1969. Nixon s’insedia a Washington, vola il primo Concorde, Cooley impianta il primo cuore artificiale, De Gaulle si dimette, premiati Beckett e Gell-Mann mentre nasce il Nobel per l’economia, un piede compie un grande passo per l’umanità, Woodstock, il Vietnam brucia e l’anno si chiude sinistramente come tutti sappiamo. Quell’anno Gabriello Illuminati (un chimico) e Paolo Sylos Labini (un economista) pubblicarono un saggio a due mani (G. Illuminati, P. Sylos Labini, PROPOSTE PER LA RIFORMA UNIVERSITARIA, Edizioni di Comunità, Roma, 1969) nel quale si proposero di tracciare le linee portanti di una possibile riforma del già allora vetusto Regio Decreto del 1933. Sappiamo come andò a finire. La riforma si ebbe, ma solo nel 1980, e molte cose su cui i due autori avevano sapientemente riflettuto, nell’ottica di uno studio ospitato in una collana pubblicata in collaborazione con la Fondazione Adriano Olivetti e non da un collettivo maoista, andarono fatalmente perdute. Questo estratto dell’opera, in particolare, si rivela di grande attualità e modernità in tempi in cui le cronache hanno riportato prepotentemente in luce la necessità di imbastire una riflessione sul ruolo del professore universitario in relazione al tempo che gli è consentito di dedicare ad attività che si pongono fuori dalla sua funzione e identità primaria. Buona lettura.
Il problema dei rapporti dell’Università con il mondo esterno è uno dei più difficili e delicati della riforma. Si tratta di eliminare i gravi abusi che oggi hanno luogo, senza tuttavia ledere i possibili molteplici benefici che certi rapporti fra Università e mondo esterno possono comportare. È infatti ben noto che, col pretesto di quei benefici, molti professori svolgono altre attività che richiedono un impegno tale da rendere impossibile uno svolgimento pieno o anche solo minimamente adeguato dei propri doveri.
È più che evidente che il ministro, il parlamentare, il dirigente di organismi pubblici o privati non può, neanche volendo, fare il professore sul serio: non può, finché dura il suo mandato o la sua attività direttiva, seguire gli studenti, dirigere ricerche e condividere tutti gli altri diritti «attivi» con gli altri colleghi. Al massimo, potrà fare, correndo da una parte all’altra, qualche lezione: il che è una misera caricatura di quel che deve essere l’attività di un docente.
Non meno gravi sono gli abusi derivati dalle attività private di tipo professionale, problema che investe, come è noto, particolarmente certe facoltà, tra cui Medicina, Giurisprudenza, Architettura e Ingegneria. Il problema probabilmente richiede soluzioni differenziate per facoltà, soluzioni che potrebbero essere specificamente perfezionate nell’ambito dei Dipartimenti in virtù dell’autonomia di cui dispongono. Chi scrive e, riteniamo, chi redige una legge generale vuole innanzi tutto mirare a sancire certi principi fondamentali.
A tal fine è opportuno distinguere tre casi di attività extrauniversitarie:
1) Attività politiche e attività di direzione e amministrazione di organismi pubblici e privati.
2) Attività professionali.
3) Attività di consulenza scientifica.
Non riteniamo neanche opportuno prendere in considerazione altre attività: va da sé che per qualunque altra attività estranea (ad es., commerciale) si tratta di evidente incompatibilità.
Per le attività del primo tipo, gli autori si dichiarano d’accordo con l’impostazione del progetto di legge 1969 e cioè che i professori in tal caso siano messi in aspettativa per tutto il periodo del mandato (art. 22, comma 10°). Siamo anche d’accordo sulla incompatibilità della libera professione con le funzioni di docente. Occorre tuttavia ben precisare che esiste un’attività professionale di «routine», a scopo di guadagno e di nessun interesse accademico, che non può essere autorizzata neanche se svolta nell’ambito di un Dipartimento.
La costruzione di una casa qualunque o una normale operazione di appendicite non sono certo attività che possono cointeressare il Dipartimento. Esiste invece un’attività professionale non di «routine» avente caratteristiche tali da giustificare interesse accademico, quale, ad es. i complessi problemi dell’urbanistica moderna che presuppongono studi originali e di interesse pubblico. A questo genere di attività professionale, per cui potrebbe essere estremamente utile il contatto degli studenti a tutti i livelli, dovrebbe essere cointeressato il Dipartimento, con motivazioni precise, da sottoporre all’approvazione del C.N.U. o del Ministero. Attività professionali secondarie come impegno ma importanti, quali i consulti clinici o altre attività di consulenza professionale a carattere sporadico potrebbero essere analogamente trattate con la semplice approvazione interna del Dipartimento e secondo compensi stabiliti dal Dipartimento e approvati dal C.N.U.
Ciò che il progetto di legge ignora completamente è la consulenza di ricerca scientifica. Ciò si spiega facilmente con il fatto che di consulenze di ricerca ve ne sono ben poche in Italia, paese industrialmente sviluppato ma culturalmente arretrato, tanto da essere del tutto sconosciute a molti uomini politici. Ma, guardando al futuro, e basandoci sull’esperienza di altri paesi dove la ricerca scientifica è altamente sviluppata, dobbiamo, non semplicemente tollerare, ma addirittura incoraggiare le consulenze di ricerca. Quindi qui non si tratta di combattere abusi, poiché tali abusi oggi, salvo eccezioni, non esistono.
Ma forse è il caso di illustrare brevemente che cosa intendiamo per consulenza di ricerca. È la prestazione di un esperto universitario in un campo specifico di ricerca a favore di un gruppo di ricerca industriale che può consistere in interventi di vario tipo, cicli di seminari e discussioni dei risultati della ricerca condotta dall’industria ovvero guida di una ricerca specifica (di base, non applicata) presso l’Università. Tutti questi interventi possono benissimo essere notificati al e concordati col Dipartimento. L’importanza della consulenza di ricerca come ora definita è evidente: è uno scambio culturale di alto livello che va in due sensi poiché è benefico non solo all’industria ma anche all’Università.
È chiaro che quando un progetto di legge si preoccupa di consentire «incarichi di insegnamento» presso le Accademie militari (art. 22, comma 5°), di assai dubbia utilità o necessità per entrambe le parti, a maggior ragione dovrebbe incoraggiare le consulenze di ricerca scientifica. Le consulenze di ricerca scientifica sono, per loro natura, prestazioni che impegnano un tempo ben definito e comunque limitato. Inoltre è ben difficile che uno stesso esperto sia chiamato da più di una industria per uno stesso tipo di prestazioni. Ma il Dipartimento, che è cointeressato nella prestazione, può e deve sempre limitare la prestazione stessa in modo da non compromettere il pieno adempimento dei compiti didattici e scientifici del docente universitario.
b) Indennità di pieno tempo
Mentre per le attività extrauniversitarie del primo caso (v. paragrafo precedente) il problema è convenientemente risolto con l’aspettativa, per i docenti «attivi» si pone il problema della indennità di pieno tempo. In base alle valutazioni date nel precedente paragrafo dei casi 2 e 3, non dovrebbe essere difficile trovare una soluzione adeguata del problema.
Proponiamo che venga attribuita una forte indennità di tempo pieno a tutti i professori di ruolo. Ciò ridurrà notevolmente la necessità di molti professori di cercare integrazioni economiche al di fuori dell’università. Lo Stato a questo punto può a buon diritto proibire categoricamente la libera professione di «routine», avente solo scopo di guadagno e consentire attività professionali nell’ambito del Dipartimento solo se di interesse accademico e in misura tale che il compenso aggiuntivo non superi, ad esempio, il 30% dell’indennità stessa (l’eventuale eccedenza andrebbe a beneficio del Dipartimento)[1].
Coloro che già esercitano o desiderano esercitare l’attività professionale senza essere soggetti a vincoli potranno stabilire un nuovo rapporto con l’Università (professori a contratto o associati).
Le consulenze di ricerca scientifica debbono essere consentite nell’ambito del Dipartimento, con le modalità concordate con il Dipartimento medesimo e in misura tale che il compenso aggiuntivo non superi, ad esempio, il 30% dell’indennità di tempo pieno.
I professori che hanno la carica di rettore, direttore di Dipartimento, o altre cariche accademiche, ovvero i membri del C.N.U. possono essere, su richiesta, esonerati dall’attività didattica. Nei casi in cui tali funzioni non comportano spostamenti dalla sede e pertanto l’attività didattica è possibile, è prevista una indennità di funzione cumulabile con i compensi delle prestazioni «extrauniversitarie» purché globalmente non superino, per esempio, il 50% dell’indennità di pieno tempo.
Ovviamente queste norme del tempo pieno sono puramente indicative. Importante è, da un lato, aver chiari i principi esposti nel 1° paragrafo e, dall’altro, computare l’entità dell’indennità di pieno tempo in misura adeguata. L’indennità prevista nel progetto, infatti, è una vera e propria beffa (v. il commento all’art. 23): essa corrisponde ad un aumento dal 10 al 20% della retribuzione totale effettiva e, in diversi casi, si traduce addirittura in una diminuzione dell’attuale retribuzione. Questa, tuttavia, è la conseguenza, probabilmente inevitabile, del troppo rapido incremento, previsto dal progetto, dei professori di ruolo (fino a 20.000 in quattro anni), non accompagnato dalla creazione di un figura intermedia – l’assistente al Dipartimento – che viceversa è uno stadio preliminare essenziale per l’addestramento didattico dei più giovani docenti.
Il Dipartimento è legalmente e moralmente impegnato perché non vi siano abusi riguardo alla regolamentazione del tempo pieno. Inoltre, ciascun professore è tenuto a fornire una relazione annuale sulla sua attività didattica e scientifica, nella quale dovrà anche specificare le attività professionali e di consulenza scientifica autorizzate dal Dipartimento, ovvero a dichiarare di non svolgere attività extrauniversitarie di qualsiasi genere. In caso di inadempienza, l’indennità è sospesa, con una qualche procedura che, naturalmente, deve essere posta in atto dal Dipartimento.
La relazione annuale deve essere resa pubblica nel Bollettino dell’Università; tale relazione è probabilmente una delle migliori garanzie contro gli abusi. Le relazioni annuali avrebbero un’importanza anche più ampia: attraverso tali relazioni tutti, a cominciare dagli studenti (che sono gli utenti dei servizi resi dai docenti) sarebbero messi in condizione di criticare con piena cognizione di causa l’opera svolta dai docenti e di valutare se effettivamente il docente dedica tutte le sue energie all’Università. Non si creda che una tale procedura parta da presupposti ingenui: i docenti sono intellettuali e come tali temono un giudizio pubblico che, se non operano con onestà, o in caso di provata falsa testimonianza sulle attività e sui fatti indicati nella relazione, può irrimediabilmente screditarli.
[1] Alcuni colleghi hanno criticato la norma del progetto governativo che consente lo svolgimento di alcune attività professionali nell’ambito del Dipartimento per i pericoli di abusi che una tale norma può dar luogo. Riteniamo che se le possibili autorizzazioni vengono circoscritte e condizionate nel modo indicato nel testo, questi pericoli possono essere fortemente ridotti.
* Tratto da G. Illuminati, P. Sylos Labini, PROPOSTE PER LA RIFORMA UNIVERSITARIA, Edizioni di Comunità, Roma, 1969, pp. 18-20.
L’argomento e’ estremamente attuale visto il numero di inchieste della Guardia di Finanza in corso in questo periodo.
Ma giustamente questo intervento e’ etichettato “archeo-roars”: all’epoca forse era attuale ed innovativo, oggi mostra tutta la vetusta’ di una impostazione che gli ultimi decenni hanno sconfessato.
Lo si vede soprattutto dove si parla di consulenze svientifiche legate alla ricerca industriale, qui il mondo e’ completamente cambiato da quanto descritto!
Nel futuro l’Universita’ per sopravvivere deve essere aperta al mondo esterno a tutti i livelli, e non solo per trovare PMI necessarie ad accedere ai carrozzoni dei finanziamente europei. Il docente universitario non puo’ e non potra’ piu’ arroccarsi nel suo laboratorio, facendo solo ricerca “istituzionale”, concetto obsoleto e di fatto ormai del tutto privo di finanziamenti pubblici. Gia’ ora e’ piu’ facile finanziare la ricerca di base coi soldi dell’industria, che coi “cofinanziamenti” regionali, governativi o europei, che per un verso o quell’altro privilegiano invece sempre la ricerca applicativa, e solo in specifici settori.
L’unica parte che si salva del documento riguarda la cosiddetta “libera professione”, problema che da sempre affligge una certa pecentuale di docenti universitari, che considerano secondaria questa attivita’ rispetto ad una ben piu’ remunerativa attivita’ professionale esterna.
L’attuale ordinamento consente questa cosa per i docenti a tempo definito.
Personalmente penso che sia ora di “destrutturare” tali posizioni, trasformando il minimale apporto che questi validi professionisti si degnano di dedicare all’Universita’ da un rapporto di lavoro dipendente a tempo definito a dei semplici contratti di insegnamento (professori a contratto). Cio’ consentirebbe un significativo risparmio economico, e nello stesso tempo metterebbe in chiaro che si tratta di persone utilissime per trasferire agli studenti la loro innegabile esperienza professionale, ma che non svolgono la loro primaria funzione di ricerca e di “terza missione” all’interno dell’Universita’, avendo un avviato studio professionale al di fuori.
Caro Farina, Lei pontifica anche su ciò che ignora. Chieda a qyalche collega giurista chi erano, ad es., Rosario Nicolò, Francesco Carnelutti, Antonio Guarino (e l’elenco potrebbe proseguire, se vuole) e che ne sarebbe stato della scienza giuridica senza questi “professionisti a contratto “. Lei semplifica e banalizza tutto, equiparando Giganti ad avvocati d’affari o dirigenti, che insegnano a contratto in pur blasonate università private. E ciò perché (legittimamente) ignora cosa sia la scienza giuridica. Non mi pronuncio su altre branche del sapere, perché non parlo di ciò che ignoro. Modestamente, nel mio piccolo, sono un ordinario a tempo definito, ma non mi sento meno professore dei colleghi che hanno optato per il tempo pieno
Mi riferivo a Giusepp Guarino (ma se preferisce, fra gki amministrativisti, pensi a Massimo Severo Giannini, o a Giuseppe Ferri e Berardino Libonati, fra i commercialisti) non al romanista, che peraltro, tra le tante cose, ha fatto anche egregiamente l’avvocato. A conferma di quel che osservavo: non è vero che i professori che esercitano la professione di avvocato valgono meno e danno all’università meno dei colleghi a tempo pieno. Sfido chiunque a dimostrare il contrario .
Caro Ulrico, allora bisognerebbe constatare che la scienza giuridica non si fa all’Università, ma solo negli studi professionali e nei tribunali ?
Ricordo che, in passato, mi stupivano le caselle di posta dei miei colleghi giuristi che esplodevano di lettere e missive finchè qualche buonanima di collaboratore, probabilmente munendosi di carriola e di assicurazioni contro il mal di schiena, provvedeva a spostarne il contenuto nell’ufficio del “de cuius”. Dov’erano ?
Non ho mai detto questo. Ci sono stati grandi giuristi, che non erano avvocati (un nome prr tutti: Emilio Betti). Il punto è un altro. È proprio della nostra tradizione giuridica la figura del giurista teorico e pratico assieme. Lei (come Farina) questo lo ignora. Non c’è niente di male. Il problema è discettare di quel che si ignora. Io non saprei che dire sul modi di fare ricerca e didattica degli ingegneri idraulici. E infatti non ne parlo. Trovo però improprie (e un po’ ridicole) le riflessioni che pretendono di generalizzare modelli validi in un ambito ristretto, ignorando le peculiarità delle diverse branche del sapere. Purtroppo è la moda del momento (Anvur, VQR, bibliometria…). Poi, certo, ci sono professori che non lavorano. Non credo siano più numerosi fra quelli a tempo definito.
Da professore ordinario di diritto del lavoro ritengo che il tempo definito vada abolito. Chi vuole fare professione la faccia fuori e senza sfruttare luniversita’.
Difficile immaginare il diritto del lavoro senza Francesco Santoro Passarelli e Renato Scognamiglio …
Un documento storico di grande interesse su un tema essenzialmente irrisolto che investe anche il rapporto fra università pubblica e privata, il tema dell’autononia degli Atenei, il controllo sulla qualità della docenza, i possibili conflitti di interesse, la diversità fra i vari contesti e i differenti ambiti disciplinari.Occorre ripensare completamente la materia. L’intramoenia dpvrebbe esssere la regola generale anche in attività diverse dalla pratica medica anche se non ho ancora chiaro come questa si possa conciliare con attività che richiedono la natura personale dell’incarico (es. l’avvocatura). È indubbio che ad esempio la figura dei conaiglieri o presidenti indipendenti nei consigli di amministrazione sembra tagliata su misura per i docenti universitari con reciproci benefici anche extraecomomici. Le commesse esterne di ricerca assolvono un ruolo importante nel finanziamento dei dipartimenti ma non ha senso lomitare l”introito economico dei ricercatori che a volte si realizza solo alla rendicontazione dopo diversi anni di durata del progetto.
Infatti non si concilia. E’ un dato di fatto che la stragrande maggioranza dei più grandi giuristi italiani è rappresentata dalla figura del professore e avvocato. Chi lo nega o è ignorante o è in mala fede. Importante non confondere questa figura, tipica della nostra tradizione giuridica, con il finto professore, ossia l’avvocato o altro professionista o dirigente d’impresa, che insegna a contratto, senza alcuna formazione accademica. Gli ideologi del professore a tempo pieno non sono in grado di dimostrare le loro tesi e si affidano a invettive, prive di riscontro e inutilmente offensive. Ripeto: impensabile il diritto in Italia, senza professori-avvocati del calibro di Francesco Carnelutti, Piero Calamandrei, Giacomo Delitala, Massimo Severo Giannini, Rosario Nicolò, Aldo M. Sandulli, Massimo Severo Giannini, Francesco Galgano, Renato Scognamiglio, Pietro Trimarchi, Alessandro Graziani, Tullio Ascarelli, Giuseppe Ferri, Gustavo Minervini, etc. Tutti noti sfruttatori dell’università. Per favore, non scherziamo!
Non entro nel merito specifico perché conosco discipline diverse da quelle giuridiche ed economiche, ma una ricerca biografica indica che quasi tutti i maestri citati da Ulrico a difesa dell’importanza della libera professione – esclusi G. Guarino e Scognamiglio classe 1922 – sono deceduti (vedi sotto).
Personalmente nutro qualche dubbio che si possano assimilare la didattica e la professione del secolo scorso con quello che accade oggi. Troverei quindi la sua argomentazione più convincente se citasse esempi di personalità attuali.
Il punto forse è che va preso atto realmente delle differenze nei modi di fare didattica, ricerca e libera professione delle varie discipline per evitare che la patente di “professore” non venga svilita da colleghi “in altre faccende affaccendati”.
Rosario Nicolò (Reggio Calabria, 12 settembre 1910 – Roma, 31 dicembre 1987).
Francesco Carnelutti (Udine, 15 maggio 1879 – Milano, 8 marzo 1965)
Antonio Guarino (Cerreto Sannita, 16 maggio 1914 – Napoli, 2 ottobre 2014)
Giuseppe Guarino (Napoli, 15 novembre 1922)
Massimo Severo Giannini (Roma, 8 marzo 1915 – Roma, 24 gennaio 2000)
Giuseppe Ferri (Norcia, 27 settembre 1908 – Roma 1988)
Berardino Libonati (Roma, 8 marzo 1934 – Roma, 30 novembre 2010)
Emilio Betti (Camerino, 20 agosto 1890 – Camorciano di Camerino, 11 agosto 1968)
Francesco Santoro Passarelli (Altamura, 19 luglio 1902 – Roma, 4 novembre 1995)
Renato Scognamiglio (Roma, 1922)
Ho citato soltanto i grandi maestri, noti anche agli studenti di giurisprudenza, per supportare l’affermazione secondo cui il professore-avvocato contraddistingue la nostra tradizione giuridica. Potrei fare nomi di giuristi dell’ottocento o del ventunesimo secolo, ma cosa cambierebbe? E’ davvero deprimente constatare come sia diffusa l’incapacità di comprendere la logica di un testo.
Anche io “nutro qualche dubbio che si possano assimilare la didattica e la professione del secolo scorso con quello che accade oggi”. Ma non mi faccia dire che oggi non ci sono più i professori di una volta, a tempo pieno o a tempo definito. Davvero non comprendo il Suo modo di ragionare: perché oggi non dovrebbe essere più vero che il tipico – non l’unico, sia chiaro – giurista accademico è il prof. avv.? Perché sono morti i giuristi che ho menzionato (i primi che mi sono venuti in mente)?
Provi a stampare l’elenco degli ordinari di materie giuridiche (ovviamente di diritto positivo) e si informi in giro. Vedrà che la maggior parte è composta da prof. avv., come è sempre stato. Sono migliori o peggiori dei maestri da me citati? Giudichi Lei, ma non è questo il punto. Resto in attesa che qualcuno dimostri, sulla base delle pubblicazioni scientifiche e dell’attività didattica, la superiorità dei giuristi-docenti a tempo pieno, rispetto ai professori-avvocati. Di ieri, oggi e domani.
E’ risaputo che può capitare
che lo strutturato, avendo lo stipendio fisso,
privilegi la fonte privata di guadagno “ho udienza, faccio fare la lezione al dottorando sfruttato perché devo andare in tribunale”.
Ci sono passato come dottorando sfruttato, ingoiamo il boccone e andiamo avanti.
Ora, guardiamo la situazione dei giovani giuristi di oggi:
io,
avvocato disoccupato (nel senso dei problemi dell’avvocatura)
e disoccupato aspirante precario (dopo quasi 13 anni di esperienza, con tanto di dottorato, post. dottorato, assegni, contratti post. assegni, svariate docenze a contratto, diversi articoli e 3 libri).
Il giurista di oggi è messo male.
E’ messo male come ricercatore (E SAPPIAMO IL MOTIVO)
E’ messo male come avvocato, cercate su Google.it,
io ho provato, mettendo “avvocati in crisi”, è venuto fuori questo:
https://www.google.it/search?q=%22avvocati+in+crisi%22&oq=%22avvocati+in+crisi%22&gs_l=psy-ab.3..0l2j0i22i30k1l8.1344.1878.0.2109.2.2.0.0.0.0.193.359.0j2.2.0….0…1.1.64.psy-ab..0.2.358….0.C4rS8EmRfsQ
Magari potessi essere strutturato come voi e parlare con tranquillità di questa cosa.
Dite una preghiera per me.
ovviamente intendo il giovane giurista non i vecchi che, sono contento per loro, hanno avuto quello che desideravano.
Bisogna chiedersi che cosa sia un professore che non esercita la professione: è una persona che insegna ad altri a fare qualcosa che ha studiato in modo approfondito ma che non ha mai fatto, cioè un ciarlatano.
Se ciò non è vero forse per tutte le facoltà, lo è per la maggior parte.
Immaginate un professore di Costruzioni stradali che insegna ai suoi allievi come si costruiscono le strade ma non ne ha mai progettato una né preso parte alla realizzazione, un professore di Chirurgia che insegna come si interviene su un paziente ma non è mai entrato in sala operatoria e così via.
Dunque spogliamoci di questa ipocrisia (credo solo italiana) e riconosciamo una volta per tutte che l’attività professionale è indispensabile per la formazione del professore universitario e pertanto andrebbe incoraggiata e anche valutata positivamente nei concorsi per l’abilitazione scientifica nazionale insieme all’attività di ricerca.
Per Ulrico: ecco chiamare “scienza” la professione di un grande avvocato mi pare dica gia’ tutto…
Poi ovvio che per insegnare ai futuri avvocati va benissimo valersi dell’esperienza di chi frequenta i tribunali con grande successo da tanti anni. Parliamo di ottimi docenti di materie giuridiche, ma non certo di scienziati!
Per me la scienza e’ altra cosa…
Credo che molti sfracelli di questi ultimi anni (compresi quelli “made by Anvur”) derivino da un malinteso senso di superiorità degli “scienziati” nei confronti del Diritto. Tanto che, quando occupano ruoli istituzionali, si comportano come un guidatore di automobile che non ha nessuna idea degli spazi di frenata e della forza centrifuga. Scienziato o meno che sia, temo che un esperto di Diritto sia non meno utile di molti scienziati in senso stretto. Soprattutto dopo quello che abbiamo visto in questi ultimi sette anni.
Caro Farina, Lei ha impiegato questi giorni per elaborare una risposta a un testo che non ha compreso, anziché informarsi sui nomi che Le ho fatto, come Le avevo suggerito . Non ho mai detto che la professione è scienza. E infatti non condivido la proposta di valutare l’attivita’ professionale nei concorsi. Il professore deve essere uno scienziato che insegna. Ho detto che nella scienza giuridica la professione può essere d’ausilio, pur restando altro. E ho aggiunto che è una peculiarità della tradizione giuridica italiana la figura del professore avvocato, come testimonia l’elenco di grandi studiosi, che ho fornito. Purtroppo Lei non riesce a concepire una scienza al di fuori delle Sue inevitabilmente limitate cognizioni, come testimonia anche il Suo intervento sui dottorati. Per fortuna c’è De Nicolao …
Il che non toglie che sono io stesso un convinto sostenitore del fatto che l’Universita’ non debba restare chiusa su se stessa, e debba invece avere frequenti contatti col mondo esterno. Il discorso che un docente deve insegnare cose che fa regolarmente e’ giustissimo, un professore di diritto deve andare in tribunale, cosi’ come un fisico deve fare ricerca in fisica, ed un ingegnere deve progettare e costruire.
E’ l’ambivalenza del tempo definito che mi disturba. Secondo me tutti i docenti dovrebbero essere normalmente a tempo pieno, e pur essendolo dovrebbero svolgere attivita’ pratica nel mondo reale, con contratti che passano attraverso l’Universita’, con una quota fissa trattenuta dalla stessa (diciamo il 20% ?) ed un monte ore annuo massimo ragionevole per queste attivita’ non istituzionali (diciamo 500 ore?).
Fa bene a tutti mettere il naso fuori e dedicare una frazione del proprio tempo (diciamo 1/3) ad applicare la propria conoscenza a casi concreti, ovviamente dietro adeguata remunerazione da parte dei committenti.
Tale attivita’ a mio avviso deve essere considerata naturale e giusta per un docente a tempo pieno, da cui l’inutilita’ del tempo definito, come attualmente inteso.
L’opzione del tempo definito dovrebbe invece essere mantenuta solo nella sua accezione originale, cioe’ una persona che decide di ridurre il proprio orario di lavoro (sia per la quota istituzionale, sia per la quota esterna) perche’ preferisce o ha necessita’ di passare piu’ tempo con la sua famiglia.
Non per poter fare un secondo lavoro!
Ancora una volta, Farina universalizza la sua esperienza, senza curarsi di informarsi, ad es., sulla disciplina della professione di avvocato e in particolare sul rapporto cliente/avvocato. Ciò nonostante, il suo commento è illuminante, perché coglie un punto centrale, che forse spiega questo dibattito fra ciechi. Se si ritiene che il professore debba essere a tempo pieno, per ragioni etiche, perché deve essere una sorta di sacerdote al servizio esclusivo dell’università, allora posso comprendere la posizione di Farina e degli altri assertori del tempo pieno. Se, invece, si vuole affermare che soltanto chi è a tempo pieno è un vero scienziato, allora non sono d’accordo (non lo sono neanche rispetto alla prima posizione, ma la rispetto, come posizione ideologica). Per sostenere questa seconda tesi, bisognerebbe dimostrare che la qualità della ricerca e della didattica dei professori a tempo definito è peggiore di quella dei colleghi a tempo pieno. Nessuno, finora, ha fornito elementi a supporto di questa tesi. E, a mio avviso, per confutarla basta scorrere la lista di giuristi da me fornita, che potrebbe agevolmente essere arricchita. L’unico giurista che è intervenuto (Bellavista), ha chiaramente manifestato una posizione ideologico-fideistica, sostenendo che i professori a tempo definito sono truffatori. A questa invettiva non è possibile replicare, se non accettando quel piano di confronto, decisamente poco elegante.
“Dibattito fra ciechi” è un lapsus calami o una sinestesia..
Il rapporto cliente/avvocato dipende anche
dal rapporto ordinario (avv.) / dottorando.
Se il dottorando quel giorno non tiene lezione al posto dell’avv. prof., l’avv. prof. fa lezione lui, quindi non va in udienza e ci manda un collega avv.
Se invece il dottorando accetta (per forza, è successo anche a me, altrimenti non pubblichi più e non vai avanti)
di essere schiavizzato, lui terrà lezione
e il prof. avv. andrà in udienza personalmente senza farsi sostituire.
Abusi anche nel rapporto università/professioni.
Mi stavo giusto chiedendo dove trova il prof. avv. il tempo di effondere la sua scienza sui suoi allievi, e il post qui sopra di anto ha chiarito il punto.
Anto è ossessionato dal rapporto dottorando/professore e non riesce a vedere altri problemi. Mi riferivo alla disciplina della personalità della prestazione dell’avvocato. Non è possibile affidare un incarico di assistenza e rappresentanza in giudizio a una università. Certo, si può modificare la disciplina e stabilire ad esempio, che, ferma la personalità dell’incarico, il professore avvocato non percepisce alcun compenso. Poi, magari, riceverebbe una integrazione di stipendio dall’università. Questa soluzione dovrebbe però anche affrontare, tra l’altro, il serio problema della responsabilità civile, che a quel punto dovrebbe essere in capo all’università. Certo è che, de iure condito, la soluzione suggerita da Farina non è praticabile. Ma, ripeto, così stiamo affrontando un diverso problema, che nulla ha a che vedere con la qualità della ricerca e della didattica dei professori universitari. Gli abusi segnalati da Anto, ovviamente, meritano di essere censurati e sanzionati, ma, a mio avviso, non rendono deteriore – sul piano scientifico/didattico – il modello attuale di svolgimento congiunto della professione di avvocato e dell’attività di professore universitario, in regime di tempo definito. Non dimentichiamo, infine, che il professore a tempo definito guadagna molto meno dei colleghi a tempo pieno. Questi ultimi, che non conoscono il mondo della professione, talora immaginano che il semplice fatto di essere professore consenta una rendita di posizione. Cosa non vera, o almeno non più vera. Il prof. avv. oggi è uno dei tanti avvocati. E, aggiungerei, anche dei tanti finti prof. avv., visto che del titolo fanno ormai uso e abuso anche i ricercatori e i docenti a contratto. Nessuno, che non sia un universitario, è in grado di distinguere un professore associato da un professore aggregato e neanche da un ordinario. Per non parlare, poi, dei nuovi straordinari a tempo definito.
@Ulrico e @ altri:
E’ vero,
gli abusi da me segnalati ci sarebbero anche se ci fosse il rapporto prof.sarto/dottorando, o prof. commercialista/dottorando.
Rientra nel potere degli ordinari di fare cose bellissime o cose bruttissime senza dover rispondere.
Però vedo prof. avv. che a causa del doppio lavoro trascurano i propri allievi, non gli correggono la tesi di dottorato ecc….
Vorrei fare, in ogni caso, delle riflessioni ulteriori:
1)L’insegnamento e la ricerca in campo giuridico hanno funzioni importanti anche a prescindere dalla professione.
Gli studenti possono benissimo imparare tanto dal metodo con cui il giurista affronta la questione a lezione.
Essi possono infatti apprendere che non esiste solo la norma, ma anche il fatto che essa vada interpretata sempre alla luce di tutte le disposizioni del sistema ecc…esiste la dottrina che fa riflettere su come deve essere interpretato quell’istituto giuridico in quel preciso contesto.
2) Tornando al rapporto professione/insegnamento,
Il legislatore, con i suoi complessi e le sue paure stupide ha vanificato il ruolo del giurista.
Infatti, l’art. 118, comma 3, disp. att. cod. proc. civ., vieta al giudice di citare “gli autori giuridici” nelle sentenze.
Così restano i pensieri dei giuristi ma non la riferibilità al giurista che ha esposto una tesi:
ecco azzoppato il prezioso contributo che la dottrina (formata soprattutto da prof. univ.), potrebbe dare ai processi, alle sentenze, ai giudici.
Ci sono avvocati che, nei loro atti, mettono “secondo autorevole dottrina”, e poi si inventano la tesi, tanto possono non nominarli.
Il giudice, dal canto suo, non è tenuto a verificare, in quanto, non potrebbe citare il nome del giurista, sconfessando la bugia dell’avvocato, in quanto non può citare autori giuridici.
Ecco che l’apporto scientifico del giurista sul processo è minimo.
Io ora non esercito come avv., ma fra un po’ dovrò incominciare per forza, visto che non ho più contratti con l’univ.
Mi rendo conto però che molti colleghi avvocati quando esercitano puntano molto su questioni processuali, si sollevano eccezioni processuali, sulla competenza, sulla giurisdizione, sulla notifica, e non vedo quasi mai confrontarsi avvocati sul DIRITTO SOSTANZIALE.
In questo senso, puntando solo sull’aspetto PROCEDURALE, l’apporto che può dare, in una lezione di DIRITTO SOSTANZIALE, un prof. avv. in quanto avvocato è minimo.
Mi sembra che Lei abbia le idee un po’ confuse su professione e scienza giuridica. E direi anche sulla storia del diritto, che spiega la norma che cita …
@Ulrico:
attendo Suoi suggerimenti.
L’art. 118 disp. att., c.p.c. è attualmente vigente. Può smentirmi?