comprensibile. Ma questo è un problema diverso.
Questa osservazione generale è tale da mettere in secondo piano le altre osservazioni critiche che certamente non mancano e non sono di poco conto. La prima riguarda la semplificazione della struttura organizzativa di tutto il sistema per cui da una parte c’è un Centro unico che si occupa di fare tutte le attività di ricerca a qualsiasi settore o questione si riferiscano, dall’altra c’è un’Agenzia, anch’essa unica, che si dovrebbe occuparsi del trasferimento tecnologico cioè delle trasformazioni delle opportunità applicative individuate dalla ricerca svolta dal Centro unico, in prodotti, processi, sistemi applicati a livello economico. Una terza Agenzia dovrebbe coordinare la spesa nella ricerca che si svolge con collaborazioni europee o internazionali e garantire lo sfruttamento dei relativi risultati. Per inciso questa strana articolazione tra nazionale e internazionale non è facilmente comprensibile anche perché si intreccia con le due altre organizzazioni che non possono certo essere limitate alla dimensione nazionale che, in particolare nel caso della ricerca ma, al giorno d’oggi, con la globalizzazione, anche per l’innovazione, non hanno mai rappresentato e non rappresentano un’articolazione di un qualche significato.
Quale poi dovrebbe essere l’iter di un processo inverso e cioè di una richiesta di innovazioni sollecitate da una domanda sociale, non è affatto chiaro.
Resta il fatto che con questa verticalizzazione dell’organizzazione e con la conseguente netta separazioni di attività che devono poter dialogare, non si troverà più un responsabile del cattivo funzionamento in quanto sarà facile scaricare le responsabilità sull’altro e reciprocamente.
Se poi si aggiunge il vincolo del costo “zero” anche solo per coprire le spese “riorganizzative”, ci si può preparare ad un sistema della ricerca pubblica ridotta a “zero” o peggio.
Quale sia il vantaggio del Ministro dello Sviluppo o del Ministro dell’Ambiente dall’essere stati esclusi da una responsabilità primaria nel campo della ricerca/innovazione, resta almeno in parte, comprensibile in relazione alle vocazioni liberiste, ma resta evidente che quando si dovesse parlare di sviluppo sostenibile sarebbe difficile trovare un responsabile politico.
In definitiva se questa “riforma” viene presentata per accrescere i meriti del governo a fronte delle resistenze di un Parlamento poco accreditato, in questo caso i meriti sarebbero da attribuire alla bocciatura del Parlamento. Peraltro il Governo dovrebbe ricordare che è proprio sul tema dello sviluppo – oltre che su quello dell’equità – che sono maggiori e diffuse le critiche nei suoi confronti; il tema ricerca/innovazione ha un significato con riferimento a questi valori e non è proprio corretto che un’eredità come quella di questa “riforma” vada a complicare l’azione del prossimo Governo.
(Fonte http://www.paneacqua.info/2012/10/la-ricerca-e-linnovazione-a-costo-zero/)
Stiamo vivendo in un regime dittatoriale, silenzioso e insidioso.
ecco, ha ragione indrani.
Siamo in un regime dittatoriale cvoll’aggravante che questo modo di fare è assunto suia da destra, che da sinistra, che dai tecnici: l’idea del ‘grande condottiero’, che poche persone ispirate possano risolvere tutto. la nostra tradizione migliore, la risorgimentale, ci dice che nella libera discussione di assemblee di persone civili e competenti (un po’ com’è questo forum) si formano le idee migliori, poi l’applicazione è bene che non sia condotta in maniera assembleare ma sia devoluta a persone specifiche e competenti.
Invece no, da anni (20-30 ?) ogni politico che va al potere pensa di esser il nuovo ‘Roi soleil’ e di fare – insieme a pochi adepti della sua consorteria- la riforma epocale che sitemerà tutto. Assistiamo invece solo ad un fai e disfai deleterio.