E’ la domanda che si pone Paolo Crosetto in un post apparso di recente sul suo blog.

Forse l’appellativo di predatorio non è quello più centrato per questo editore, ma le pratiche definite abbastanza unanimemente (anche se nel blog  si sono levate voci di dissenso) come aggressive e in alcuni casi spregiudicate danno se non altro da pensare.

L’analisi fatta su questo editore e sui dati messi a disposizione di tutti si concentra su due temi specifici:

quello degli Special issues e quello dei tempi estremamente ridotti di pubblicazione.

ll tema degli special issues, una pratica molto utilizzata da questo editore  che da 388 special issues nel 2013 è giunto ad averne 39587 nel 2021, lascia aperta la questione del rapporto fra l’editorial board della rivista (di cui gli special issues sono appunto special) e i guest editors che hanno il compito di curare i singoli fascicoli e che vengono reclutati dall’editore attraverso un invio massivo di mail.

Il tema dei tempi di pubblicazione, sempre molto esigui anche quando la storia della pubblicazione riporta varie fasi di revisione, e quindi il dover più volte lavorare sul testo con botta e risposta fra autori e revisori. Ebbene questi tempi appaiono estremamente ridotti e in via di riduzione in maniera quasi incompatibile con i tempi di lavoro dei ricercatori (sia nel loro ruolo di autori che in quello di revisori).

Crosetto, che fa la sua analisi sul gruppo di riviste di MDPI che risulta dotato di IF, si chiede giustamente che fine faccia in un sistema come questo la qualità e quanto a lungo un simile sistema possa essere sostenibile e se sostenibilità e qualità possano permanere nel lungo termine.

L’articolo, che  mette anche in evidenza gli aspetti positivi di un editore che senza dubbio presenta luci e ombre, ha il pregio di fornire al lettore i dati e la metodologia utilizzata per poter riprodurre le analisi fatte.

E’ possibile leggere qui l’articolo e i relativi commenti

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2 Commenti

  1. ero editor in chief di una rivista italiana, ma con nome inglese che in tre anni avevo portato a un buon livello e che è stata fiutata e successivamente comprata da mdpi lo scorso novembre: sono rinato. Supporto 24h su 24, bonus di 100 franchi svizzeri per ogni review (somme che si possono cumulare), procedure chiare e veloci. i revisori sono puntuali e precisi e invece che fare la review in 5 minuti alla scadenza dei 30-60 giorni che danno i publisher più noti, la fanno con più cura in una settimana, perché ormai gratis non fa più niente nessuno. piuttosto ormai le riviste dei publisher tradizionali sono in difficoltà nella ricerca di revisori disponibili.
    credo che mdpi sia la risposta ai vari anvur (ce ne è uno in ogni paese del wto e non solo). peraltro refusi, dati poco chiari e metodi approssimativi sono all’ordine del giorno anche in riviste più prestigiose.

  2. Ringrazio il prof. Crosetto per aver reso pubblici i dati e per l’analisi, che trovo molto approfondita dal punto di vista statistico. Sulle deduzioni della Redazione ho un paio di note.

    Come Associate di una delle riviste di MDPI, ma anche di altre riviste non Open Access, faccio notare come la definizione di cosa sia Major e Minor cambia nelle due tipologie. Solitamente (e lo dico da Associate e da Revisore), se vedo che la review necessita di almeno un mese di lavoro attribuisco un reject and resubmit. Questo non tanto per ridurre formalmente i tempi di valutazione, ma perché se non puoi farlo in un mese, vuol dire che devi rivedere pesantemente il tuo paper. Da cui i tempi brevi di pubblicazione rilevai dal prof. Crosetto. In molte riviste tradizionali non ho questa opzione, per cui devo dare Major quando darei un reject e resumbit. Questa dicotomia l’ho vista in altre riviste Open/non Open e sarebbe utile venisse uniformata.

    Le riviste tradizionali presentano, anche a causa di ASN, VQR e similia, dei “circoli” che, anche in riviste blasonate, stanno letteralmente rovinando intere aree. Di esempi ne potrei fare, con articoli imbarazzanti apparsi su riviste ben oltre la famosa fascia A. Che può fare quindi qualcuno che non appartiene ai “circoli degli illuminati”? Un esempio è la lista delle riviste VQR. L’intera area 01 (Matematica, 10 SSD, di cui almeno 3 formemente multidisciplinari) ha lo stesso numero di riviste di un solo settore in una area di Ingegneria o Economia. Effetto? Ci sono poche riviste e vengono tagliati via intere branche di alcuni settori. Se sei parte di MAT/09 Ricerca Operativa o fai teoria, o ti occupi di Trasporti (e solo in un certo modo, tralasciando tutta l’area della sostenibilità, ad esempio). Management, ottimizzazione stocastica, non lineare (e molte altre) relegate a margine o fuori dalla lista. Qualsiasi cosa spezzi i circoli per me va bene, ma va controllata (come fatto da prof. Crosetto).

    L’Open Access sta diventando un obbligo per chiunque in Europa abbia fondi progettuali, per cui, che piaccia o meno, quella è la direzione. Per chi non ne ha non è un problema, off course.

    Circa le Special Issue, anche io sono stato perplesso sulla politica dell’ultimo anno e l’ho fatto presente. Ma non mi sembra faccia danno più delle conferenze con pubblicazione degli atti, che proliferano in alcune aree e con le quali si sono creati interi CV (evito di fare esempi, ma posso in privati fornire CV e Dipartimenti che del pagare articoli a conferenze hanno fatto il modus operandi, con effetti nefasti sulla qualità della ricerca, perché un convegno serve non a gonfiare il CV, ma a scambiarsi idee ed eventualmente presentare risultati). Eppure queste ultime pratiche sono comunemente accettate.

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