Pubblichiamo la seconda ed ultima parte della riflessione su Istruzione, Competenze e lezione di J. Dewey. Qui il contributo precedente.


In Experience and Education, del 1938, il filosofo americano avrebbe infine sottolineato la valenza non sempre educativa dell’esperienza, mettendo così «fuori gioco le degenerazioni attivistiche»[1], e qualificato come diseducativa quella «che ha l’aspetto di arrestare o fuorviare lo svolgimento dell’esperienza ulteriore»[2]. Una «data esperienza può aumentare l’abilità automatica di una persona in una particolare direzione e tuttavia tendere a restringere la sua libertà di mosse: l’effetto è di nuovo di limitare il campo della futura esperienza»[3].

Se è fin troppo evidente in gran parte degli scritti giovanili la fiducia quasi prometeica che Dewey ripone nella capacità umana di soggiogare e plasmare la natura, fiducia che risente evidentemente dello spirito americano della frontiera («la fecondità della pedagogia di Dewey – è stato osservato – realizza l’impulso irresistibile dei pionieri verso l’avvenire, verso un’aspirazione costante a costruire e a ricostruire»[4]), a partire da Democracy and Education emerge dunque una certa preoccupazione per il ‘gigantismo’ e per il crescente potere di condizionamento sociale dell’apparato industriale statunitense.

Ma ciò che è ancora più notevole nei documenti redatti dalle istituzioni dell’Unione europea è la perentorietà con cui viene negata validità attuale al dibattito scientifico intorno ai sistemi e alle metodologie d’insegnamento: «i compiti dei sistemi d’istruzione e di formazione – leggiamo nel ricordato Insegnare e apprendere. Verso la società conoscitiva -, la loro organizzazione, il contenuto degli insegnamenti, perfino la pedagogia sono stati oggetto di dibattiti spesso appassionati. La maggior parte di tali dibattiti appare oggi superata [il corsivo è nostro]»[5].

Com’è noto, il dibattito e il confronto critico sulla pedagogia di Dewey conoscono una stagione molto ricca negli anni Sessanta, quando Jerome Bruner, nel suo The Process of Education del 1960, consapevole della sfida scientifica e tecnologica lanciata dall’URSS agli Stati Uniti (nell’ottobre del 1957 l’Unione Sovietica aveva lanciato con successo lo Sputnik 1, il primo satellite artificiale della storia, inaugurando l’era dell’esplorazione spaziale), espresse la convinzione che il sistema d’istruzione statunitense dovesse rimettere al centro dell’attenzione, accanto alle questioni metodologiche, quelle relative ai contenuti e ai programmi, e che per far ciò dovesse riaffermare l’importanza di sviluppare negli alunni fin dai primi anni di scuola le capacità di astrazione e generalizzazione. Occorreva, osservava lo psicologo americano, «che il programma di ogni disciplina sia finalizzato alla comprensione la più approfondita possibile dei principi che costituiscono la struttura della disciplina stessa»[6]; comprensione, quindi (cosa diversa dall’«apprendere […] un’abilità specifica»[7]), di «un’idea generale, che possa essere usata poi come base per riconoscere i problemi che si presentano in seguito come casi particolari di quell’idea che si è appreso da principio a padroneggiare. Questo tipo di transfert è al centro del processo educativo concepito come processo di continuo ampliamento ed approfondimento della conoscenza, sulla base di idee fondamentali e generali»[8]. A titolo esemplificativo, Bruner aggiungeva come l’algebra fosse «un mezzo per organizzare, nel tutto di un’equazione, termini noti ed ignoti, in modo da rendere conoscibili i termini ignoti. Le leggi fondamentali implicite alla risoluzione di queste equazioni sono quelle di commutazione, distribuzione ed associazione. Una volta che uno studente si sia impadronito del significato di queste tre leggi, è in grado di comprendere che “nuove equazioni” da risolvere non sono punto nuove, ma varianti di schemi già noti»[9].

Presso i nostri lidi, nella collana I problemi della pedagogia, curata da Luigi Volpicelli per la casa editrice Avio, veniva pubblicata, nei primi anni Cinquanta, La pedagogia di John Dewey del pedagogista Sergej Hessen, che, pur non sottacendo l’indubbia originalità del sistema filosofico e pedagogico di Dewey, si incaricava di segnalarne i limiti[10]. Tra questi lo studioso russo indicava la, a suo avviso, diffidenza di Dewey nei confronti dell’attività contemplativa. Il cuore della pedagogia di quest’ultimo, infatti, sarebbe da identificare nella convinzione che il sapere non sia «altro che l’azione trasformatrice della realtà»[11]. Per il pedagogista statunitense, «movimento e tranquillità, attività e contemplazione, negazione ed affermazione, restano fondamentalmente inconciliabili»[12].

Dubbi e distinguo circa l’attivismo pedagogico sarebbero poi stati sollevati nel secondo dopoguerra anche all’interno della cultura marxista italiana. In occasione, ad esempio, del convegno su Struttura, contenuti e metodi della scuola obbligatoria, promosso a Roma nel gennaio del 1962 dall’Istituto Gramsci («un serrato confronto fra marxisti e attivisti proprio sul rapporto fra contenuti e metodi»[13], ha scritto Carmela Covato), Dina Bertoni Jovine, pur rifiutando schematiche contrapposizioni tra contenuto e metodo, avvertiva come «al pericolo di un nozionismo passivo [fosse] subentrato […], se non nell’ambito più generale della vita scolastica, ancora troppo profondamente invischiata negli antichi difetti, almeno nel campo degli studi e delle ricerche pedagogiche, il pericolo di un metodismo e di un didattismo fine a se stesso, cioè astratto»[14]. «Come [era] possibile – si chiedeva in quello stesso appuntamento Lucio Lombardo Radice – che la ideologia del serio attivismo laico, sia pure distorta o deformata, sia utilizzata dai dogmatici, dagli acritici, da coloro che non si propongono in alcun modo di formare personalità libere, se non vi è qualche punto non chiaro nell’attivismo laico, qualche principio didattico che può essere deformato, e degradato a strumento di un diverso ideale educativo?»[15].

Tra questi ‘principi’ didattici, oggetto di discussioni e confronti incandescenti, è possibile certamente annoverare oggi le cosiddette competenze, la cui filiazione dalla pedagogia deweyana è stata in anni recenti ribadita da Luciano Benadusi. Questi ha osservato come una credenza diffusa vuole che il concetto di competenze, sorto all’esterno del settore dell’educazione, lo abbia poi colonizzato in virtù della capacità egemonica del «paradigma regolativo di stampo neoliberista» [16]. Se è innegabile il condizionamento esercitato dalle formulazioni delle competenze nell’ambito delle scienze del lavoro e della gestione delle risorse umane sulla formazione professionale e sul sistema dell’istruzione, purtuttavia per Benadusi in quest’ultimo campo «il concetto di competenza, sebbene denominato in altri termini», ha «da tempo piantato le sue radici evocando un’idea alternativa di scuola e di educazione»[17], un’idea che avrebbe per l’appunto tra i massimi precursori Dewey e la sua pedagogia pragmatista[18].

Anche la filosofa Angélique del Rey ha rilevato assonanze tra la pedagogia deweyana e la tematica delle competenze. L’origine di queste nelle scienze dell’educazione andrebbe fatta risalire alla concezione del Competency Based Education and Training (CBET), diffusasi nei primi anni Settanta negli Stati Uniti[19]. Tale indirizzo, che avrebbe trovato una delle prime organiche formulazioni nel lavoro collettaneo Competency-based Education. An Introduction, curato da Richard W. Burns e Joe Lars Klingstedt[20], si fonda sulla sollecitazione delle capacità adattive dell’alunno all’ambiente circostante. La nozione di adattamento così intesa, nota del Rey, è certamente debitrice dell’insegnamento deweyano, che invece veniva travisato dal CBET quando sottaceva della convinzione del pensatore americano che l’ambiente abitato dal docente e dal discente non fosse un prius, esterno al rapporto educativo, ma fosse invece co-costruito da entrambi e che quindi quell’adattamento non fosse unidirezionale ma reciproco[21].

Da queste brevi e certamente rapsodiche note si può evincere come il richiamo alla lezione di Dewey a sostegno delle proposte volte a favorire una maggiore aderenza della scuola alle esigenze produttive e ad enfatizzare le competenze nell’universo dell’istruzione non sia pretestuoso purché tali proposte non siano giustificate ricorrendo a una lettura ultrasemplificata del pensiero di Dewey che, nel corso dei decenni, conobbe una sensibile evoluzione, e ignorando al contempo le critiche indirizzate a tale pensiero, critiche, tra l’altro, che a partire dalla metà degli anni Novanta hanno raggiunto accenti di particolare durezza.

Eric Donald Hirsch Jr., educatore e critico letterario statunitense, fin dal suo The Schools We Need and Why We Don’t Have Them[22], del 1996, ha difatti lanciato un bruciante j’accuse nei confronti della pedagogia ‘progressista’ e, nel decennio successivo e soprattutto in The Making of Americans: Democracy and Our Schools[23], in modo particolare di quella di Dewey e del suo approccio ‘anticurricolare’.

L’analisi di Hirsch è stata fatta propria da Giulio Ferroni, che si è dichiarato convinto che il ‘formalismo’ che aveva puntato «sui metodi contro i contenuti, sulle abilità contro le nozioni»[24] abbia fallito proprio nell’acquisizione delle capacità metodologiche per poi aggiungere sconsolato che tali critiche «verso un’ortodossia pedagogica che domina, quasi incontrastata, in tutti i paesi avanzati non inquietano comunque granché l’orizzonte disciplinare, accademico e istituzionale della pedagogia, che sembra spesso sfuggire alla “prova della realtà”»[25].

Tali annotazioni, risalenti al 1997, possono, di tutta evidenza, a loro volta sollevare riserve e perplessità ma smentiscono quella conclusione del dibattito in materia di senso e finalità dell’istruzione, quella sorta di finis historiae, preconizzato o auspicato dall’Unione europea un quarto di secolo fa o poco più.

 

[1] R. Mazzetti, Oltre Dewey. Il processo educativo in una società industriale, Roma, Armando, 1965, p. 21.

[2] J. Dewey, Esperienza e educazione, Firenze: La Nuova Italia, 1968, p. 10.

[3] Ibidem.

[4] V. Capelli Caserta, Dopo Dewey. Le strutture concettuali nella pedagogia di Bruner e la psicologia del linguaggio, Roma, Aracne, 2009, p. 28.

[5] Libro bianco su Istruzione e Formazione – Insegnare e apprendere, cit., p. 25.

[6] J. Bruner, Il processo educativo. Dopo Dewey, Roma, Armando, 2016 (I ed. 1964), p. 54

[7] Ivi, pp. 41-42.

[8] Ibidem.

[9] Ivi, p. 31.

[10] Sull’accoglienza del pensiero di Dewey in Italia nella prima metà del Novecento, ancora utile è la lettura di F. Cafaro, John Dewey e la critica italiana, in «Rivista Critica di Storia della Filosofia», 4, 1951, pp. 427-441.

[11] S. Hessen, La pedagogia di John Dewey (titolo or. Die Pädagogik John Dewey), Roma, Avio, 1953, p. 34.

[12] Ivi, p. 39.

[13] C. Covato, Democrazia ed educazione. Il confronto fra marxisti e attivisti negli anni Sessanta, in John Dewey e la pedagogia democratica del ’900, a cura di M. Fiorucci e G. Lopez, Roma, Roma TrE-Press, 2017 (consultabile anche in https://romatrepress.uniroma3.it/wp-content/uploads/2020/02/John-Dewey-e-la-pedagogia-democratica-del-%E2%80%98900.pdf), p. 104.

[14] D. Bertoni Jovine, Cultura ed educazione vanno considerati come fatto storico, in «Riforma della scuola», 6-7, 1962, ora in C. Covato, op. cit., p. 105.

[15] L. Lombardo Radice, Distinguere l’attivismo serio da quello tra virgolette, in «Riforma della scuola», 6-7, 1962, ora in C. Covato, op. cit., p. 105.

[16] L. Benadusi, Le competenze nei sistemi educativi e formativi, in Fondazione Agnelli, Le competenze. Una mappa per orientarsi, a cura di Luciano Benadusi e Stefano Molina, Bologna, il Mulino, 2018, p. 85.

[17] Ibidem.

[18] Ivi, pp. 85-88.

[19] Competency Based Education and Training, a cura di John W. Burke, London, New York, Philadelphia, The Falmer Press, 1989, p. 12.

[20] Englewood Cliffs, Educational Technology Publications, 1973.

[21] A. del Rey, Le succès mondial des compétences dans l’éducation: histoire d’un détournement, in «Rue Descartes», 1, 2012, pp. 12-13.

[22] New York, Doubleday, 1996.

[23] New Haven, Yale University Press, 2010.

[24] G. Ferroni, La scuola sospesa. Istruzione, cultura e illusioni della riforma, Torino, Einaudi, 1997, p. 90.

[25] Ivi, p. 91.

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