Nel rapporto La Buona Scuola. Facciamo crescere il Paese, pubblicato pochi giorni fa dalla Presidenza del consiglio dei ministri e dal Ministero dell’istruzione, dell’università e della ricerca, uno speciale interesse per i docenti riveste il secondo capitolo, dal titolo Le nuove opportunità per tutti i docenti: formazione e carriera nella buona scuola; e in particolare il paragrafo 2.3, Premiare l’impegno: come cambia la carriera dei docenti.

Ormai da molti anni gli insegnanti della scuola pubblica sono privati del rinnovo contrattuale; sono sottoposti con tutti i dipendenti statali al perdurante (ne è stata annunciata l’ulteriore proroga fino a tutto il 2015) blocco degli stipendi, per i quali non viene neppure riconosciuto il recupero dell’inflazione; sono titolari di retribuzioni tra le più basse d’Europa per la categoria, talmente esigue che tutti gli ultimi ministri dell’istruzione (compresa l’attuale) hanno, all’inizio del loro incarico, biasimato pubblicamente questa situazione. È dunque comprensibile che le aspettative dei docenti su questo tema, già molto vive, siano state ulteriormente stimolate dalle frequenti dichiarazioni del Presidente del Consiglio, che ha più volte enfatizzato la centralità della professione docente per lo sviluppo della nazione e l’opportunità di un suo maggiore riconoscimento. Lo stesso rapporto La Buona Scuola è tutt’altro che privo di enfasi: bisogna rivendicare il «coraggio di ripensare come motivare e rendere orgogliosi» gli insegnanti; essi hanno «alta responsabilità professionale e civile» (p. 6) e ciascuno di loro determina «il futuro di centinaia di ragazzi più di quanto possa farlo un membro del Governo o l’amministratore delegato di una società»; occorre «puntare su quel merito che serve per ridare dignità e fiducia» (p. 44); bisogna «considerarli finalmente come persone e come professionisti» (p. 48) – tutto ciò in coerenza con un piano generale di riforma che si proclama senza precedenti per attenzione politica e culturale alla scuola e per impegno economico:

«Questo Governo non ha esitazioni: la scuola è la priorità del Paese, e su di essa intendiamo mobilitare le risorse che servono» (p. 118)

Ma l’argomento non riguarda solo i diretti interessati, al contrario risulta fondamentale rispetto al tema della “buona scuola”: perché è evidente – a meno di impostare il discorso in termini non professionali, ma volontaristici e missionari – che la condizione contrattuale e il trattamento economico di una categoria di lavoratori non possono non incidere sia sulla qualità del servizio da loro prestato (soddisfazione e motivazione dei docenti nei confronti del proprio lavoro, attualmente in crisi; possibilità concreta, oggi seriamente compromessa, di usufruire nel quotidiano di quelle autonome esperienze culturali che costituiscono l’autentica formazione di un docente), sia sulla composizione stessa della categoria (capacità di attrazione della professione docente per i migliori giovani e gli studenti più brillanti: oggi quasi a zero). Non è interesse di nessuno, si direbbe, che i docenti della scuola pubblica continuino a scivolare in una condizione di ristrettezza e di avvilimento.

Era dunque auspicabile che le proposte del Rapporto su questo tema delicato fossero significativamente migliorative rispetto alla situazione attuale, tanto negativa; ed era doveroso che lo si affrontasse con onestà e lo si esponesse con correttezza, in modo che sia i diretti interessati sia l’opinione pubblica potessero, come si legge, partecipare a un

«dibattito e confronto … nel quadro di quella che vogliamo diventi la più grande consultazione – trasparente, pubblica, diffusa, online e offline – che l’Italia abbia mai conosciuto finora».

Purtroppo nulla di ciò si è verificato. Nel merito, le proposte di riforma non migliorano la condizione della categoria, anzi la peggiorano e inseriscono nella vita della scuola elementi dannosi e persino pericolosi; nel metodo, la loro presentazione è in più punti artefatta e tendenziosa, fino alla falsificazione.

Il sistema illustrato nel Rapporto si può riassumere così:

• al 1 settembre 2015, la posizione stipendiale di ciascun docente, maturata in base alle attuali regole (scatti di anzianità), sarà fissata definitivamente e costituirà la base stipendiale su cui opereranno le nuove regole;

• da quel momento in poi, alla fine di ogni triennio (1 settembre 2018, 2021, 2024 ecc.), i due terzi dei docenti di ciascuna scuola (o “rete” di scuole) riceveranno un aumento stipendiale, il restante terzo non riceverà nulla;

• l’aumento triennale viene stimato in 60 € mensili («potrebbe essere»; l’esempio vale solo per i docenti della scuola superiore);

• i docenti cui attribuire l’aumento saranno individuati, di triennio in triennio, in base al numero di crediti da loro accumulati nel periodo in esame; tali crediti (distinti in didattici, formativi, professionali) saranno attribuiti da un Nucleo di valutazione interno a ogni scuola, cui partecipa anche un membro esterno;

• il numero massimo di scatti triennali nella carriera è fissato in 12 per un aumento teorico massimo di 720 € rispetto allo stipendio iniziale, dopo almeno 36 anni di servizio e nell’ipotesi di un docente che in tutti i trienni sia sempre risultato nei due terzi ‘vincenti’;

• non esisteranno altre modalità di avanzamento della posizione stipendiale.

Com’è facile capire, nel momento in cui si assume come base stipendiale del nuovo sistema al 1/9/2015 (e con ulteriore blocco fino al 1/9/2018) l’attuale stipendio dei docenti italiani – basso, come si è detto, e congelato dal 2009 –, di fatto viene meno fin da principio ogni reale possibilità di miglioramento sostanziale della loro condizione economica. Smentendo tutte le dichiarazioni passate e presenti, anche del Rapporto stesso, sulla necessità di un maggiore riconoscimento della categoria, e a dispetto di tutte le valutazioni comparative con i paesi dell’Unione Europea, si continua a ritenere che un insegnante della scuola pubblica, dotato di laurea magistrale e di specializzazione all’insegnamento, portatore di quella «alta responsabilità professionale e civile» che per il futuro «di centinaia di ragazzi» lo rende più importante di «un membro del Governo o dell’amministratore delegato di una società», meriti una retribuzione-base di meno di 1.300 € al mese. Anzi, si introduce persino la possibilità che questa modestissima retribuzione-base rimanga invariata per l’intera vita lavorativa di un docente, stabilendo in linea generale che – considerandone statisticamente l’insieme – a un terzo del corpo docente italiano sia negato per sempre qualsiasi aumento stipendiale.

La situazione economica attuale, peraltro, viene presentata nel Rapporto in un modo artefatto e fuorviante. La tabella di p. 49, Come funziona oggi la carriera dei docenti, riporta le cosiddette «posizioni stipendiali» nei vari ordini di scuola e per le varie fasce di anzianità. Stando al Rapporto, un docente di liceo guadagnerebbe attualmente nella prima fascia stipendiale 34.400 € annui (2.646 € mensili per 13 mensilità), che salirebbero a 39.066 € nella seconda, fino a un massimo di 53.985€ a fine carriera (4.152 € mensili). Sono cifre che nessun docente d’Italia ha mai visto, neppure da lontano, e che grosso modo equivalgono a più del doppio di quanto effettivamente percepito in busta paga: si tratta infatti, come segnalato in una noticina senza fornire spiegazioni, del cosiddetto «lordo Stato». Il «lordo Stato» non è lo stipendio lordo come comunemente si intende, quello cioè sul quale il lavoratore paga all’origine i contributi previdenziali e le ritenute fiscali, bensì il totale comprensivo degli oneri previdenziali e fiscali a carico del datore di lavoro; costituisce insomma non lo stipendio del lavoratore, ma piuttosto il costo di quel lavoratore per il datore di lavoro (infatti «costo» e non «stipendio» viene definito nel capitolo sulle assunzioni: all’inizio della carriera il «costo medio per docente è di 36.000 € l’anno compresa la ricostruzione di carriera iniziale», p. 34). A tutti i docenti è capitato più di una volta di vedere tabelle delle fasce stipendiali, ma credo che nessuno abbia mai sentito parlare del «lordo Stato». Perché allora nel Rapporto sono state utilizzate, nell’ambito di un discorso urbi et orbi sullo stipendio degli insegnanti statali, le cifre del «lordo Stato»? Evidentemente perché esse possono indurre i lettori, che non siano docenti, a ritenere che l’attuale condizione economica degli insegnanti statali sia tutto sommato positiva e che il nuovo sistema – che prende l’attuale come base – continui a tutelarla.

Analogamente lascia a dir poco perplessi il modo in cui viene introdotto l’argomento del «trattamento economico» (p. 53). Ci saranno, si scrive, «due modi, complementari e cumulabili», per integrare lo stipendio-base: il primo sono gli scatti triennali, il secondo – attenzione – «lo svolgimento di ore e attività aggiuntive, ovvero progetti legati alle funzioni obiettivo». Ma è del tutto ovvio che le ore e le attività «aggiuntive» siano retribuite: lo sono (poco, pochissimo) già oggi, come lo sono sempre state; e altrettanto scontato è che esse siano «cumulabili» con gli scatti stipendiali, perché sarebbe semplicemente assurdo pensare il contrario. Definire ciò un «secondo modo» di incrementare lo stipendio «complementare e cumulabile» con gli scatti triennali sembra funzionale più a un marketing da pubblicità commerciale, che al proposito di informare correttamente il lavoratore e il cittadino.

Sulla stessa linea, ma ancora più censurabile è la spiegazione che viene fornita della transizione al nuovo sistema. La transizione, si dice, «non sarà per nessuno drammatica e nella maggior parte dei casi favorirà anzi una vastissima platea di docenti attualmente in ruolo» (p. 56). A titolo di esempio, vengono prese in esame le situazioni di tre docenti diversi: un docente neoassunto; un docente che al 1/9/2015 entra nella seconda fascia stipendiale; un docente che al 1/9/2015 entra nella terza fascia, per dimostrare come il nuovo sistema permetterà loro di conseguire il prossimo aumento di stipendio dopo soli tre anni (2018), invece che dopo altri sei come nell’attuale. I tre esempi, però, sono scelti in modo talmente capzioso da confermare che questo capitolo del Rapporto non è stato redatto in spirito di verità e di onestà: tutti e tre infatti configurano il caso più fortunato, quello in cui al 1/9/2015 un docente si veda riconosciuto lo scatto stipendiale che attendeva da anni e, contemporaneamente, venga inserito nel nuovo sistema. Ma è evidente che, per un docente che al 1/9/2015 si trovi in questa condizione fortunata, ce ne saranno molti di più che, alla stessa data, si vedranno cancellati uno, due, tre quattro e persino otto anni di anzianità già conseguita: giacché, se la posizione stipendiale di ciascuno verrà congelata nella fascia in cui si trova, è come se tutti venissero retrocessi d’ufficio al momento in cui sono entrati in quella medesima fascia, senza ottenere più lo scatto che da anni stavano maturando. Per esempio, un docente cui nell’attuale sistema spetti lo scatto in quarta fascia a settembre 2016 (circa 140 € di aumento: lo sta maturando dal 2009), non lo otterrà mai, ma potrà solo concorrere con tutti gli altri ai nuovi mini-scatti di 60 € previsti dalla riforma, e solo a partire dal 2018; il che significa che per almeno nove anni il suo stipendio non avrà subito variazioni e che egli non potrà mai recuperare quanto perduto.

Di mini-scatti, infatti, o di nano-scatti si deve parlare, non certo di incrementi significativi. Nell’ipotesi più favorevole («potrebbero» esserci, e solo «per un docente di scuola superiore»: gli altri prenderanno ancora meno) l’aumento stipendiale alla fine di un triennio sarà di 60 € al mese. Sessanta euro oggi non bastano per il pieno di benzina di un’utilitaria; tra qualche anno non basteranno per la metà. Eppure è questa la cifra per la quale, tra il 2015 e il 2018 (e poi tra il 2018 e il 2021, e così via) i docenti statali dovrebbero dar vita a una gigantesca competizione meritocratica, una gara per conseguire il maggior numero possibile di crediti didattici, professionali e formativi e risultare tra i vincitori all’interno del loro istituto; la stessa cifra che, già oggi, un docente può percepire impartendo tre ore al mese di lezioni private a casa propria, compresi i contributi assicurativi e previdenziali di legge. Quella che si ipotizza, allora, non è una categoria di professionisti più qualificata che in passato e più consapevole di se stessa: piuttosto una massa di operai sottopagati bisognosa, o disposta a sgomitare per una manciata di euro.

E da chi sarà pagato l’aumento ai docenti con più crediti? Come spiega candidamente il Rapporto, dai colleghi perdenti:

«Le risorse utilizzate per gli scatti di competenza saranno complessivamente le stesse disponibili per gli scatti di anzianità, distribuite però in modo differente secondo un sistema che premia l’impegno e le competenze dei docenti. Ciò consente all’operazione di non determinare oneri aggiuntivi a carico dello Stato» (p. 57)

Ecco l’amara verità: la condizione economica dei docenti come categoria di lavoratori non migliora di un solo euro, non è previsto che lo faccia: semplicemente, a un terzo dei docenti statali verrà negata una parte della retribuzione, che finora spettava loro per contratto, e con essa verranno dati pochi euro in più, rispetto al sistema attuale, agli altri due terzi (pochissimi euro in più, necessariamente: perché quello che verrà tolto a un docente dovrà coprire gli scatti di due).

Nessun premio, nessun maggior riconoscimento, nessun miglioramento da parte di quel Governo «che non ha esitazioni: la scuola è la priorità del Paese» e che su di essa intende «mobilitare le risorse che servono»: è lo stesso fieno di sempre, ma stavolta lanciato nel recinto lasciando che lo addentino “i più bravi”.

In questo modo, nell’ipotesi che i docenti vincitori degli scatti triennali siano di volta in volta sempre gli stessi, ci ritroveremmo in capo a qualche triennio con un terzo dei docenti italiani ridotti per legge a una condizione di diseredati privi di dignità professionale, in condizioni economiche più che precarie e destinati, dato il sistema pensionistico contributivo, a un futuro ancora più fosco; nel caso, invece, che di triennio in triennio risultino vincitori ora l’uno ora l’altro docente, il risultato finale della gigantesca competizione sarà un ‘pari e patta’ nel quale, dopo tanto affannarsi, ciascuno si ritroverà con i medesimi magri incrementi stipendiali del sistema attuale.

Sull’efficacia del meccanismo, poi, che dovrebbe permettere la selezione dei docenti “più bravi” da premiare ogni triennio, si può nutrire più di un dubbio. L’assunto di partenza, anche stavolta asserito con enfasi, è che si debba considerare in primo luogo la qualità della didattica:

«Nessuna ambiguità quindi: la qualità della didattica sarà il criterio di valutazione più importante del docente che vorrà fare carriera nella scuola».

Ma il meccanismo a punti delineato nel Rapporto, nel quale ciascun docente dovrebbe cercare di farsi “certificare” sul proprio “portfolio” quanti più “crediti” possibili con le più disparate esperienze formative e professionali, non sembra conseguente con questa dichiarazione di intenti. Crediti «documentabili, valutabili, certificabili» da acquisire attraverso percorsi «accreditati, documentati, valutati e certificati» e da registrare in un portfolio «in formato elettronico, certificato e pubblico» (pp. 51-52): formulazioni-mantra oggi in voga che forse possono convincere chi consideri assai superficialmente il tema in oggetto, ma di cui si stenta a intravedere la relazione con la qualità della didattica di un docente. Davvero irrazionale appare l’assoluta fiducia, che il Rapporto esprime, di identificare per tale via i docenti “più bravi”. Peraltro la pretesa efficacia di simili procedure nel mondo della scuola è smentita dalle esperienze finora fatte in tale direzione: basti pensare a quanto sono stati indotti a fare, per non essere scavalcati in graduatoria, proprio i docenti precari inseriti nelle graduatorie permanenti, un mercato dei crediti assai più vantaggioso per il bilancio delle agenzie private che lo hanno gestito, che per la qualità professionale dei docenti (e dire che il Rapporto stesso, nel capitolo precedente, lamenta giustamente la misera condizione di questi docenti che invece di essere «concentrati esclusivamente su come insegnare bene» sono stati «costretti a dedicare tempo ed energie a capire come mettere fine alla propria condizione di precario», p. 14).

Ma pensiamo anche a che cosa comporti in concreto, nella vita di una scuola, introdurre un sistema del genere. Chi farà da arbitro e da giuria, nella gara per i crediti? Il Nucleo di Valutazione. E da chi sarà composto il Nucleo? Da una parte dei docenti stessi dell’istituto, più un membro esterno (più, si può scommettere, il dirigente). Solo chi non ha la più pallida idea di che cosa sia la vita di una comunità scolastica, può non vedere quanto sia esiziale una simile prospettiva. Come si può immaginare che un docente si lasci indurre a decretare, lui, a quale dei suoi colleghi spetti non dico la responsabilità di un’attività aggiuntiva durante l’anno scolastico (già questa risulta spesso una scelta delicata, e la si fa nel collegio dei docenti), ma addirittura uno scatto di stipendio? E nel caso che ciò avvenga, quali danni produrrebbe una simile operazione sui rapporti tra coloro che dovrebbero attuarla e subirla? Quella comunità di persone tanto diverse per età, carattere, idee, interessi, formazione, che nonostante le divergenze, e talvolta gli scontri, si ritrova pur sempre insieme all’inizio di ogni anno scolastico per condividere la gestione di una comunità di studenti, sarebbe irrimediabilmente perversa e avvelenata da una pratica del genere. E quale sarà l’effetto sulla credibilità e l’autorevolezza del docente nei confronti dei suoi studenti, quando sarà certificato che egli non figura tra i «bravi docenti» della sua scuola? Invece nel Rapporto si dichiara, incredibilmente, che

«di tutti gli aspetti del nuovo sistema ce n’è uno più importante di tutti. Ed è che l’unità di riferimento per il calcolo del 66% sia la singola scuola … questo creerà un incentivo sano per tutti i docenti all’interno di ogni scuola … eviterà distorsioni e anomalie (casi di scuole dove i docenti sono sempre tutti nel primo 66%)» (p. 58)

e addirittura si sostiene che questo meccanismo perverso consentirà di aumentare nientedimeno che la coesione sociale:

«i docenti mediamente bravi, infatti, per avere più possibilità di maturare lo scatto, potrebbero volersi spostare in scuole dove la media dei crediti maturati dai docenti è relativamente bassa e quindi verso scuole dove la qualità dell’insegnamento è mediamente meno buona, aiutandole così a invertire la tendenza … il meccanismo nel suo complesso consentirà di ridurre la disparità tra scuole, e aumentare la coesione sociale» (ib.)

 È un ragionamento – se questa parola si può utilizzare – che lascia sgomenti. Dunque: Giorgio è un docente ‘mediamente bravo’ (non bravissimo, ma neppure scarso: mediamente bravo), ma nella sua scuola non riesce ad ottenere lo scatto perché molti suoi colleghi sono bravissimi. A questo punto, secondo il Rapporto, Giorgio dovrebbe pensare così: “in questo istituto mi trovo abbastanza bene, non è troppo lontano da casa, sto portando avanti un lavoro con le mie classi… però non riesco ad avere l’aumento di 60 €. Sai che cosa? Potrei chiedere il trasferimento e cominciare tutto da capo in un’altra scuola, magari più lontana, ma che sia piena di insegnanti mediocri con pochi crediti”. A questo punto, secondo il Rapporto, i nuovi colleghi di Giorgio lo accoglieranno a braccia aperte, riconoscendo subito in lui quella media bravura di cui loro sono ancora privi; i membri del Nucleo di Valutazione gli concederanno lo scatto agognato, a scapito di colleghi che conoscono da anni e con i quali hanno lavorato a fianco a fianco; l’intera scuola lo prenderà a modello per il proprio miglioramento professionale; la coesione sociale del Paese ne trarrà giovamento.

Il rapporto “La Buona Scuola”. Facciamo crescere il Paese”, si legge, «è il frutto del lavoro portato avanti congiuntamente, tra luglio e agosto 2014, dal Presidente del Consiglio Matteo Renzi e dal Ministro Stefania Giannini» (p. 134).

La scuola pubblica meritava un lavoro più intelligente, più serio, più onesto.

 

Enrico Rebuffat

Liceo Michelangiolo, Firenze

enrico.rebuffat@teletu.it

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15 Commenti

  1. “stabilendo in linea generale che – considerandone statisticamente l’insieme – a un terzo del corpo docente italiano sia negato per sempre qualsiasi aumento stipendiale”

    No. Questo varrebbe solo “nell’ipotesi che i docenti vincitori degli scatti triennali siano di volta in volta sempre gli stessi”, come scritto nell’articolo.

    Mi sembra un’ipotesi un po’ azzardata. Realisticamente ci saranno dei docenti sulla “linea di confine” (ad un terzo della scala) che qualche volta avranno l’aumento e qualche volta no. E questo senza considerare la mobilità (più o meno “forzata”). Pertanto la quota di docenti che a fine carriera non vedranno alcun aumento sarà decisamente minore di un terzo.

    • Pietro, giusta osservazione. Il punto però non è questo. Il punto è che è assurdo postulare che il 33% dei docenti di ogni singola scuola (non del totale, nota bene) siano “non meritevoli”. Questo è un gioco molto simile a quello delle mediane e sembra uscito pari pari da certe allucinazioni in tema di competitività tipiche dei consulenti aziendali.

    • Aggiungo: è una interpretazione pavloviana dei manuali di economia dell’organizzazione. L’idea sottesa è che l’unica e sola variabilke a guidare i comportamenti dei lavoratori sia ilpremio in denaro. Per cui se metto in competizione localmente i lavoratori per guadagnarsi una fetta di torta più grande, migliora la qualità di tutto. A nessuno viene in mente che i lavoratori non sono carciofi (sob mi è sfuggita una citazione colta) o meglio non sono cani di Pavlov. E che l’impegno sul lavoro e la qualità del lavoro svolto dipende anche (alcuni ritengono sopratutto) dalla percezione di fairness delle retribuzioni. L’idiozia delle mediane ed adesso del 30% nasce tutta da qua. Dal fatto che nessuno si è mai letto un rigo in più di quanto contenuto in un pessimo manuale di microeconomia….

    • ci sono dei bei case studies sull’applicazione della gaussiana ai voti degli studenti nelle università americane. Un esempio famoso degli esiti non voluti è lo studente che strappa le pagine dei libri in biblioteca per fregare i colleghi impedendo loro di studiare.

    • Se tu sei un politico a corto di idee e a caccia di consenso a chi ti rivolgi? A un filosofo, o a un economista pensante, che ti risponde che la faccenda è complessa, che i valori sono plurali, che il mondo è incerto, che non esistono soluzioni politiche perfette (tutte cose vere, per inciso) o a un consulente di McKinsey che ti dice che c’è una soluzione efficiente e te la illustra con una bella presentazione in power point? Io non scommetterei sulla prima possibilità.

  2. L’intervento è a mio avviso eccellente per limpidezza, rigore e onestà. Quello che manca a chi ha redatto il dépliant “La buona scuola”.
    E francamente, non mi pare il caso di discutere sulla percentuale di docenti che non avranno alcun aumento in 40 anni di carriera (o ne avranno due o tre, che non fa molta differenza).

  3. Ma uno ne vorrebbe sapere di più: chi sono questi pessimi consulenti che raccontano favolette aziendali da quattro soldi? Perché uomini di valore, cultura ed esperienza stanno fuori dai ministeri? Perché formule che hanno fallito ovunque continuano a essere ripetute come mantra insensati da pecoroni dotati di troppo potere?

  4. Grazie per l’analisi chiara, almeno siamo ancor più consapevoli di quali sono le tendenze. Per eventuali 700 euri in più all’anno nemmeno verrebbe la pena di continuare a parlarne se non per rendercene conto che questo testo può rappresentare il modello ideologico e discorsivo-retorico di quelli che seguiranno, rivolti ad altri comparti della società. Foriero di una “rivoluzione”.

  5. Ho isolato questo brano, a p. 45 (cap. “Quali competenze per i nostri docenti”): “Ci si aspetta inoltre che non insegnino solo un sapere codificato (più facile da trasmettere e valutare), ma modi di pensare (creatività, pensiero critico, problem-solving, decision-making, capacità di apprendere), metodi di lavoro (tecnologie per la comunicazione e collaborazione) e abilità per la vita e per lo sviluppo professionale nelle democrazie moderne. Aspettative su cui in buona parte non sono stati preparati dai loro percorsi di studio e che devono necessariamente essere sostenute da un solido sistema di sviluppo professionale.”
    Dunque l’università non li prepara ad aver modi di pensare creativi ecc. Ma trasmette soltanto un sapere codificato inadatto per la professione dell’insegnante di scuola. Allora andrebbe riformata anzitutto l’università.
    Metodi di lavoro = tecnologie per la comunicazione e collaborazione (???)
    Abilità per la vita = ???
    Che cosa sono le “democrazie moderne” secondo Renzi-Giannini? Nel Democracy index (elaborato su 167 stati), nel 2010 l’Italia risultava essere una democrazia imperfetta, al 31-o posto. Ora ci si troverebbe nell’era postdemocratica, secondo certi analisti. Comunque, “La buona sQuola” vola alto. Io preferisco in questo frangente il punto di vista del ranocchio.

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