
Giorgio Israel è uno storico della matematica. Studioso di fama internazionale, di recente uno dei siti web che raccolgono gli umori della protesta contro la Gelmini lo ha descritto come il “puparo” del
ministro della pubblica istruzione. L’espressione poco benevola – e il
riferimento a Marco Biagi che la segue nello stesso post – rivelano un
atteggiamento preoccupante da parte di alcuni contestatori nei confronti di un intellettuale libero, che in questi anni ha molto riflettuto sui problemi della scuola e dell’università. Proprio di università abbiamo parlato con Israel, per
avere la sua opinione su alcuni dei punti toccati dal decreto in preparazione.
Professor Israel, secondo le anticipazioni, il decreto sull’università che il ministro Gelmini sta per proporre dovrebbe diminuire drasticamente il ricorso a docenti a contratto. Perché si è reso necessario questo provvedimento?
La situazione non è omogenea. Vi sono
università o facoltà che ricorrono poco o niente ai contratti d’insegnamento.
Al contrario, altre vi fanno ampio ricorso. È noto che in certi casi si
bandisce un gran numero di contratti pagati vergognosamente poco: fino a poche
centinaia di euro lordi per un corso di sessanta ore. Ciò rappresenta comunque
uno sperpero inaccettabile di denaro al solo scopo di tenere in piedi un gran
numero di lauree, sfruttando le speranze di chi si illude che facendo un corso
universitario acquisirà un titolo di benemerenza per un posto fisso. È un
malcostume che deve essere stroncato. La riduzione dei corsi di laurea è
necessaria e salutare, e spesso può essere indolore in quanto realizzata col
semplice taglio dei contratti di insegnamento.
Nei giorni scorsi il ministro ha affermato che il 3 + 2 è fallito e che bisogna eliminarlo. Eppure c’è chi sostiene che il problema non è la formula adottata, che ha funzionato e funziona bene altrove, ma il modo in cui è stata distorta dalle università. Oltretutto, queste avevano a che fare, a loro volta, con datori di lavoro, in particolare le stesse pubbliche amministrazioni, che non hanno capito il senso e l’utilità delle lauree brevi. Forse era il caso di aspettare ancora prima di dichiarare fallimento. Non è presto per tornare indietro?
Su questa questione sovrasta una grande bugia
che si riassume nello slogan: «ce lo ha chiesto l’Europa». Non è vero. Le
indicazioni di Bologna e di Lisbona, evocate quando si tratta di affermare
l’assoluta necessità di certe innovazioni – come l’introduzione della terna
conoscenze/competenze/abilità – sono iniziative unilaterali e “private”,
destituita di qualsiasi valore normativo. Noi abbiamo scelto di aderire
all’indicazione del 3 + 2 (laurea triennale seguita dalla laurea specialistica,
ora magistrale). Potevamo non farlo, come non lo hanno fatto altri paesi. Penso
che sia difficile trovare qualcuno disposto a difendere il 3 + 2, salvo chi
l’ha introdotto. Vorrei ricordare che, in precedenza, si pensò di introdurre un
diploma biennale, che sarebbe stata un’ottima soluzione per un profilo professionale
pratico di ambizioni realistiche. Si è scelta un’altra strada. La laurea
triennale è una via di mezzo che non corrisponde a quasi nessuno sbocco
professionale, non ha senso e non è utile. Chi farebbe costruire un ponte a un
laureato triennale, gli affiderebbe una causa o ne farebbe un insegnante?
Persino per fare il farmacista non si ritiene sufficiente la laurea triennale.
Il risultato è che quasi tutti gli studenti proseguono con la specialistica e
conseguono alla fine una preparazione che è al più uguale a quella che si
otteneva con la quadriennale, spesso è inferiore, pagando il prezzo di un anno
in più. Difatti, mentre con la quadriennale si seguivano corsi annuali o
semestrali che consentivano una preparazione approfondita e solida, ora tutto
si disperde in una miriade di corsi al più trimestrali, talora di poche ore, il
che porta lo studente a un agitarsi isterico di esame in esame senza riuscire
ad assimilare niente altro che spolverature di nozioni. Finita la triennale, un
buon pezzo della specialistica (o magistrale) serve e colmare le carenze
pregresse, col risultato che si perde un anno per ottenere meno di quel che si
otteneva con quattro. Questo lo sanno tutti, è vox populi. Che poi alcune
università si siano comportate male, moltiplicando lauree e corsi e
frammentandoli, è vero. Ma anche nei casi in cui questo non è stato fatto gli
inconvenienti sono rimasti, e potrei fare esempi. Peraltro quel malcostume è
stato stimolato da una formula strutturalmente sbagliato e condita dal perverso
sistema dei crediti che hanno trasformato i corsi e gli esami in un autentico
mercato delle vacche («vengo al suo seminario se lei mi da tot crediti»).
Tornare indietro? Se si chiedesse ai professori universitari cosa pensano del 3
+ 2 la risposta maggioritaria sarebbe «ne penso male», se si chiedesse loro di
tornare indietro la risposta unanime sarebbe «mai e poi mai». Chi ha voglia di
rimettere mano a tutto il sistema dopo aver passato anni a impazzire dietro la
costruzione di lauree, a calcolare crediti, a definire percorsi e corsi? Anche
questo – aver costretto ai docenti a un avvilente lavoro da burocrati
distogliendoli dalle loro funzioni prioritarie – è stato una delle
imperdonabili colpe di questo sistema che ha fatto emergere i peggiori – quelli
che hanno la voluttà della “gestione” – a scapito dei migliori, quelli che
vogliono soprattutto insegnare e far ricerca.
Sempre leggendo le anticipazioni relative ai contenuti del decreto si ha l’impressione che si prospetti un sistema centralizzato, in cui il ministero controlla, programma, autorizza e decide cosa è meglio per ciascuno. Nei paesi che hanno le università migliori del mondo le cose non funzionano in questo modo. Come mai qui è necessario tornare a un sistema che sembra ispirato da una concezione paternalista piuttosto che liberale della società?
Di quali paesi parliamo? Tutti i sistemi europei sono in prevalenza statali e talora funzionano ancora bene. Gli Stati Uniti sono un altro mondo e ogni confronto è impossibile. Va anche detto – tanto per uscire dai luoghi comuni politicamente corretti – che storicamente i sistemi pubblici e statali hanno dato ottimi risultati. Le università americane non potevano neppure lontanamente competere con quelle europee fino alla
Seconda guerra mondiale e la scuola secondaria americana ancora è a un livello
molto più basso di quella francese o italiana. Si dimentica che lo sfascio del
sistema universitario italiano – e di quello scolastico – ha un’origine
precisa: la trasformazione della figura del docente in un impiegato
sindacalizzato, l’ingresso dei sindacati nella struttura con la pretesa di
voler persino determinare carriere e modalità dell’insegnamento, i giganteschi
ope legis dagli anni settanta in poi, alternati con concorsi e idoneità che
erano altrettante ope legis, l’uso del sistema dell’istruzione come
ammortizzatore sociale attraverso assunzioni di massa, e via dicendo. Da allora
l’università non è più un luogo di formazione, di ricerca e di cultura. È forse
soltanto colpa degli universitari se da quasi quarant’anni si parla soltanto di
stato giuridico dei docenti e le uniche riforme della didattica che sono state
funzionali a problematiche del mercato del lavoro (peraltro mal comprese, come
nel caso del 3 + 2)? Questi sono i veri nodi. Per il resto, se si auspica la
privatizzazione del sistema universitario italiano si deve capire che questo è
possibile soltanto in modo molto graduale, a meno che qualcuno non voglia
chiudere tutto e abbandonarsi alla spontaneità degli “animal spirits”. Nel
frattempo, il controllo centrale degli standard e dei livelli non può che
competere a una struttura centrale.
…e l’abolizione del valore legale del titolo di
studio?
Anche qui non è bene intrattenersi con i sogni.
Tanti parlano di abolizione del valore legale del titolo di studio. In teoria è
l’uovo di Colombo. Soltanto che non basta dare una schiacciatina all’uovo per
farlo stare in piedi. Molti sanno, ma preferiscono non dirlo ad alta voce, che
un simile provvedimento implicherebbe un’opera di delegificazione di portata
epocale, difficile persino da prevedere. Invece di porsi obbiettivi belli da
dire e quasi impossibili da realizzare sarebbe meglio procedere concretamente:
per esempio, concedendo alle università la libertà di definire il livello delle
tasse e pagare il prezzo della concorrenza che si creerebbe. Queste sono forme
di liberalizzazione attuabili e che possono portare a un risanamento del
sistema, fermo restando che la ricerca di base deve essere difesa, pena la
decadenza del paese a livelli irrecuperabili.
Un ruolo molto importante nel modello di università proposto dal ministro Gelmini ha l’idea di un sistema di valutazione nazionale. Tuttavia, molti sostengono che tale sistema può funzionare bene solo per le discipline in cui la comunità scientifica può adoperare standard internazionali. Per il diritto, o per la letteratura, la faccenda è più complicata. Come si può rispondere a questa obiezione?
Sulla questione della valutazione ritengo che
si debba andare con i piedi di piombo. La valutazione della ricerca non
l’abbiamo scoperta oggi: è stata inventata nel Settecento. Il problema è che
oggi la massa dei prodotti della ricerca è tale che è difficile usare l’unico
sistema sensato, e cioè la valutazione qualitativa, verbale, specifica, basata
su un’analisi approfondita dei risultati e delle pubblicazioni da parte di
esperti del settore, e non più anonima, perché ormai dietro l’anonimato si
celano regolamenti di conti tra fazioni. Ma la tentazione è di affidarsi a
meccanismi numerici basati su algoritmi che tengono conto di una serie di
parametri che rinviano sempre da un giudizio a un altro che gli sta dietro, col
rischio che, di passo in passo, un giudizio non ci sia mai, bensì soltanto
pregiudizi (pubblicare all’estero è meglio, questa rivista è meglio di quella
quindi l’articolo è migliore, ecc.). Si afferma che questi metodi sono
oggettivi, ma questo è ridicolo perché, in fin dei conti, essi debbono basarsi
su giudizi emesso da qualcuno, fosse anche soltanto sulla qualità della rivista
su cui è pubblicato un articolo. Inoltre, gli algoritmi, i parametri e i metodi
di valutazione sono spesso definiti da “ditte” private composte da esperti che
ragionano in termini manageriali astratti senza avere la minima idea di cosa
sia realmente la ricerca scientifica. Quindi, la necessità di valutare in massa
e rapidamente può congiurare in modo perverso con l’interesse di gruppi che
mirano soltanto a fare affari. Non mi stancherò di ricordare – a costo di
passare per rimbecillito – che alcuni mesi fa è uscito un autorevolissimo
rapporto della International Mathematical Union, dell’International Council of
Industrial and Applied Mathematics a dell’Institute of Mathematical Statistics
(le massime autorità in materia di numeri!) che smantella certi sistemi di
valutazione, come il citation index, afferma che «i numeri non sono di per sé
superiori ai giudizi ponderati» e che la ricerca di metodi «oggettivi», di
«standard», è un’«illusione». Si denuncia il rischio enorme che la ricerca di
base – proprio quella che costituisce la colonna portante di tutto il sistema
della ricerca – venga colpita duramente da questi sistemi. Vogliamo adottarli
affrettatamente proprio mentre altrove ci si interroga sui guasti che rischiano
di produrre? Quanto alle materie umanistiche è del tutto evidente che il
ricorso a parametri ISI o al citation index ne costituiscono la pietra tombale.
Inoltre, come ha osservato Cesare Segre, per questa via si sottrae la
valutazione ai soli competenti, mettendola in mano a tecnocrati che usano
schemi preformati sottratti ad ogni valutazione (talora si assiste a un uso
francamente ridicolo di certe tecniche statistiche). L’unica valutazione seria
della ricerca è l’autovalutazione della comunità scientifica, in forme che
debbono essere rese stabili, obbligatorie e regolamentate, ma non possono e non
debbono fare a meno di entrare nel merito dei contenuti della ricerca.
Pubblicato su Il Riformista il 18 settembre 2009