Sembra davvero paradossale che tutti, tranne rari docenti, parlino di formazione, specializzazione e concorsi. Sembra, ma non lo è. Perché in realtà il fenomeno rientra nella più generale espropriazione della funzione professionale e intellettuale degli insegnanti, un tempo deputata alla libera trasmissione di un sapere critico anche quando esercitata in attività formative professionalizzanti, oggi depauperata e subordinata alle esigenze produttive del mercato globale anche quando agìta in un contesto non immediatamente orientato al lavoro. Alle politiche dell’istruzione si è sostituita l’economia dell’istruzione e l’insegnante è stato esautorato. Chi è, dunque, che parla di noi e per noi, e a che titolo? Chi detiene oggi il discorso pubblico sulla scuola, tentando di esercitare la propria egemonia? Quali sono i contenuti di questo discorso? A quale ideologia, a quale visione del mondo, questi contenuti afferiscono? E quali sono gli scopi a cui tendono, considerando, come ha dichiarato la ministra Azzolina in una recente intervista al Sole 24 Ore a proposito di assunzioni, “che i docenti formano i cittadini e che in base a come li formano il Paese può cambiare”?

Se vogliamo parlare di formazione in ingresso, modalità di abilitazione, assunzione e formazione in servizio dei docenti, dobbiamo provare a ripercorrere a ritroso le posizioni espresse dall’elenco degli interlocutori indicati nel titolo di questo articolo: dunque, partendo dalla fine, politica, lobby, think tank, università e scuola. Sapendo già, fin da ora, che quando arriveremo ai diretti interessati, maestri e professori, troveremo poche voci in capitolo.

Sembra davvero paradossale che tutti, tranne rari docenti, parlino di formazione, reclutamento, specializzazioni e concorsi. Sembra, ma non lo è. Perché in realtà il fenomeno rientra nella più generale espropriazione della funzione professionale e intellettuale degli insegnanti, un tempo deputata alla trasmissione di un sapere critico-analitico anche quando esercitata in attività formative professionalizzanti, oggi depauperata e subordinata alle esigenze produttive del mercato globale anche quando agìta in un contesto non immediatamente orientato al lavoro. Alle politiche dell’istruzione si è sostituita l’economia dell’istruzione e l’insegnante è stato esautorato. Chi è, dunque, che parla di noi e per noi, e a che titolo? Chi detiene oggi il discorso pubblico sulla scuola, tentando di esercitare la propria egemonia? Quali sono i contenuti di questo discorso? A quale ideologia, a quale visione del mondo, questi contenuti afferiscono? E quali sono gli scopi a cui tendono, considerando, come ha dichiarato la ministra Azzolina in una recente intervista al Sole 24 Ore a proposito di assunzioni, “che i docenti formano i cittadini e che in base a come li formano il Paese può cambiare”?

Cominciamo dalla politica. Così Lucia Azzolina, attuale Ministra dell’Istruzione, nell’intervista al Sole 24 Ore del 16 dicembre scorso:

Penso a una laurea triennale per imparare i fondamenti della disciplina a cui aggiungere una laurea specialistica abilitante per chi decide di insegnare [ … ]. Si tratta di una laurea disciplinare uguale per tutti. Ad esempio, se voglio fare l’insegnante di matematica comincio a prendere una laurea triennale standard come la prendono anche gli studenti che non vogliono insegnare. Nella specialistica abilitante non si continua a studiare la disciplina, ma come la disciplina va insegnata. Perché puoi anche avere delle conoscenze disciplinari ottime ma poi devi essere in grado di trasmetterle agli studenti”.

Per la ministra una laurea triennale è sufficiente per acquisire i contenuti della disciplina che poi si andrà a insegnare nella scuola secondaria di primo e secondo grado. Chiunque conosca minimamente il nostro attuale sistema universitario sa benissimo che una laurea di primo livello è assolutamente insufficiente per acquisire una preparazione disciplinare adeguata all’insegnamento. Anche la laurea conseguita col vecchio ordinamento a mio avviso spesso non bastava e andava integrata, prima del concorso, con ulteriori approfondimenti in corsi di perfezionamento e scuole di specializzazione. Non è un caso che per l’insegnamento nella scuola primaria sia oggi previsto un corso di laurea unico quinquennale in cui il peso dell’insegnamento delle discipline (“i saperi della scuola”, recita il DM 249/2010 che lo ha introdotto) è – giustamente – preponderante. Come ha scritto benissimo Ana Millan Gasca con parole che dovrebbero chiarire in modo definitivo a tutti gli educatori di professione il nesso inscindibile tra apprendimento e insegnamento, “la fisica o la linguistica o la letteratura italiana o la biologia sviluppano dal loro interno riflessioni di tipo storico-epistemologico e didattico che sono cruciali per la formazione di un futuro insegnante di scuola secondaria di primo e secondo grado”.

Sorprende dunque la leggera disinvoltura con cui la Ministra licenzia la sua proposta, un ennesimo 3 + 2 in cui a scarse conoscenze disciplinari si sommerebbero successivamente un po’ di pedagogia e didattica. Ma l’idea piace a molti esponenti delle lobby e dei think tank che in Italia da alcuni anni si occupano di istruzione, attaccando sistematicamente il valore e la funzione dello studio delle discipline, come ci spiegano bene Giovanni Carosotti e Rossella Latempa nei loro approfondimenti. Sono gli stessi che, mentre lamentano a gran voce il declino culturale del Paese, attribuendone la causa agli insegnanti che non si aggiornano a dovere, vagheggiano la riduzione di un anno delle superiori, la marginalizzazione delle conoscenze epistemologicamente fondate in nome di ‘argomenti’ e ‘spunti’ decontestualizzati, la riduzione delle materie umanistiche e la diffusione dell’educazione finanziaria e dell’autoimprenditorialità, l’introduzione del coding alle elementari e la sostituzione dei libri con tablet e pc, o delle lezioni, frontali e laboratoriali, con la flipped classroom, e che, in luogo dei noiosi professori di italiano, matematica o scienze, vorrebbero dei simpatici ‘animatori’, possibilmente digitali.

Perché quello che conta in realtà non è sollevare il nostro Paese dallo stato di barbarie culturale generalizzata in cui si trova incrementando con ogni mezzo la possibilità di un’istruzione di altissima qualità per tutti, intesa come valore in sé nell’alveo di un’educazione capace di ‘umanizzare l’uomo’, ma è invece realizzare attraverso la scuola (così la Fondazione Agnelli nel suo volumetto sulle competenze) nuovi “asset competitivi per le organizzazioni e per gli stessi individui nel passaggio attuale all’economia dell’immateriale, del digitale, dell’informazione”, nuove “disposizioni nell’agire delle persone” incentrati su resilienza e adattività, evidentemente molto più funzionali all’asfittico e necrotico brave new world in cui stiamo vivendo e in cui lo studente, già cliente, è ora “capitale umano” fin dall’asilo.

Leggiamo il Programma pluriennale 2019-22 della Fondazione per la sussidiarietà della Compagnia di San Paolo, in cui si sottolinea che la recente “global employers survey, promossa da BIAC (business and industry advisory committee, attiva presso Ocse), ha indicato una duplice priorità per l’educazione: riformare il curriculum e connetterlo ai bisogni del mercato del lavoro”; ripassiamo la missione di Fondazione Agnelli, che, leggiamo in home page, “dal 2008 ha concentrato attività e risorse sull’educazione (scuola, università, apprendimento permanente) come fattore decisivo per il progresso economico e l’innovazione”; ripercorriamo le finalità di Ocse che, come ci spiega bene il sito della rappresentanza permanente in Italia delle organizzazioni internazionali, “ha come obiettivi la promozione di politiche per realizzare più alti livelli di crescita economica sostenibile e di occupazione nei Paesi membri, favorendo gli investimenti e la competitività e mantenendo la stabilità finanziaria, contribuire allo sviluppo dei Paesi non membri, contribuire all’espansione del commercio mondiale su base non discriminatoria in linea con gli obblighi internazionali”: obiettivi economici fortemente competitivi a cui l’intera operazione di comparazione degli apprendimenti misurati a livello globale è sottomessa[1].

In questo scenario, la posta in gioco non è semplicemente la formazione dei docenti ma la nostra idea di scuola e società e con essa la nostra idea di ‘persona’, prima ancora che di cittadino e lavoratore. E questa può essere l’occasione per tutti i docenti di riprendere il proprio discorso pubblico sulla scuola, altrimenti destinato ad essere definitivamente colonizzato ed eterodiretto. Le pressioni dei portatori di interessi meramente economici che, come è ormai di tutta evidenza, stanno egemonizzando scuola e università condannandole all’apoptosi, sono fortissime. Non si illudano la ministra e via via giù per li rami che l’interlocuzione con chi, in ossequio alla ‘ragion di mercato’, ha inventato la  più grande competizione concorrenziale tra le scuole superiori del paese[2], possa essere qualcosa di diverso dalla mera acquiescenza aziendale.

[1] Paul Morris (2015) Comparative education, PISA, politics and educational reform: a cautionary note, Compare: A Journal of Comparative and International Education, 45:3, 470-474

[2] Eduscopio 2019, la classifica delle scuole superiori. Trova la tua città. https://www.quotidiano.net/cronaca/eduscopio-2019-1.4872492

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8 Commenti

  1. Si attribuisce a Giovanni Ricci l’aforisma secondo il quale il professore, per insegnare 10, deve sapere 1000: per quel che ne so da esterno al mondo accademico ormai da tanti anni, quel che si apprende nell’ambito di un titolo triennale non mi sembra sufficiente per formare un buon docente “disciplinarista” (la laurea quadriennale del vecchio ordinamento è equiparata – mi si corregga se sbaglio – al titolo specialistico/magistrale). Naturalmente avendo assunto come ipotesi di lavoro che disporre di personale docente che conosca la propria disciplina a un buon livello di approfondimento sia davvero quel che vuole il MIUR…

  2. Viviamo in un paese incapace di investire in cultura, il declino è inevitabile. 0,3% del PIL in scuola e ricerca contro una media europea del 1,5%. Stipendi il 50% di quelli Ciprioti a parità di carichi di lavoro. Non mi aspetto più nulla, la politica è riuscita a partorire la ‘Buona scuola’ con il consenso di una maggioranza che doveva essere ‘sensibile’. Avete notato tentennamenti eo ripensamenti della politica? Io nessuno, meglio concentrarsi su: sole, mare, chitarra e mandolino.

  3. “Perché puoi anche avere delle conoscenze disciplinari ottime ma poi devi essere in grado di trasmetterle agli studenti” (L.Azzolina, non c’era ancora il coronavirus, né primario né secondario). In tre anni “puoi … avere delle conoscenze disciplinari ottime”? 3 ani di apprendimento contro 2 anni per come insegnare nella scuola? Meno male che non c’è un regime di 2+3. Apprendere e sapere, saper trasmettere, saper comunicare, saper parlare e scrivere (raccomandazione chiave per tesine di futuri insegnanti di sostengo: “mi raccomando, l’ortografia” e nient’altro), saper comprendere gli studenti della scuola odierna, conoscere i loro problemi generazionali e quant’altro. Non credo siano sufficienti i 5 anni, e poi si impara anche dalla propria esperienza concreta. E poi le situazioni evolvono rapidamente e non credo che nei due anni si insegnerà la preveggenza. Ho l’impressione che sul biennio magistrale universitario italiano si esercitino invece pressioni disciplinari del “(saper) trasmettere” a scapito del “sapere”, come se quest’ultimo non provenisse, a sua volta, anche da un “saper trasmettere, insegnare, fare”, come se il discente universitario avesse imparato e studiato per tutta la sua vita esclusivamente in solitudine su libri (categoria obsoleta, ma pazienza) e non attraverso un processo comunicativo dialettico, dinamico, variabile, e dalle molteplici implicazioni psico-didattiche.

    Ho trovato questa descrizione-valutazione dei ragazzini odierni e dei loro rapporti con la famiglia (risalente al 2013, dunque forse già obsoleta, sempre che sia corretta o condivisibile): “… a relatively recent anthropological study on educational responsibility in Northern Italy. According to it, the sociocultural framework where today parents play their roles has significantly changed over time. On the one hand, from a patriarchal system it has turned into a democratic one, where democracy has been extended also in vertical line to include children, whose rights indefinitely proliferate. Family has been expropriated of several functions (economic, educational, formative, etc.) and has become an exclusive affectivity space. On the other hand, from being a solid construction built on lasting and stable relationships, family has become a fluid entity where everything rapidly changes. In this new model, parents are always in a hurry and have less time for letting their offspring to deal with practices of daily life. What is broken (whether an item or a relationship) is to be replaced: care dimension has almost disappeared. Parents have lost their role-model in politics and faiths: indifference for social commitment spreads. Children’s skills, experiences and autonomies seem to have taken over individual and social responsibilities. Parental responsibility seems to have lost its previous sense of daily integration of social and relational dimension in individual identity.”

    Di conseguenza, la scuola deve supplire anche a questo? e questo s’impara in 2 anni?

  4. Credo anche io che si stiano spostando investimenti da certe discipline verso altre … Né è un caso la indicazione di 24 CFU di discipline demoantropologiche obbligatorie per accedere all’insegnamento. E’ disperante vedere come non vi sia un chiaro piano per la formazione insegnanti e non si contempli il fatto che le intelligenze vive si autoformano nella vita culturale del Paese, rispondendo a mille sollecitazioni. L’Università dovrebbe fornire occasioni di incontro, ascoltare, piuttosto che indottrinare.
    Detto questo, la conoscenza e il modo di acquisire conoscenza sono due obiettivi imprescindibili che nella parcellizzazione dei nostri corsi non diamo più. Sono d’accordo con Marinella Lorinczi.

  5. Ovvio che una semplice laurea triennale, con gli attuali standard, non fornisca basi sufficienti.
    Ma anche dopo una laurea magistrale attuale uno non e’ pronto per insegnare, perche’ non ha studiato nulla di psicolgia, pedagogia e didattica (parlo di lauree in materie STEM).
    Quindi la ministra ha ragione, queste cose servono a tutti gli insegnanti.
    A me, che insegno ad ingegneria ed architettura, sarebbe servito tantissimo frequentare corsi su queste materie, ed invece nulla, neanche durante il dottorato.
    Sono diventato professore senza che mai mi fossero dati gli strumenti base per insegnare.
    Questo non va bene…
    Poi fortunatamente nel mio caso ho avuto altre esperienze ove psicologia, pedagogia e didattica le ho potute imparare per bene (sono diventato istruttore subacqueo).
    Ma vedo tanti miei colleghi che sono diventati professori senza alcuna preparazione specifica, ed infatti sono dei cani ad insegnare, seppure dei luminari della loro materia.
    Per non parlare poi di quei casi in cui uno viene chiamato ad insegnare una materia diversa dalla sua!

    • In tutta onestà, credo sia anche merito di una sua vivacità intellettiva. Perché “rem tene verba sequentur” vale per tutti, non solo per Cicerone.

      Perché ne ho visti di docenti “luminari” ma cani a spiegare, come lei stesso ammette. Orbene, costoro non sono veramente i migliori del campo, saranno magari dei numeri 3 numeri 7, ma numeri 1 mai! Non cada mai in tentazione di pensare diversamente. L’aiuterà molto sapere ciò, e le porterà tanto giovamento nella vita.

  6. E’ vero che di didattica non si parla, benché gli studenti siano ritenuti capaci di valutare la didattica dei docenti. Per esperienza so che pochi di loro apprezzano, molti agiscono in modo opportunistico, cercando l’esame più facile. Già in questo c’è un fallimento dell’Università che incoraggia tali atteggiamenti, che non dà il giusto spazio alle discipline che formano e danno poi le conoscenze utili per poter trasmettere qualcosa in modo critico. Non abbiamo bisogno di ripetitori.
    Le parole della Azzolina mi infastidiscono perché non sono niente più che stanchi cliché ripetuti da studenti e genitori … Ma la didattica e lo studio di pratiche didattiche deve essere al centro dell’attenzione dei docenti… I docenti più stimati dagli studenti spesso rifiutano ogni discorso su questo punto come troppo ‘basso’ per loro che sono geniali.
    Riuscissimo a cambiare questo avremo possibilità di incidere, ma è un mutamento culturale quasi impossibile nel nostro mondo superficiale e cinico

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