Frequente è il richiamo alla lezione di John Dewey a sostegno delle proposte volte a favorire una maggiore aderenza della scuola alle esigenze produttive e a enfatizzare le competenze nell’universo dell’istruzione. Tale richiamo non è pretestuoso purché respinga una lettura ultrasemplificata del pensiero del pedagogista statunitense che, nel corso dei decenni, ha conosciuto una sensibile evoluzione, e al contempo non ignori le critiche ad esso indirizzate, critiche che, a partire dalla metà degli anni Novanta, hanno raggiunto accenti di particolare durezza.
Nel documento del novembre 1995 della Commissione delle comunità europee, Insegnare e apprendere. Verso la società conoscitiva, si legge che «in alcuni casi il metodo deduttivo può essere paralizzante ed uccidere l’immaginazione. Presentando le cose come totalmente costruite, fa dell’allievo un soggetto passivo e frena la tendenza alla sperimentazione. L’osservazione, il buon senso, la curiosità, l’interesse per il mondo fisico e sociale che ci circonda, la volontà di sperimentazione sono qualità trascurate e poco considerate. Eppure sono queste che consentiranno di formare i creatori e non soltanto gli amministratori della tecnologia»[1]. Si puntualizza poi come sia la combinazione tra conoscenze fondamentali, tecniche e attitudini sociali «acquisite in seno al sistema dell’istruzione formale, alla famiglia, all’impresa e tramite varie reti d’informazione» ad offrire «all’individuo la conoscenza generale e trasferibile più propizia all’occupazione»[2] e che «senza limitare le finalità dell’istruzione verso l’occupazione la scuola deve tener conto di elementi quali la comprensione del mondo del lavoro, la conoscenza delle imprese e la percezione dei cambiamenti che influenzano le attività del di produzione»[3]. La Raccomandazione del Parlamento europeo e del Consiglio dell’Unione europea del dicembre 2006 relativa alle «competenze chiave per l’apprendimento permanente» recita che la competenza «imparare a imparare» permette ai discenti di prendere «le mosse da quanto hanno appreso in precedenza e dalle loro esperienze di vita per usare e applicare conoscenze e abilità in tutta una serie di contesti: a casa, sul lavoro, nell’istruzione e nella formazione»[4].
Nel suo L’alternanza scuola-lavoro: paradigmi pedagogici e modelli didattici, del 2016, l’allora vicedirettore dell’Area Innovazione e Education di Confindustria, Claudio Gentili, osservava come John Dewey già all’inizio del Novecento avesse compreso che «una società complessa in cui la scuola è diventata il regno dell’astrazione contrapposta alla concretezza della realtà»[5] non potesse che incrementare le disuguaglianze sociali. Per scongiurare tale esito il pedagogista statunitense opponeva «una rivoluzionaria concezione dell’istruzione scolastica come educazione alla vita: laboratorio continuo di esperienza e scoperta. Rimettendo in relazione la scuola e la vita», poneva difatti «le basi per il superamento della contrapposizione tra studi disinteressati e speculativi, e formazione professionale»[6]. Alcuni anni prima, Gentili aveva affermato «la necessità di ripensare i paradigmi e i principali modelli della formazione scolastica ed extrascolastica adattandoli alle nuove necessità»[7] produttive.
Se affinità con il discorso pedagogico di Dewey sono rintracciabili nei documenti citati, è anche vero che questi tacciono sui rischi, pur segnalati dallo studioso americano, di un eccessivo condizionamento delle esigenze del mercato del lavoro e della domanda di determinati profili professionali nella definizione delle politiche dell’istruzione.
Già nel suo My pedagogic creed, del 1897, Dewey gettava le fondamenta della didattica attiva ed esperienziale: «gli istinti e i poteri medesimi del fanciullo forniscono il materiale e danno l’avvio a tutta l’educazione. Se gli sforzi dell’educatore non si riallacciano a qualche attività che il fanciullo compie di sua propria iniziativa indipendentemente dall’educatore stesso, l’educazione si riduce a una pressione dall’esterno. Essa può dare dei risultati esterni, ma non può essere veramente chiamata educativa»[8]. Nel medesimo lavoro, e ancor di più in quello successivo, The School and Society, il pedagogista americano avrebbe poi definito una concezione organica e comunitaria della società: «riassumendo, io credo che l’individuo che deve essere educato [sia] un individuo sociale e che la società [sia] un’unione organica di individui. Se eliminiamo il fattore sociale dal fanciullo si resta solo con un’astrazione; se eliminiamo il fattore individuale dalla società, si resta solo con una massa inerte e senza vita»[9]. La società, difatti, «consiste di un certo numero di individui tenuti insieme dal fatto di lavorare in una stessa direzione in uno spirito comune, e di perseguire mire comuni»[10].
Ai fini, però, della costruzione «di una più grande società rispettabile, amabile e armonica»[11], occorreva prendere atto di come solo una minoranza dei suoi componenti fosse portata per l’attività intellettuale e speculativa: «nella grande maggioranza degli esseri umani il puro e semplice interesse intellettuale non è quello che domina. In essi dominano quelli che si sogliono chiamare impulsi e disposizioni pratiche […]. Mentre i luminari del nostro pensiero educativo parlano di cultura, di svolgimento della personalità, ecc., come scopo e meta dell’educazione, la gran parte di coloro che sottostanno all’istruzione la considerano soltanto strumento angustamente pratico per procurarsi quel tanto che li sottragga a una vita di restrizioni. Se noi avessimo dello scopo e della meta dell’educazione un’idea meno esclusiva, se noi introducessimo nei processi educativi le attività che si indirizzano a coloro in cui predomina l’interesse per il fare e per il costruire, ci accorgeremmo che la scuola eserciterebbe sui suoi membri un’azione molto più vitale, più prolungata, più effettivamente culturale di quel che non accada oggi»[12].
Nella sua opera più impegnativa in materia di educazione e vera e propria pietra miliare in materia, Democracy and Education, del 1916, Dewey, sulla scorta evidentemente di riflessioni maturate intorno all’evoluzione e alla fisionomia che andava acquisendo la società industriale statunitense, modificava la lettura precedente della società, priva sostanzialmente di fratture e frizioni interne, problematizzando sensibilmente il rapporto di questa con la scuola.
Rifiutato il «dogma della predestinazione sociale»[13], Dewey osservava che la «riorganizzazione educativa non può essere compiuta soltanto cercando di dare una preparazione tecnica alle industrie e alle professioni, come funzionano attualmente, e tanto meno con la sola riproduzione nella scuola delle condizioni industriali esistenti. Il problema non è di fare delle scuole un’appendice dell’industria e del commercio, ma di utilizzare i fattori dell’industria per rendere la vita scolastica più attiva, più piena di significato immediato, più aderente all’esperienza extrascolastica. Il problema non è facile da risolvere. Vi è il costante pericolo che l’educazione perpetui le vecchie tradizioni per una minoranza selezionata e che compia il suo adattamento alle condizioni economiche più recenti più o meno sulla base dell’accettazione degli aspetti retrivi, non razionalizzati, non socializzati del nostro difettoso regime industriale»[14]. Più specificamente, «vi è il pericolo che l’educazione professionale venga interpretata in teoria e in pratica come educazione al mestiere; come mezzo di ottenere l’efficienza tecnica in future occupazioni specializzate. L’educazione diventerebbe allora uno strumento per perpetuare inalterato l’ordine industriale attuale della società, invece di operare come un mezzo per la sua trasformazione. La trasformazione desiderata non è difficile a definirsi in modo formale. Significa una società nella quale ogni persona attenda a qualcosa che renda più degne di essere vissute le vite altrui, e che perciò renda più percettibili i vincoli di interdipendenza fra le persone, che abbatta cioè le barriere che le separano. Denota uno stato di cose nel quale l’interesse di ognuno nel suo lavoro non è coatto, ma intelligente: basato sulla congenialità alle sue proprie attitudini. Si intende che siamo lontani da un simile stato sociale; in senso letterale e quantitativo non ci arriveremo forse mai. Ma in linea di massima, i cambiamenti già avvenuti sono volti, qualitativamente, in questa direzione»[15].
[1] Commissione delle Comunità’ europee, Libro bianco su Istruzione e Formazione – Insegnare e apprendere – Verso la società conoscitiva, ora in https://op.europa.eu/it/publication-detail/-/publication/d0a8aa7a-5311-4eee-904c-98fa541108d8, p. 15.
[2] Ivi, p. 16.
[3] Ivi, p. 37.
[4] Raccomandazione del Parlamento europeo e del Consiglio del 18 dicembre 2006 relativa a competenze chiave per l’apprendimento permanente, in https://eur-lex.europa.eu/legal-content/IT/TXT/PDF/?uri=CELEX:32006H0962&from=EN, p. 16. Sulle altre iniziative dell’Ue in materia di competenze si rinvia a quanto in https://ec.europa.eu/education/policies/european-policy-cooperation/development-skills_it.
[5] C. Gentili, L’alternanza scuola-lavoro: paradigmi pedagogici e modelli didattici, in «Nuova Secondaria», 10, 2016, p. 16.
[6] Ibidem.
[7] C. Gentili, Scuola e impresa. Teorie e casi di partnership pedagogica, Milano, Angeli, 2012, p. 16.
[8] J. Dewey, Il mio credo pedagogico, in Idem, Il mio credo pedagogico. Antologia di scritti sull’educazione, a cura di Lamberto Borghi, Scandicci (Firenze), La Nuova Italia, 2004 (I ed. 1954), p. 5.
[9] Ivi, p. 9.
[10] Idem, Scuola e società, Firenze, La Nuova Italia, 1980 (ed. or. 1899), p. 7.
[11] Ivi, p. 20.
[12] Ibidem, pp. 18-19.
[13] Firenze, Sansoni, 2012, p. 351.
[14] Ivi, pp. 349-350.
[15] Ibidem.