Tanti anni fa mi iscrissi a Lettere. Fu un’avventura emozionante: si andava a lezione, per ascoltare i maestri, con la devozione di un comunicando. C’erano anche allora, certo, come oggi, docenti inadeguati o pigri o tromboni. E c’erano i privilegi baronali contro cui il Sessantotto giustamente si scatenò, ottenendo però solo di sostituire una generazione di baroni con i baronetti della successiva. Ma la cultura, le discipline, il pensiero, i classici erano come circonfusi di un’aura sacrale, la stessa che quattro secoli prima induceva Machiavelli a indossare abiti curiali prima di metter mano e prestare orecchio ai grandi del passato. E i professori meritavano comunque un rispetto che era frutto di gratitudine e di disponibilità all’ascolto: tutti, pure i professori di liceo, anch’essi a quel tempo protagonisti della vita pubblica e della cultura cittadina.< Con lo stesso entusiasmo aspiravo alla mitica carriera universitaria e, un anno dopo la laurea, la intrapresi. Si trattava di scegliere un mestiere che consisteva nel dedicarsi con altrettanta passione all’insegnamento e alla ricerca, a coinvolgere aule gremite tentando di trasmettere non solo nozioni e metodi ma valori (quelle astrazioni con la maiuscola come verità bellezza libertà giustizia cui mi ostino malgrado tutto a credere) e a coltivare nello stesso tempo l’etica della ricerca, quella curiosità conoscitiva e quel pungolo intellettuale che il rigore, lo scrupolo, la dedizione consolidano, affinano, offrono in forma di documentate analisi e originali contributi alla comunità degli studiosi.

L’apprendistato di noi giovani assistenti godeva inoltre di un’altra preziosa risorsa: la quotidiana vicinanza o meglio l’amicizia che ci legava e che favoriva lo scambio intellettuale, l’ininterrotta conversazione in cui – tra una facezia e un ragguaglio – fermentavano idee. Anni felici, anni perduti. Non ci accorgevamo, mentre discutevamo di Bergman o di Berlinguer, di Boiardo o di Baggio, che l’edificio intorno a noi stava lentamente franando, sì che quando saremmo diventati a nostra volta docenti ci saremmo trovati con stupore in un altro edificio, tanto diverso e lontano da quello in cui ci illudevamo di abitare.

Eccolo: una professionalità mortificata, mal retribuita e precipitata nei sottosuoli della gerarchia degli status sociali e soprattutto dei valori correnti, una ricerca di cui non importa nulla a nessuno a meno che produca beni facilmente smerciabili o comunque finanziabili da un imprenditore a cui tornino utili, un insegnamento ridotto a pacchetti di nozioni frammentarie e perciò alienabili in moduli e crediti per studenti sempre più smarriti e confusi, una imposizione di mansioni meramente burocratiche che ormai assorbono il più del tempo (e sovente, ahiloro, degli interessi e delle aspirazioni) di docenti ridotti a passacarte, a nostalgici travèt.

Questa, oggi, l’università. Questa l’università che – in un paese che non investe nell’istruzione perché non crede nel futuro e perciò non ha futuro – ha sbarrato le porte a due o tre generazioni di giovani brillanti e meritevoli, tutti esclusi per mancanza di reclutamento. E così il cuore e il senso dell’Accademia, ovvero la trasmissione di saperi da maestro ad allievo, la “scuola” che intorno a un docente appassionato riunisce collaboratori e discepoli che aspirano ad avvicendarglisi in quella missione, si son persi nel vano balbettìo di un reparto geriatrico, in cui combattenti e reduci dai cinquanta ai settanta altercano tra loro, contendendosi la sedia davanti alla tv.

No, non appartengo a questo mondo. E con me tanti che ancora si illudono della sua perfettibilità e vi s’impegnano tuttora con amore e intelligenza. Spero che la mia amarezza non li irriti, né suoni oltraggiosa nei confronti dei loro nobili sforzi; ma non voglio nemmeno costringerli, come gli orchestrali del Titanic che affonda, ad ascoltare un giorno, nel fragore del naufragio, il mio: “Signori, è stato un onore suonare con voi, stasera, per l’ultima volta”.

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22 Commenti

  1. “un reparto geriatrico, in cui combattenti e reduci dai cinquanta ai settanta altercano tra loro, contendendosi la sedia davanti alla tv”

    Immagine azzeccata. Ma hai dimenticato gli ultrasettantenni, ovvero i cosidetti “emeriti” che continuano a mendicare un modulo da 6 crediti.

  2. “L’apprendistato di noi giovani assistenti godeva inoltre di un’altra preziosa risorsa: la quotidiana vicinanza o meglio l’amicizia che ci legava e che favoriva lo scambio intellettuale, l’ininterrotta conversazione in cui – tra una facezia e un ragguaglio – fermentavano idee. Anni felici, anni perduti”

    E’ proprio questo tipo di apprendistato che avremmo dovuto superare. Prima di tutto con un sistema in cui il giovane futuro docente non abbia e non dipenda da un solo Maestro, ma sia costretto a cambiare luogo di studio e maestri già nel passaggio dalla laurea al dottorato, e poi nel pssaggio dal dottorato ad una posizione “postdoctoral”, per essere assunto infine da chi non abbia partecipato alla sua formazione e non sia a lui legato dalla amicizia (ma anche dipendenza) profonda che lega un maestro ai suoi allievi. Non riusciremo mai a superare i favoritismi nelle assunzioni se non ci rendiamo conto che (a parte i casi di nepotismo e di vero e proprio imbroglio) i favoritismi e le ingiustizie si consumano in perfetta buona fede e sono proprio causate dai rapporti di amicizia, devozione, riconoscenza che si sviluppano tra maestro e allievo, e che spesso appaiono produttivi anche sul piano scientifico. Il “codazzo” di allievi finisce per trasformarsi in una fila d’attesa ordinata per anzianità, perché qualsiasi scavalcamento del criterio di anzianità, finirebbe per distruggere quella atmosfera incantata tra maestri e allievi così efficacemente descritta dal prof. Di Grado. Ne segue che nemmeno all’interno della stessa scuola si riesce a fare una selezione di merito.

    • Concordo anch’io.
      Da tempo sono convinta che l’unico modo per scardinare questo assurdo circolo vizioso, sia imporre “per legge” che non si possa frequentare un dottorato nella stessa sede, meglio ancora nella stessa citta’, del corso di studi, che non si possa avere un assegno nella stessa sede del dottorato.

      Ma i primi ad opporsi sono proprio dottorandi ed assegnisti. Tempo fa scrissi qualcosa del genere in un blog di precari della ricerca e scatenai solo reazioni negative. D’altra parte siamo pur sempre la nazione in cui si esce di casa a trent’anni suonati, non c’e’ da stupirsi.

      E va anche detto che al momento l’arretratezza del sistema e dei nostri docenti di ruolo e’ tale che un curriculum costituito da esperienze in sedi diverse non solo non viene valorizzato, ma addirittura viene penalizzato perche’ “evidentemente” il candidato non ha saputo farsi “benvolere” da qualcuno nella sede d’origine…

  3. Da sempre sento i vecchietti lamentarsi dei tempi andati.

    “Una ricerca di cui non importa nulla a nessuno a meno che produca beni facilmente smerciabili o comunque finanziabili da un imprenditore a cui tornino utili”

    Come si fa a scrivere queste cose. Io, come molti colleghi, faccio ricerca di base, la quale non e’ di diretto interesse per l’impresa, ma che comunque interessa a diverse persone nel mondo.

    “Un insegnamento ridotto a pacchetti di nozioni frammentarie e perciò alienabili in moduli e crediti per studenti sempre più smarriti e confusi”

    Come si fa a scrivere queste cose. Io, come molti colleghi, non insegno cosi. E non mi sembra che gli studenti siano smarriti e confusi.

    Mi dispiace, sono in COMPLETO DISACCORDO.
    I (pochi) docenti universitari della mia generazione sono, in media, MOLTO ma MOLTO meglio dei (molti) docenti universitari del passato (quelli entrati con la famigerata legge del 1980), sia come ricerca che come didattica.

  4. “una ricerca di cui non importa nulla a nessuno a meno che produca beni facilmente smerciabili o comunque finanziabili da un imprenditore a cui tornino utili” …. no questo è quello che qualcuno vuole farci credere attenzione che non è così, anch’io come Luca, col quale concordo completamente, mi occupo di ricerca di base e l’interesse per queste ricerche c’e’ eccome. Quanto agli studenti, da anni io insegno a ingegneria, non sono affatto smarriti o confusi, semmai seccati da una barocca burocrazia del CFU per cui a volte devono perdere tempo a raccogliere un credito qui e uno la, ma normalmente una volta laureati sanno quello che fanno e sono assorbiti abbastanza presto. Capisco che il problema però può essere diverso per le scienze umane le cui lauree sono certamente meno “vendibili” nell’attuale processo di mercificazione della conoscenza.

  5. Mi spiace che non abbiate avuto questa bella esperienza di crescita comune e di scambio culturale quotidiano.
    Mi spiace che al rapporto coi maestri, che ha fatto la storia del pensiero, delle arti e delle scienze, preferiate il turismo culturale; e che al loro giudizio (spesso ingiusto,per carità) preferiate quello strampalato dell’ANVUR.
    Mi fa piacere, viceversa, che le vostre ricerche trovino adeguati finanziamenti. Ma vi sfido a trovare un imprenditore, un ente pubblico o una multinazionale vogliosi di finanziare ricerche su Petrarca o su Piero della Francesca o su Spinoza…
    Infine vorrei invitare l’arrogante liquidatore dei “vecchietti”, che mi scambia per un laudator temporis acti, a interrogare i miei studenti, con cui sperimento da anni forme di didattica innovativa e interattiva, e i miei allievi e collaboratori, ai quali -ormai quasi quarantenni!- purtroppo posso trasmettere solo la mia passione perché l’università chiude loro le porte (così come a tutti i giovani brillanti laureati nelle facoltà umanistiche).

    • E chi l’ha detto che non abbiamo avuto una bella esperienza di crescita comune e di scambio culturale? La abbiamo avuta però in contesti diversi Per me prima di tutto a UCLA come studente del dottorato, sotto la guida di un “Maestro”, e poi allo MIT come “junior faculty” lavorando in collaborazione con miei coetanei provenienti da sedi diverse. Infine la “storia del pensiero delle arti e delle scienze” è stata fatta anche da “clerici vagantes”. E poi chi ha parlato dell’ANVUR? Chi ha sminuito il ruolo di un maestro? Certamente nella comunicazione e apprendimento di un’attività creativa valgono anche e soprattutto gli affetti e i sentimenti. Chi se non un vero Maestro può comunicare, ad esempio, la curiosità matematica e l’apprezzamento della eleganza dei risultati? Altra cosa è il giudizio comparativo sulle persone, che non può che essere espresso dalla comunità scientifica di appartenenza e non dovrebbe essere influenzato dai sentimenti di devozione e gratitudine. Per il “Maestro” è comunque sempre un vanto che la comunità scientifica riconosca il valore di un allievo. E l’allievo manterrà sempre sentimenti di gratitudine per un vero “Maestro”. Ma il riconoscimento del valore scientifico di un giovane deve venire da fuori dall’ambiente in cui si è formato.

    • Non penso che tra quanto dice Figà Talamanca e quanto sostiene Di Grado ci sia contraddizione. E’ un dato che la ricerca e i bravi ricercatori si sono formati (quasi sempre) attraverso l’appartenenza a una ‘scuola’ (mettiamola così, invece di dire ‘maestro’), all’interno della quale si sono acquisiti gli strumenti fondamentali del mestiere, ma anche la passione per la ricerca e l’amore per il sapere. Ma è altrettanto indubbio che sono necessari sistemi di accertamento della qualità del ‘discepolo’ ad evitare i possibili e umanissimi errori dei ‘maestri’. Una volta questo avveniva mediante una graduale e distribuita selezione all’interno della comunità scientifica: mediante le recensioni, i congressi, i dibattiti e infine un ‘concorso’ che era il risultato che finiva per sanzionare e certificare, da parte della comunità scientifica, la qualità dell’allievo formatosi all’interno di una scuola; e che doveva essere in grado di evitare il nepotismo e il giudizio esclusivo del ‘maestro’. La questione è che oggi si è capovolto il rapporto sicché il fatto di accedere anche ad un assegno essendo “discepolo di…” è stato fatto passare nell’opinione pubblica come un inqualificabile atto di malcostume clientelare, assumendo che l’ammissione all’università debba essere gestita allo stesso modo in cui si fanno i concorsi per postino. E con ciò eliminando del tutto quel rapporto tra scuola-allievi che ha sempre formato il nerbo della trasmissione del sapere scientifico. Il problema è trovare un giusto equilibrio tra queste due esigenze; e non mi pare che l’Anvur (tanto per citare l’incubo ricorrente) stia procedendo in questo senso, o che almeno costituisca un rimedio ai mali che si sono rivelati negli ultimi decenni di gestione dissennata dei concorsi universitari.

  6. La dequalificazione delle materie umanistiche è stata spesso opera di umanisti che hanno smesso di credere in quello che facevano per correre dietro alla demagogia e alle mode. Manca totalmente una riflessione autocritica su questo punto.

  7. indrani maitravaruni: verissimo molta dequalificazione è nata dai vari nipotini del dams (storia della danza, cose così).

    Detto questo, proprio per la scarsità di mezzi le materie umanistiche possono permettersi di premiare il merito. Di Petrarca o Spinoza a livello di ricerca si occuperanno (quasi) sempre e solo i bravi e motivati, non certo chi vuol denaro e potere — semplicemente perché costui sa che lì non ne troverà.

    Insomma io sono per un sano umanesimo pauperista.

  8. No. Molti studenti non si iscrivono più a Lettere per mancanza di prospettive.
    Alcuni bravissimi e appassionati dopo la laurea e il dottorato fanno altro perché non riescono a sopravvivere.
    La scarsità di mezzi aizza feroci lotte che non premiano i più meritevoli ma quelli attaccati ai carri migliori e sono comunque pochissimi.

  9. Non conosco il Prof. Di Grado; faccio parte di una generazione e di un’area di studi diverse dalle sue. Condivido però il senso del suo intervento e mi associo alle sue parole. Non sono in sintonia con la vena critica nei confronti del “vecchio” nostalgico, asseritamente incapace di comprendere i mutamenti del “nuovo” che avanza. Sarebbe meglio evitare fraintendimenti: il richiamo al rispetto della tradizione e delle radici generazionali della propria identità culturale non è misoneismo, così come la volontà di innovazione non è (non può essere) rottamazione della storia e della memoria, né supino adeguamento a mode globali spesso effimere. Su questo siamo – credo – d’accordo. Nel mio SC (area giuridica) molti rilevano, ad esempio, un abbassamento negli ultimi anni della qualità media e del tasso di originalità delle monografie e una drastica e parallela riduzione di figure-guida in grado di segnare percorsi di ricerca innovativi (i maestri di un tempo). Forse in altri settori non è così; forse in altri settori si fa ricerca e didattica molto migliori di un tempo. Proprio per questo non sarebbe giusto generalizzare, ma neppure negare in assoluto che le considerazioni del Prof. Di Grado possano rispondere alla realtà, di oggi e non solo di ieri, in larghi ambiti (e non di serie B) della ricerca scientifica in Italia, dove “ricerca scientifica” sta anche per letteratura, storia, filosofia, diritto, etc., checché ne pensino alcuni ideologi (si fa per dire) della non commestibilità della cultura. Non mi riferisco certo a coloro che sono intervenuti con passione e onestà intellettuale in questo dibattito, ma a posizioni espresse in sede politica, riprese in alcuni tentativi di “divide et impera” che si sono sperimentati negli ultimi anni, tesi a disarticolare l’unità di intento della conoscenza scientifica separando nettamente i mondi del “bibliometrico” (scienze dure) e del “non bibliometrico” (scienze umane). Occorre non cadere nella trappola dell’incomunicabilità tra mondi che non sono due, ma uno.

  10. Mi associo al commento di Jus. La fine delle scuole non è di per sé fenomeno positivo. Positivo sarebbe stato ampliare i centri di sapere o crearne di nuovi per impedire che solo le persone appartenenti a quelle scuole avessero serie speranze di iniziare e proseguire una carriera universitaria. Non è stato così: la scelta di ridurre i finanziamenti fa sì che i nipotini di quei maestri, non di rado più cattivi e -sempre- meno preparati, oggi gestiscano le briciole residue di un mondo morente fingendo che dopo di loro non esisterà più nulla.

  11. “Non riusciremo mai a superare i favoritismi nelle assunzioni se non ci rendiamo conto che (a parte i casi di nepotismo e di vero e proprio imbroglio) i favoritismi e le ingiustizie si consumano in perfetta buona fede e sono proprio causate dai rapporti di amicizia, devozione, riconoscenza che si sviluppano tra maestro e allievo, e che spesso appaiono produttivi anche sul piano scientifico.”

    concordo con il Prof. Figà Talamanca, ma vorrei aggiungere che il nepotismo, il familismo e la (ri)conoscenza personale non inquinano solo assunzioni e progressioni di carriera, ma anche la stessa ricerca, come ricordato qui sopra da indrani maitravaruni.
    Credo sia chiaro a tutti che ormai il finanziamento per la ricerca si può ottenere solo attraverso progetti per i quali la competizione diviene acerrima. Questo porta alla creazione di cordate sempre più forti e più grandi (credo con la soddisfazione del ministro Profumo), capaci di incamerare gran parte dei (minimi) finanziamenti nazionali e lottare alla pari sul piano continentale.
    Peccato però che questo processo di “aggregazione verso la massa critica” procede solo e sempre per vie di rapporti personali, amicali, nepotistici. Favorire le interazioni di conoscenze già stabilite, senza nessun interesse ad ampliarle verso altri ricercatori sconosciuti, ma bravi non fa altro che impoverire le potenzialità della nostra ricerca (cosa potrò scoprire di veramente nuovo se collaboro sempre e solo con le stesse persone?).
    La prospettiva è che in Italia perderemo moltissime competenze e capacità non per demeriti scientifici, ma solo per la incapacità di “inserirsi” nella famiglia giusta….

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