1969. Nixon s’insedia a Washington, vola il primo Concorde, Cooley impianta il primo cuore artificiale, De Gaulle si dimette, premiati Beckett e Gell-Mann mentre nasce il Nobel per l’economia, un piede compie un grande passo per l’umanità, Woodstock, il Vietnam brucia e l’anno si chiude sinistramente come tutti sappiamo. Quell’anno Gabriello Illuminati (un chimico) e Paolo Sylos Labini (un economista) pubblicarono un saggio a due mani (G. Illuminati, P. Sylos Labini, PROPOSTE PER LA RIFORMA UNIVERSITARIA, Edizioni di Comunità, Roma, 1969) nel quale si proposero di tracciare le linee portanti di una possibile riforma del già allora vetusto Regio Decreto del 1933. Sappiamo come andò a finire. La riforma si ebbe, ma solo nel 1980, e molte cose su cui i due autori avevano sapientemente riflettuto, nell’ottica di uno studio ospitato in una collana pubblicata in collaborazione con la Fondazione Adriano Olivetti e non da un collettivo maoista, andarono fatalmente perdute. Questo estratto dell’opera, in particolare, si rivela di grande attualità e modernità in tempi in cui le cronache hanno riportato prepotentemente in luce la necessità di imbastire una riflessione sul ruolo del professore universitario in relazione al tempo che gli è consentito di dedicare ad attività che si pongono fuori dalla sua funzione e identità primaria. Buona lettura.
Il problema dei rapporti dell’Università con il mondo esterno è uno dei più difficili e delicati della riforma. Si tratta di eliminare i gravi abusi che oggi hanno luogo, senza tuttavia ledere i possibili molteplici benefici che certi rapporti fra Università e mondo esterno possono comportare. È infatti ben noto che, col pretesto di quei benefici, molti professori svolgono altre attività che richiedono un impegno tale da rendere impossibile uno svolgimento pieno o anche solo minimamente adeguato dei propri doveri.
È più che evidente che il ministro, il parlamentare, il dirigente di organismi pubblici o privati non può, neanche volendo, fare il professore sul serio: non può, finché dura il suo mandato o la sua attività direttiva, seguire gli studenti, dirigere ricerche e condividere tutti gli altri diritti «attivi» con gli altri colleghi. Al massimo, potrà fare, correndo da una parte all’altra, qualche lezione: il che è una misera caricatura di quel che deve essere l’attività di un docente.
Non meno gravi sono gli abusi derivati dalle attività private di tipo professionale, problema che investe, come è noto, particolarmente certe facoltà, tra cui Medicina, Giurisprudenza, Architettura e Ingegneria. Il problema probabilmente richiede soluzioni differenziate per facoltà, soluzioni che potrebbero essere specificamente perfezionate nell’ambito dei Dipartimenti in virtù dell’autonomia di cui dispongono. Chi scrive e, riteniamo, chi redige una legge generale vuole innanzi tutto mirare a sancire certi principi fondamentali.
A tal fine è opportuno distinguere tre casi di attività extrauniversitarie:
1) Attività politiche e attività di direzione e amministrazione di organismi pubblici e privati.
2) Attività professionali.
3) Attività di consulenza scientifica.
Non riteniamo neanche opportuno prendere in considerazione altre attività: va da sé che per qualunque altra attività estranea (ad es., commerciale) si tratta di evidente incompatibilità.
Per le attività del primo tipo, gli autori si dichiarano d’accordo con l’impostazione del progetto di legge 1969 e cioè che i professori in tal caso siano messi in aspettativa per tutto il periodo del mandato (art. 22, comma 10°). Siamo anche d’accordo sulla incompatibilità della libera professione con le funzioni di docente. Occorre tuttavia ben precisare che esiste un’attività professionale di «routine», a scopo di guadagno e di nessun interesse accademico, che non può essere autorizzata neanche se svolta nell’ambito di un Dipartimento.
La costruzione di una casa qualunque o una normale operazione di appendicite non sono certo attività che possono cointeressare il Dipartimento. Esiste invece un’attività professionale non di «routine» avente caratteristiche tali da giustificare interesse accademico, quale, ad es. i complessi problemi dell’urbanistica moderna che presuppongono studi originali e di interesse pubblico. A questo genere di attività professionale, per cui potrebbe essere estremamente utile il contatto degli studenti a tutti i livelli, dovrebbe essere cointeressato il Dipartimento, con motivazioni precise, da sottoporre all’approvazione del C.N.U. o del Ministero. Attività professionali secondarie come impegno ma importanti, quali i consulti clinici o altre attività di consulenza professionale a carattere sporadico potrebbero essere analogamente trattate con la semplice approvazione interna del Dipartimento e secondo compensi stabiliti dal Dipartimento e approvati dal C.N.U.
Ciò che il progetto di legge ignora completamente è la consulenza di ricerca scientifica. Ciò si spiega facilmente con il fatto che di consulenze di ricerca ve ne sono ben poche in Italia, paese industrialmente sviluppato ma culturalmente arretrato, tanto da essere del tutto sconosciute a molti uomini politici. Ma, guardando al futuro, e basandoci sull’esperienza di altri paesi dove la ricerca scientifica è altamente sviluppata, dobbiamo, non semplicemente tollerare, ma addirittura incoraggiare le consulenze di ricerca. Quindi qui non si tratta di combattere abusi, poiché tali abusi oggi, salvo eccezioni, non esistono.
Ma forse è il caso di illustrare brevemente che cosa intendiamo per consulenza di ricerca. È la prestazione di un esperto universitario in un campo specifico di ricerca a favore di un gruppo di ricerca industriale che può consistere in interventi di vario tipo, cicli di seminari e discussioni dei risultati della ricerca condotta dall’industria ovvero guida di una ricerca specifica (di base, non applicata) presso l’Università. Tutti questi interventi possono benissimo essere notificati al e concordati col Dipartimento. L’importanza della consulenza di ricerca come ora definita è evidente: è uno scambio culturale di alto livello che va in due sensi poiché è benefico non solo all’industria ma anche all’Università.
È chiaro che quando un progetto di legge si preoccupa di consentire «incarichi di insegnamento» presso le Accademie militari (art. 22, comma 5°), di assai dubbia utilità o necessità per entrambe le parti, a maggior ragione dovrebbe incoraggiare le consulenze di ricerca scientifica. Le consulenze di ricerca scientifica sono, per loro natura, prestazioni che impegnano un tempo ben definito e comunque limitato. Inoltre è ben difficile che uno stesso esperto sia chiamato da più di una industria per uno stesso tipo di prestazioni. Ma il Dipartimento, che è cointeressato nella prestazione, può e deve sempre limitare la prestazione stessa in modo da non compromettere il pieno adempimento dei compiti didattici e scientifici del docente universitario.
b) Indennità di pieno tempo
Mentre per le attività extrauniversitarie del primo caso (v. paragrafo precedente) il problema è convenientemente risolto con l’aspettativa, per i docenti «attivi» si pone il problema della indennità di pieno tempo. In base alle valutazioni date nel precedente paragrafo dei casi 2 e 3, non dovrebbe essere difficile trovare una soluzione adeguata del problema.
Proponiamo che venga attribuita una forte indennità di tempo pieno a tutti i professori di ruolo. Ciò ridurrà notevolmente la necessità di molti professori di cercare integrazioni economiche al di fuori dell’università. Lo Stato a questo punto può a buon diritto proibire categoricamente la libera professione di «routine», avente solo scopo di guadagno e consentire attività professionali nell’ambito del Dipartimento solo se di interesse accademico e in misura tale che il compenso aggiuntivo non superi, ad esempio, il 30% dell’indennità stessa (l’eventuale eccedenza andrebbe a beneficio del Dipartimento)[1].
Coloro che già esercitano o desiderano esercitare l’attività professionale senza essere soggetti a vincoli potranno stabilire un nuovo rapporto con l’Università (professori a contratto o associati).
Le consulenze di ricerca scientifica debbono essere consentite nell’ambito del Dipartimento, con le modalità concordate con il Dipartimento medesimo e in misura tale che il compenso aggiuntivo non superi, ad esempio, il 30% dell’indennità di tempo pieno.
I professori che hanno la carica di rettore, direttore di Dipartimento, o altre cariche accademiche, ovvero i membri del C.N.U. possono essere, su richiesta, esonerati dall’attività didattica. Nei casi in cui tali funzioni non comportano spostamenti dalla sede e pertanto l’attività didattica è possibile, è prevista una indennità di funzione cumulabile con i compensi delle prestazioni «extrauniversitarie» purché globalmente non superino, per esempio, il 50% dell’indennità di pieno tempo.
Ovviamente queste norme del tempo pieno sono puramente indicative. Importante è, da un lato, aver chiari i principi esposti nel 1° paragrafo e, dall’altro, computare l’entità dell’indennità di pieno tempo in misura adeguata. L’indennità prevista nel progetto, infatti, è una vera e propria beffa (v. il commento all’art. 23): essa corrisponde ad un aumento dal 10 al 20% della retribuzione totale effettiva e, in diversi casi, si traduce addirittura in una diminuzione dell’attuale retribuzione. Questa, tuttavia, è la conseguenza, probabilmente inevitabile, del troppo rapido incremento, previsto dal progetto, dei professori di ruolo (fino a 20.000 in quattro anni), non accompagnato dalla creazione di un figura intermedia – l’assistente al Dipartimento – che viceversa è uno stadio preliminare essenziale per l’addestramento didattico dei più giovani docenti.
Il Dipartimento è legalmente e moralmente impegnato perché non vi siano abusi riguardo alla regolamentazione del tempo pieno. Inoltre, ciascun professore è tenuto a fornire una relazione annuale sulla sua attività didattica e scientifica, nella quale dovrà anche specificare le attività professionali e di consulenza scientifica autorizzate dal Dipartimento, ovvero a dichiarare di non svolgere attività extrauniversitarie di qualsiasi genere. In caso di inadempienza, l’indennità è sospesa, con una qualche procedura che, naturalmente, deve essere posta in atto dal Dipartimento.
La relazione annuale deve essere resa pubblica nel Bollettino dell’Università; tale relazione è probabilmente una delle migliori garanzie contro gli abusi. Le relazioni annuali avrebbero un’importanza anche più ampia: attraverso tali relazioni tutti, a cominciare dagli studenti (che sono gli utenti dei servizi resi dai docenti) sarebbero messi in condizione di criticare con piena cognizione di causa l’opera svolta dai docenti e di valutare se effettivamente il docente dedica tutte le sue energie all’Università. Non si creda che una tale procedura parta da presupposti ingenui: i docenti sono intellettuali e come tali temono un giudizio pubblico che, se non operano con onestà, o in caso di provata falsa testimonianza sulle attività e sui fatti indicati nella relazione, può irrimediabilmente screditarli.
[1] Alcuni colleghi hanno criticato la norma del progetto governativo che consente lo svolgimento di alcune attività professionali nell’ambito del Dipartimento per i pericoli di abusi che una tale norma può dar luogo. Riteniamo che se le possibili autorizzazioni vengono circoscritte e condizionate nel modo indicato nel testo, questi pericoli possono essere fortemente ridotti.
* Tratto da G. Illuminati, P. Sylos Labini, PROPOSTE PER LA RIFORMA UNIVERSITARIA, Edizioni di Comunità, Roma, 1969, pp. 18-20.
Certo che è in vigore, anche se è una norma priva di sanzione, che intende affermare la soggezione del giudice soltanto alla legge, riproponendo l’antica polemica contro il diritto comune. Non è certo questa norma, tuttavia, che limita l’influenza della dottrina sulla giurisprudenza. Molte sentenze, anche della Cassazione, riportano per esteso brani tratti da scritti di giuristi e le opinioni dei giuristi hanno spesso avuto seguito nelle decisioni (pensi al danno biologico, ad es., o alla natura della responsabilità precontrattuale). Ma tutto questo non c’entra con le questioni di cui si discute, ossia se un bravo professore possa restare tale anche se esercita la professione di avvocato. Non ho mai negato quel che Lei scrive al punto 1), che però non contraddice la mia tesi: ci sono e ci sono stati ottimi e pessimi professori a tempo pieno e a tempo definito. Quanto alle eccezioni di rito, non dimentichi che molti dei prof. avv. insegnano diritto processuale civile. Non esistono solo i professori di diritto sostanziale. E, comunque, anche i professori di diritto sostanziale, quando fanno gli avvocati, possono, del tutto legittimamente, sollevare eccezioni di rito, senza con ciò svilire o smentire la loro attività di ricerca scientifica. Poi, se vogliamo dire che ci sono troppe decisioni su questioni di rito, che spesso sono cavilli, sfonda una porta aperta. Ma è un problema per nulla nuovo.
Ulrico:
La sanzione dovrebbe essere disciplinare per il giudice che nomina un autore giuridico.
Non nominare l’autore di una particolare dottrina significa svilire il lavoro della dottrina, perché chi legge la sentenza si chiede “chi è?”; “dove lo posso trovare?”; “perché è tutto così incompleto?”
E’ come fare un figlio e chiedere l’anonimato: ci può stare, ma manca qualcosa di determinante.
In più, viene leso il diritto di difesa di cui all’art. 24 cost.:
Come faccio a contestare quella tesi se non so da quale autore proviene e, non potendo verificare, non posso sapere se è stata riportata fedelmente o no?
Come posso verificare la reale intenzione dell’autore, il suo reale pensiero dietro a quelle 10 righe scopiazzate?
CMQ, Mi fa piacere che Lei è d’accordo con me sul punto 1.
In ogni caso, io noto che si riflette sul rapporto avv./univ., ma mai sull’importanza della ricerca giuridica, cioè sul contributo che l’univ. può dare al mondo esterno, anche quello delle professioni.
Secondo me, poter nominare l’autore giuridico può stimolare il dibattito, accenderlo e farlo vivere:
ecco che la scienza giuridica entra nel vivo, ecco che si “studia”, invece di fare COPIA/INCOLLA con la massima o con un passo delle sentenza.
Ci sono delle sentenze emesse da tribunali sez. civili, riguardanti il diritto finanziario, nelle quali, il giudice, non avendo mai studiato la dottrina e scritti di giuristi che si sono occupati di diritto finanziario, ha scritto cose errate e allucinanti.
Questo perché c’è l’abitudine di non consultare il lavoro di chi fa ricerca giuridica, l’importante è mettere “cass., sez.”, senza mai sviluppare un dibattito.
Inoltre, sarebbe interessante anche far entrare l’esame di stato per avv. all’interno dell’Univ., come in altre discipline es. farmacia ove l’esame di stato si sostiene all’interno della fac. di farmacia ecc…
Quello che sto dicendo è che, ad oggi, manca un effettivo collegamento tra univ. e prof. di avv.
La ricerca giuridica, non venendo considerata nei tribunali (nelle sentenze bisogna omettere il nome del giurista), perde un ruolo importantissimo.
Per l’avvocato e per il giudice vale il discorso “l’ha detto la Cass., e io faccio copi incolla”.
Ci sono giuristi tosti che riescono, con un discorso semplice e coerente con le norme del sistema, a fare a pezzi anche una sentenza della cassazione,
ma dato che la dottrina non “va di moda” (e ho spiegato perché),
essa viene deliberatamente trascurata e con essa il lavoro fatto nelle università dai giuristi:
ecco la frattura tra pratica e teoria.