Il documento sulla “buona scuola” proposto dal governo rilancia, nelle sue linee essenziali, il modello di formazione degli insegnanti della scuola secondaria previsto dal DM 10 settembre 2010, n. 249. Si annuncia l’istituzione di un «biennio specialistico improntato alla didattica» e a numero chiuso, al quale seguirebbe un semestre di tirocinio a scuola. L’idea di creare un corso di laurea magistrale biennale specifico e diverso da quelli “disciplinari” venne duramente contestata quattro anni fa e si arrivò così ad una sospensione di fatto del provvedimento, con un Regolamento che prorogava la validità delle lauree magistrali tradizionali per l’ammissione al TFA sino all’attivazione dei nuovi percorsi formativi.

Il governo sembra dunque deciso a passare all’attivazione di questi nuovi percorsi. La risposta di tutti coloro che hanno a cuore le sorti della nostra scuola non può che essere la stessa che accolse il DM del 2010 e puntare questa volta direttamente alla modifica e non semplicemente al congelamento della normativa. L’integrazione del “che cosa” (i contenuti propri delle singole discipline) e del “come” (le tecniche e il contesto dell’insegnamento nella scuola secondaria) non può essere garantita creando un «biennio specialistico» ad hoc dopo la laurea triennale. Non si tratta di verificare se gli obiettivi formativi della laurea di primo livello possano corrispondere adeguatamente, appunto sotto il profilo dei contenuti, ai livelli di apprendimento previsti per la scuola secondaria. Si tratta di difendere l’idea che una formazione disciplinare completa e al tempo stesso aperta di tutti i docenti è il fondamento irrinunciabile della “buona scuola”. La sfida della qualità si vince considerando anche un dottorato di ricerca in filosofia o in matematica un investimento potenzialmente al servizio dell’insegnamento e non preoccupandosi di garantire che si possa insegnare anche senza una laurea magistrale in queste discipline. A ciò non può non aggiungersi la consapevolezza che privare di questo sbocco alcune lauree magistrali significherebbe, in particolare in ambito umanistico, privarle di una delle loro principali prospettive di vocazione e di lavoro. In questi casi, la duplicazione potrebbe facilmente aprire la strada ad un radicale ridimensionamento di intere filiere della formazione. Si può volere questo esito (e molti lo vogliono). Non lo si può tuttavia perseguire alla chetichella e sotto mentite spoglie.

Il rifiuto del biennio specialistico a numero chiuso improntato alla didattica è dunque la premessa di ogni ulteriore approfondimento e dovranno essere trovate altre modalità per garantire questa esigenza specifica della formazione degli insegnanti. È lo stesso testo sulla “buona scuola”, d’altronde, a dimostrare quanto sia complicato e inutilmente costoso battere questa strada. Si parla infatti di bienni specialistici che «potranno funzionare anche per materie affini evitando di doverne istituire uno diverso corrispondente con rapporto 1:1 a ogni diverso tipo di laurea oggi esistente». Di quali affinità stiamo parlando? Quanto resterà del “che cosa” delle singole discipline dopo questa ulteriore diluizione? Non si spenderebbe meno e meglio restando all’interno delle attuali lauree magistrali e aprendo in esse nuovi spazi di flessibilità e interdisciplinarità? Il mondo della scuola e quello dell’università, insieme alle società scientifiche delle aree più direttamente  interessate a questo confronto, hanno il dovere di aiutare il governo a cercare le risposte giuste per queste domande.

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22 Commenti

  1. Quello che i geni del MIUR, prima ancora dei ministri, sembrano non conoscere(*) e’ la stessa normativa sui Corsi di Laurea.
    Infatti se due percorsi differiscono per almeno 30 CFU (e difficilmente una LM per l’ insegnamento potrebbe non farlo) non si puo’ piu’ tenere in piedi un unico corso di LM sia pure con curricula differenti.

    Peccato che una seconda LM per l’ insegnamento, a differenza di un curriculum, ha bisogno dello stesso numero di docenti strutturati di riferimento, obbligando a raddoppiare, pena il non accreditamento. Con la continua diminuzione dei docenti, in molte sedi e per molte discipline/settori concorsuali non sarebbe nemmeno possibile accendere una LM per l’ insegnamento. Ma queste sono minuzie che sfuggono agli strateghi della comuncazione del marchio Buona Scuola/Mulino Bianco.

    (*) A pensar male si potrebbe anche ipotizzare che qualcuno conosce molto bene questi risvolti tecnici…

  2. E’ verissimo che “la Buona Scuola”, sul tema indicato, si limita a proporre l’attuazione integrale del Decreto Gelmini n° 349, finora attuato solo per l’anno (TFA, Tirocinio Formativo Attivo) successivo alla Laurea Magistrale (LM), mentre è ivi prevista anche una caratterizzazione didattica della stessa LM. Anche a mio parere tale attuazione non è “Buona”, per motivi però ben diversi rispetto a quelli sostenuti nell’intervento di Semplici.
    Egli si oppone alla LM con indirizzo didattico, che verrebbe istituita con un numero programmato correlato al numero di prevedibili assunzioni nel sistema scolastico. Senza tale istituzione, il futuro insegnante secondario riceve nella sua formazione universitaria, come sta avvenendo ora, 5 anni mirati esclusivamente ai contenuti disciplinari, e uno solo relativo alla sua professione, destinato cioè alle altre competenze necessarie (incluse le stesse competenze nella didattica delle discipline). Una tale situazione di totale squilibrio non trova paragone in nessuna realtà internazionale, ed appare in conflitto con l’esigenza, da ogni parte manifestata, di avere docenti capaci di interagire efficacemente con i ragazzi di oggi, che sono in grado di reperire “informazioni” ovunque ma che dovrebbero trovare nella scuola soprattutto “maestri” che siano in grado di fornire loro una mentalità critica, di motivarli allo studio, di formarli come cittadini. Rispetto a questa esigenza, la debole presenza di un po’ di didattica nelle ipotizzate LM, ancora disciplinari ma orientate all’insegnamento, NON BASTA.
    Mentre il sistema tedesco, prestandosi ad altre obiezioni, separa fin dal momento dell’iscrizione all’Università i futuri insegnanti dagli altri studenti, interessati a un laurea disciplinare, appare del tutto ragionevole che la scelta tra fare, ad esempio, il fisico ovvero l’insegnante di fisica sia rinviata al momento successivo alla Laurea di primo livello. Ma, dopo tale scelta, il curricolo formativo deve essere totalmente “professionalizzante”.
    Poiché sembra impossibile che queste considerazioni di mero buon senso non siano condivise, il motivo di una posizione come quella di Semplici può essere spiegato solo dalla frase “privare di questo sbocco alcune lauree magistrali significherebbe privarle di una delle loro principali prospettive di vocazione e di lavoro”. Si vuole cioè avere tanti iscritti nelle LM “ordinarie”, a numero aperto, illudendoli con prospettive di lavoro inesistenti per la gran parte di loro. Ancora una volta, vi è chi vede l’offerta didattica universitaria in funzione non degli interessi degli studenti, ma del mantenimento di tradizionali Corsi di studio secondo i desideri dei docenti.

    • Sono quasi completamente d’accordo con Giunio Luzzatto. Vorrei però che il percorso “didattico” o “disciplinare” restasse aperto a chi ha completato l’altro percorso. Per tornare sull’esempio di Giunio, potrà ben esserci chi decide di fare il fisico e non l’insegnante di fisica, ma cambia idea dopo la laurea magistrale. Dovrebbe poter succedere che dopo aver conseguito la laurea di insegnamento in fisica, ci si senta più attratti per il mestiere di fisico, e si continui gli studi in quella direzione. Infine sarebbe bene che i docenti della laurea didattica e di quella disciplinare siano il più possibile coincidenti. Ricordo che la netta separazione dei due percorsi e dei due corpi docenti in Germania e in altri paesi del nord Europa ha prodotto per molti anni una scarsa partecipazione femminile nelle carriere scientifiche. In Italia e in Francia , invece, le ragazze che si accostavano agli studi di matematica con l’idea di fare le insegnanti, hanno potuto proseguire gli studi con la diversa sopravvenuta ambizione di fare il ricercatore.

    • Sembrerà anche impossibile, ma, sulla base di esperienza sul campo, non condivido le considerazioni del collega Luzzatto, di cui peraltro conosco l’impegno sull’argomento.

      Le discipline sono diverse e quello che può sembrare naturale per una può non esserlo per un’ altra. Io sono convinto che un’ ottima preparazione disciplinare sia condizione necessaria (e assolutamente non sufficiente) per formare un buon insegnante. Un insegnante che prima di tutto abbia gli strumenti culturali per porsi in autonomia di fronte a scelte diverse relative alla didattica della propria disciplina. Da fisico, e conoscendo molto bene le attuali Indicazioni Nazionali, mi sento di escludere che questo possa avvenire sulla base della preparazione di una laurea triennale e non perché i fisici non sanno disegnare una laurea triennale ma per le necessità di tempo difficilmente comprimibili necessari a dare una sufficiente cultura generale sulla disciplina. E penso che lo stesso valga per altre discipline. A meno di non voler creare una figura di insegnante privo di capacità critica, pura cinghia di trasmissione di contenuti scolastici standardizzati e più o meno autoreferenziali (potrei fare esempi di contenuti di “fisica per la scuola” di utilizzo esclusivo nelle aule scolastiche ed assolutamente ignoti al di fuori di queste).

      Il problema è poi estremamente evidente per quelle classi di insegnamento multidisciplinare (penso p.es. alla A059 della matematiche e scienze per la scuola superiore di primo grado) dove e’ assolutamente escluso che un attuale corso di laurea triennale possa dare sufficienti basi culturali per poter anche solo aver sotto controllo le diverse discipline.

      Le competenze più strettamente legate alla didattica della disciplina sono altrettanto importanti ma non si possono costruire sul poco-nulla e potrebbero tranquillamente trovar posto all’interno delle attuali LM, anche con spazio maggiore di quanto possibile negli attuali TFA, lasciando ad un anno oltre la LM tutto il tempo per aggiungere competenze specifiche di tipo pedagogico e l’insostituibile esperienza di tirocinio iniziale guidato. E se un anno fosse ritenuto insufficiente, che se ne facciano due (ma sempre con meccanismo a numero chiuso e con borse di studio, come per il dottorato).

      I confronti con altre realtà hanno sempre il fiato corto. Difficile confrontare il contesto motivazionale e strutturale tedesco con quello italiano. Giusto per fare un esempio terra-terra basta confrontare gli stipendi degli insegnanti in Germania con quelli in Italia. Trascurare questi “dettagli” può provocare disastri nella “riuscita” dei curricula.

      Infine osservo che al di là di convinzioni più o meno personali, il buon senso vorrebbe che si aspettasse ancora un po’ per vedere se e quanto l’esperienza TFA non possa essere utilizzata per mettere apunto una soluzione adeguata per le condizioni del nostro Paese.

      Certo, ci vorrebbe almeno la possibilità di vedere un anno “a regime” del sistema TFA, invece del triste spettacolo di approssimazione abborracciata, in grandissima parte dovuta al MIUR, cui assistiamo da tre anni a questa parte.

  3. Stefano Semplici ha buoni argomenti ma dimentica alcune cose. Innanzitutto che in molti paesi europei, e ci sarà un motivo, la formazione cosiddetta iniziale degli insegnanti ha luogo all’interno del percorso universitario e non successivamente. Bisogna trovare le formule (i cosiddetti “ponti”) che consentano di entrare ed uscire dal percorso universitario di formazione degli insegnanti, come giustamente ricorda Alessandro Figà Talamanca, ma l’avvio delle LM abilitanti è utile e opportuno.
    Ricordiamoci che una programmazione seria degli ingressi in questo tipo di LM – come avviene in molti paesi – dovrebbe evitare il fenomeno del precariato degli insegnanti, una delle piaghe della scuola italiana. La selezione già a 22 anni di chi decide di intraprendere con qualche garanzia una strada professionale nell’insegnamento genererebbe una selezione virtuosa con ricadute di lungo periodo estremamente positive sul sistema complessivo di formazione.
    Le LM abilitanti costringerebbero tuttavia a ripensare profondamente cosa si insegna all’università. Faccio un esempio che riguarda il mio settore, la storia. Ormai la ripartizione tradizionale tra Storia medievale, Storia moderna e Storia contemporanea non ha più corrispondenza nella ripartizione della storia insegnata nella scuola secondaria, che procede per altra periodizzazione. C’è inoltre una questione di contenuti: molti miei colleghi insegnano all’università pensando di avere di fronte futuri membri del College de France e non probabili insegnanti destinati a spiegare chi fosse Napoleone in un istituto professionale di periferia con il 75% di figli di immigrati e 3 studenti con DSA.
    Ciò che Semplici evidenzia e paventa, comprensibilmente, è che ad esempio in ambito umanistico, senza la prospettiva di insegnare a scuola a cosa servirà una LM non abilitante in antropologia, lettere classiche o archeologia (o storia, filosofia, italianistica ecc.)? Chi vi iscriverà ancora? Non per fare del benaltrismo però questo mi sembra un altro problema, e cioè l’impatto generale che la formazione universitaria ha sul sistema delle professioni.

  4. Sono un professore di Algebra. In questo momento sono impegnato pero’ a tempo pieno in una commissione di ammissione al TFA 2014. Al termine di una durissima giornata di correzione di prove scritte, mi sento di condividere la scelta tipografica di Giunio Luzzatto, ma in senso diametralmente opposto: nella formazione di un insegnante di matematica, la laurea triennale NON BASTA a fornire i contenuti disciplinari. Temo in realta’ che in certi casi non basti nemmeno la laurea magistrale. Penso che proprio perche’ i futuri insegnati non saranno membri del College de France, ma si troveranno a spiegare chi fosse Napoleone in un istituto professionale di periferia, o (per restare piu’ vicino alle mie competenze) a spiegare il massimo comune divisore di due interi in una scuola media, sarebbe opportuno che avessero, delle idee che spiegano, una conoscenza con un po’ di spessore.
    Mi viene in mente che forse sarebbe utile offrire, accanto alla laurea magistrale, un percorso abilitante di eccellenza a numero chiuso. L’enunciato di Zannini, che dichiara virtuosa una scelta e una selezione definitiva a 22 anni, non mi sembra sufficientemente dimostrato. Vista la attuale scarsita’ di sbocchi nell’universita’, a me sembra piu’ virtuosa l’idea di una leva di insegnanti che mantengano per quanto possibile i contatti con il mondo dell’universita’. Per i matematici non e’ un’idea nuova: era molto in voga circa un secolo fa. Se gli allievi migliori della laurea magistrale venissero selezionati a richiesta per un percorso abilitante parallelo alla loro LM, magari addirittura con vantaggi di tipo economico (non dico una borsa, magari una riduzione delle tasse) e con un percorso aggiuntivo di solida preparazione all’attivita’ didattica, penso che avremmo insegnanti migliori e piu’ motivati.

    • La proposta di Carlo Scoppola mi sembra troppo complicata da attuare. Basterebbe però prevedere alcune borse di studio per la frequenza della laurea magistrale abilitante per attrarre alla professione di insegnante i migliori laureati della laurea disciplinare, magari anche dotati di dottorato di ricerca. Basterebbero pochi studenti brillanti e preparati a migliorare decisamente il livello della istruzione offerta per la laurea abilitante.

  5. Lo spessore e la varietà di questi commenti confermano la necessità di portare “in pubblico” la discussione su questo tema. E non consentono di concludere per l’esistenza di “considerazioni di mero buon senso” necessariamente condivise da tutti, con la sola eccezione di coloro che coltivano i propri interessi anziché preoccuparsi degli studenti. La qualità e la moralità delle persone sono sempre incerte, perché il legno dell’umanità è storto, come diceva un filosofo che ho molto amato. Questo argomento viene però utilizzato troppo spesso per dare forza ai propri argomenti, perfino quando nulla si conosce degli interlocutori. Mi pare inutile e triste. E aggiungo – a scanso di equivoci – che condivido pienamente l’osservazione del prof. Luzzatto sulla necessità di non illudere i nostri giovani. Non siamo d’accordo (forse) sulla “missione” dell’università. Ma su questo possiamo continuare a confrontarci. Magari per scoprire che siamo più vicini di quel che sembra. Grazie.

  6. E’ davvero bene che si apra una discussion pubblica sulla formazione degli insegnanti, grazie a tutti. Vista la vaghezza delle proposte governative, la partita è delle più delicate, e penso che, per una volta, le comunità scientifiche dei docenti “disciplinari” dovrebbero prestarvi la massima attenzione e impegno.
    Il principio delle lauree magistrali abilitanti all’insegnamento a numero chiuso può essere valido se gli ingressi sono programmati in funzione del reale fabbisogno di nuovi ingressi in ruolo. E’ questo il meccanismo che ha inizialmente permesso ai corsi di Scienza della formazione primaria di selezionare studenti motivati e preparati. Ciò permetterebbe anche, come sottolinea Zannini, di risolvere la piaga del precariato. C’è da dire, tuttavia, che questo meccanismo virtuoso è estremamente delicato, ed è facilmente compromesso da sanatorie, percorsi agevolati, blocco delle assunzioni etc etc (come puntualmente è avvenuto per la primaria). Ha il governo (l’attuale o qualunque altro) la volontà/la forza di garantire rigore e stabilità su questo?
    Quanto al biennio di preparazione all’insegnamento: benissimo, ma esattamente di cosa si tratta? Di 4 CFU di “didattica di”, corsi di pedagogia e di psicologia, e magari qualche ora di inglese e di uso delle risorse digitali (in sé molto utili)? Oppure 4 CFU di un po’ di tutto?
    Se partiamo dal presupposto che uno dei problemi della scuola italiana (e non solo, sebbene in Italia sia più acuto a causa dell’erosione tanto più rapida del profilo e del ruolo sociale dell’insegnante, a partire dagli stipendi, come ricorda Pastore) è la mancanza di autorevolezza, non credo che la soluzione sia la riduzione della formazione disciplinare al solo triennio.
    Ciò non vuol dire che non si possa immaginare un tipo di formazione che, mentre approfondisce i contenuti disciplinari, introduca gli studenti al loro futuro ruolo di docenti. Significa, solo per fare qualche esempio, ridurre il peso delle lezioni ex cathedra e favorire il lavoro seminariale e di (vero) laboratorio, preferire prove in itinere di vario tipo all’esame finale orale, tagliare i percorsi universitari in modo che corrispondano ai raggruppamenti disciplinari delle cattedre e favorire insegnamenti trasversali e transperiodo che mettano in grado i futuri docenti di affrontare con competenza le materie che dovranno insegnare.
    Sono d’accordo con Zannini, il punto è che dobbiamo anche essere pronti a rivedere l’insegnamento che l’università impartisce.

  7. I massimi sforzi dovrebbero essere riservati alla competenza nelle materie di insegnamento, per le quali tre anni non bastino affatto. Si potrebbe pensare a un sesto anno, dopo la magistrale, con attività di tirocinio effettivo, a numero chiuso ma non troppo rigido sia perché alcuni potrebbero decidere di non essere tagliati per l’insegnamento sia perché è bene a avere un po’ di surplus. Personalmente ritengo che questo governo, come i precedenti, non abbia lo spessore culturale ed etico per impostare un percorso serio e che si rifugi perciò in proclami psicopedadigitali totalmente inconsistenti.

  8. Condivido la tesi dell’articolo. Non è mai stata una buona idea quella di rendere organicamente interna all’università la formazione degli insegnanti fin da subito. Non ho ancora visto un’argomentazione davvero convincente che giustifichi questa decisione.
    Intanto c’è da dire che, con una simile scelta, si viene a creare una coorte di laureati con unico sbocco lavorativo, prefissato. Laureati quindi con un profilo povero. Non un laureato istruito e competente che, in quanto tale, potrà impiegare il suo sapere in svariate direzioni, ma un laureato di rango minore, legato ad un unico possibile mestiere. Peraltro, m’è sempre apparso debolissimo lo status scientifico dei saperi che dovrebbero venire acquisiti in questo biennio magistrale specifico per insegnanti: elementi spiccioli di teoria pedagogica? Di psicologia? Di burocrazia scolastica? Di esegesi delle ultime circolari o direttive ministeriali? Di pseudoscienze basate sul nulla (“docimologia”, etc.). Di slogan didattici alla moda (didattica modulare, collaborativa, per competenze, etc.)? Un po’ poco, un curricolo di studi culturalmente evanescente. Di fatto si ingabbia il futuro insegnante in un circuito accademico chiaramente di rango minore, col risultato di selezionare precocemente per l’insegnamento i giovani meno curiosi intellettualmente. Sul serio si ritiene che questa (perché è questo che da Berlinguer in avanti ci è stato spacciato) sia la base imprescindibile per la formazione di un buon insegnante?

    Inoltre, cosa ancora più grave, si taglieranno in pratica fuori dall’insegnamento tutte le “vocazione tardive”, che spesso sono proprio gli insegnanti migliori: persone che per qualche anno hanno magari lavorato in azienda, o che hanno avuto borse di studio, che magari hanno fatto ricerca, o che hanno lavorato da giornalisti, da traduttori, da informatici, da insegneri, etc. Questi soggetti, in molti casi, maturano grazie a tali esperienze una conoscenza autentica e significativa della propria disciplina, ben al di là dell’illusorio tecnicismo didattico propinato nei corsi per insegnanti.

    Con la scelta di anticipare già al termine della triennale la biforcazione tra insegnamento e tutto il resto, rischiamo di confinare il mestiere di insegnante a una cerchia di specialisti cresciuti sotto vetro, che non hanno maturato esperienze sufficientemente autentiche e profonde per cogliere e saper trasmettere il senso del proprio sapere. Molti degli insegnanti più scadenti che ho incontrato provenivano proprio dai corsi a indirizzo didattico. E’ un dato di fatto, mi limito a constatarlo. E molti dei migliori, invece, erano persone che dopo la laurea avevano avuto esperienze di vario genere, magari avevano “fallito” in una strada scelta in precedenza, oppure avevano dovuto adattarsi ad una mutata situazione e cambiare i loro piani ed erano diventati insegnanti.

    Si parla spesso con scherno dell’insegnante “di ripiego”, invece ho trovato proprio tra costoro molti dei migliori insegnanti che ho avuto modo di conoscere, spesso molto più empatici di molti esangui propinatori di cliché didattici alla moda, supportati da una conoscenza non sufficientemente significativa ed autentica di ciò che andavano ad insegnare, una sorta di sapere “plastificato”, schematico, e quindi finivano per suonare “metallici” e giravano a vuoto.

    E’ importante, specie con la prospettiva di una vita lavorativa che arriverà a lambire i 50 anni, non generare inutilmente processi irreversibili, non più di quanto sia strettamente necessario. Si può diventare ottimi insegnanti anche a 50 anni, senza dover tornare tra i banchi dell’università.

    Quello che propongo io è un processo inverso rispetto a quello che si è andato costruendo in Italia, dalla SSIS in avanti. Propongo di invertire l’ordine degli eventi: prima la cattedra, poi l’abilitazione. Ossia: concorsi a cattedra aperti a tutti i laureati della disciplina. Vinca il migliore.

    I vincitori di concorso sono però assunti in prova, con orario e stipendio ridotto per due anni. Per superare il periodo di prova e avere la stabilizzazione devono abilitarsi. L’abilitazione si consegue con un biennio “alla francese”: valutazione del servizio di prova, frequenza di alcuni corsi didattici o di legislazione scolastica presso università o strutture ad hoc, scambio esperienziale e laboratorio didattico con i colleghi tirocinanti e con insegnanti esperti. E c’è anche una serie di esami di legislazione scolastica da superare. Solo nel caso di esito positivo del biennio abilitante, si consegue l’abilitazione e si viene confermati ed assunti a tempo pieno.

    Un sistema del genere avrebbe anche il pregio di eliminare pressoché alla radice il precariato: nel senso che potrebbe abilitarsi solo chi ha già ottenuto un posto di ruolo, senza creare una platea imprecisata di aspiranti al posto fisso.

    • Non ho risposto ad altri commenti, anche direttamente riferiti al mio contributo, perché non apprezzo i “Botta e risposta”. L’intervento di Francini mi induce però a intervenire, perché su una parte ho una forte critica, su un’altra un consenso (parziale). Critico infatti la pesante ironia su alcune discipline (evidentemente diverse da quella in cui opera l’autore: ma non è un motivo sufficiente per disprezzare le altre). In particolare, è inaccettabile definire “pseudoscienza basata sul nulla” la docimologia (che, per chiarire, non è la disciplina mia!). Condivido invece l’attenzione a consentire “rientri” nel percorso che conduce all’insegnamento per chi non lo ha scelto in partenza (v., sopra, l’intervento di Alessandro Figà Talamanca). Condivido altresì, nella parte finale dell’intervento, la proposta di evitare “abilitati in attesa” e precariato reclutando direttamente per i posti esistenti, e prevedendo che il completamento della formazione alla professione si svolga successivamente: è il “concorso-corso” per il quale mi permetto di rinviare al mio contributo
      http://www.learning4.it/2014/10/17/come-reclutare-per-linsegnamento-i-migliori-futuri-laureati-previa-una-conclusione-corretta-per-il-passato/ .
      Vi è un dissenso sul titolo di accesso, che per Francini deve essere la Laurea Magistrale, per me la Laurea: ritengo infatti improponibili 7 anni di studi universitari o post-universitari per divenire insegnanti (non è così in nessun Paese), e ritengo altresì che questa scelta si riconduce alla posizione, diffusa nel mondo accademico, che considera insignificante la formazione che diamo nella Laurea (miglioriamola, quando occorre!).

  9. Ecco un’idea veramente ottima: sarebbe da proporre a chi di dovere. Il problema è trovare gli interlocutori e doversi confrontare con il fatto, tragico e reale, che al Ministero sono sempre meno interessati a una scuola solida: forse sono troppo impegnati a vendere libri corredati di cd e a propagandare le “competenze”.

  10. prendiamo un precario, con 10 anni di esperienza tra dottorato, assegni di ricerca e diciamo 10 contratti di insegnamento.

    mettiamo che questi abbia 40 o 50 pubblicazioni internazionali su riviste scientifiche (se il suo campo è la scienza)

    mettiamo che abbia 2 o 3 libri (se il suo campo è giuridico o umanistico)

    mettiamo che gli è andata male la carriere universitaria e deve mollare:

    la mia domanda è :

    conta il suo curriculum per il concorso per la scuola?

    risposta: no!!!!!!!!
    tanto curriculum, diverse opere monografiche, tanti articoli in riv. internazionali, praticamente un curriculum equivalente a quello di un prof. associato, non vale nulla, solo pochissimi punti, cica 10 su 60.

    Quel poveretto deve rifare tutte le PROVE SCRITTE E ORALI come se fosse un neo-laureato!
    vi sembra GIUSTO per un precario che si è fatto il mazzo?
    vi sembra CONVENIENTE per uno Stato che si priva di persone brave?

    siete d’accordo,
    grazie,
    anto

  11. Assolutamente d’accordo. Quando feci il concorso mi accorsi con stupore che non contavano molto i titoli (dottorato, articoli, monografia), ma che sarebbe stato assai più importante essere coniugati e aver prodotto un buon numero di figlioli (anche una piccola invalidità non avrebbe guastato …).

  12. Mi sembra che si continui a non distinguere tra conoscenze disciplinari specifiche – quelle ad esempio che si sviluppano e rinforzano in un dottorato o in una carriera universitaria – e l’insieme complesso delle abilità che fanno oggigiorno di un insegnante un buon insegnante. 50 anni fa bastava andare in classe, aprire il manuale e ripetere con maggiore o minore competenza un syllabus pressoché invariato di nozioni. Magari mettendoci un grado personale di passione e conoscenza, ma la capacità di insegnare si risolveva sostanzialmente in questo.
    La scuola di oggi non funziona così. Sono cambiati i modelli di produzione e diffusione del sapere, è mutata l’autorità e l’autorevolezza dell’insegnante, ci sono nuovi problemi con cui confrontarsi e una serie lunga di abilità da sviluppare e di tecniche da apprendere.
    Chi dice questo non è né un pedagogista né uno psicologo, figure queste che in una certa vulgata polemica sarebbero chissà perché responsabili del fallimento della scuola. Ma uno specialista di una materia universitaria che si è reso conto che, nel suo campo, un conto è la Storia, e tutta un’altra cosa è la Didattica della storia. E per fare un buon insegnante di Storia non serve “solo” conoscere la materia (e per questo bisogna cambiare il modo di insegnarla all’università) ma anche sapere come insegnarla ai ragazzi di 14-15 anni di oggi. Il vecchio principio “rem tene verba sequentur” non basta più.
    A me sembra più che giusto che uno studioso che ha 50 pubblicazioni e 3 libri, una volta svanita la strada della ricerca, debba passare i medesimi concorsi di un neolaureato per essere abilitato all’insegnamento. Dovrà andare ad insegnare in tutte le condizioni affrontando problemi relazionali, psicologici e sociali che non hanno nulla a che fare, molto probabilmente, con i 50 articoli scientifici che ha scritto.
    Quanto agli studiosi che si riciclano nell’insegnamento, è vero: molti sono ottimi insegnanti. Appassionati e sapienti. Ma non facciamone una categoria astratta: ce ne sono molti anche frustrati, costretti ad ripiego per sbarcare il lunario.

  13. Andrea Zannini:

    essendo stato il precario dell’esempio da me illustrato (e nel quale mi riconosco) titolare di una decina contratti di insegnamento, relatore in svariate sedute di laurea, e interlocutore di moltissimi studenti sia in sede di esami (di insegnamenti propri o altrui) sia in sede di tesi (relativi a insegnamenti propri a altrui), mi sembra che a livello relazionale non ci siano problemi.

    il precario dell’esempio riportato (con tante pubblicazioni e contr. di insegnamento) deve fare un corso di pedagogia? bene lo faccia, però il precario di cui sopra sa come si sta al mondo, parla bene diverse lingue, sa stare e parlare al pubblico (migliaia di ore di lezione), sa capire il prossimo, sa dare agli studenti (o alunni) le tecniche di apprendimento, li sa ascoltare, sa capire i problemi (anche perché da precario………)

    e sa dare un valore aggiunto…………………..

    non è saggio escluderlo a priori e fargli fare tutte le prove scritte ed orali, graduatorie ecc..

    così si sprecano i talenti, non è saggio, mi creda…….

    mi creda, non è così che gira il mondo (perlomeno fuori dall’Italia, dove siamo bravissimi a svendere ed a far fuggire i talenti)………

    più uno fa, più è tutto inutile

    • anto: mi sembra che questa discussione sul precario cui e’ andata male la carriera universitaria e decide di passare all’ insegnamento nella scuola metta in evidenza alcune problematiche che periodicamente emergono ma che spesso vengono affrontate in modo superficiale da diversi punti di vista.

      Sull’ utilita’ delle competenze del precario dell’ esempio per la societa’ in generale, e anche per la Scuola, non c’e dubbio. Ma il primo problema dovrebbe essere quello di far passare il messaggio, a tutti i livelli nella societa’ , che una persona di questo tipo ha accumulato un bagaglio di competenze specifiche e trasversali che sarebbe criminale disperdere.

      Tuttavia vedo estremamente pericoloso pensare che su un settore delicato come l’ insegnamento, queste competenze siano automaticamente riutilizzabili nella forma in cui si sono affinate in 10 anni di esperienza. Ho incontrato persone di questo tipo, estremamente competenti dal punto di vista specialistico, ma anche con un livello imbarazzante sulla cultura generale della loro disciplina. Cosa questa abbastanza grave per chi vada ad insegnare nella Scuola.

      Percio’, mentre dottorati, ricerche ed esperienze possono essere valutati per ridurre alcuni carichi didattici in un periodo di formazione come insegnanti, non vedo motivi razionali di esenzione automatica per quelle prove di selezione in ingresso che vadano a verificare la non obsolescenza di una formazione generale sulla disciplina. E’ una condizione irrinunciabile per poter organizzare seriamente la didattica disciplinare nel periodo di formazione del futuro insegnante.

  14. Giorgio Pastore:

    Lei scrive

    “discussione sul precario cui e’ andata male la carriera universitaria”

    guardi che questo vale per tutti i precari, dalle statistiche risulta che il 99% fallisce e ce la fa soltanto 1 su 100.

    Capisce che io voglio salvare il salvabile?
    Capisce che un curriculum grande fatto di 1000 pubblicazioni, accumulate in 10 anni, attualmente è inutile in tutte le Pubbliche Amministrazioni (Italiane, perché all’estero nella Pubbliche Amministrazioni entrano solo persone titolate e soprattutto SENZA PROVE SCRITTE ED ORALI, IN ITALIA SIAMO gli UNICI).

    ormai tutti i quotidiani lo riportano, con la media di una volta al mese:

    “Ricercatori precari a vita solo uno su cento ce la fa”

    http://www.lastampa.it/2014/11/03/italia/cronache/ricercatori-precari-a-vita-solo-uno-su-cento-ce-la-fa-5z6HooJ9vkpZNe9Btt1n0I/pagina.html

    Mi capisce adesso?

  15. Gentilissimo Zannini, se il Ministero assegna per legge la cattedra disponibile a quello che ha fatto più figli o non muove bene il braccio, non ha effettuato scelte basate su particolari abilità scientifiche o didattiche.

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