Il paradosso dell’età dell’oro della scienza, che in teoria stiamo vivendo in questi anni, è il seguente: viene oggi pubblicata la maggiore quantità di ricerca mai vista prima da parte del maggiore numero di scienziati mai esistito, ma il risultato è che questa enorme massa di articoli sta effettivamente rallentando il progresso della scienza. Ci sono troppi articoli da leggere e da assorbire, le riviste nei campi più popolari citano di meno i nuovi lavori e incensano di più gli articoli già altamente citati. Gli autori dello studio che segnaliamo qui di seguito, basato  sull’analisi di 1,8 miliardi di citazioni da parte di 90 milioni  di articoli in 241 campi scientifici differenti, concludono che :

 

“troviamo che un diluvio di articoli non porta al ricambio delle idee centrali in un campo, ma piuttosto all’ossificazione del paradigma dominante. Gli studiosi dei campi in cui vengono pubblicati molti articoli ogni anno hanno difficoltà a farsi pubblicare, leggere e citare, a meno che il loro lavoro non citi articoli già ampiamente citati. I nuovi articoli che contengono contributi potenzialmente importanti non possono raccogliere l’ attenzione di tutto il campo attraverso processi graduali di diffusione. Questi risultati suggeriscono che il progresso fondamentale può essere ostacolato se la crescita quantitativa degli sforzi scientifici – numero di scienziati, istituti e articoli – non è bilanciata da strutture che incoraggiano lo studio innovativo e concentrano l’attenzione su idee nuove.”

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5 Commenti

  1. Mi pare la conseguenza naturale dell’aver trasformato la ricerca (ed in particolare gli articoli) in “prodotti della ricerca” da valutare e vendere un tanto al chilo (o da farne “trasferimento tecnologico”). Condizione essenziale di un prodotto è essere intercambiabile con altri, quindi: fondamentalmente non originale.

    Si aggiunga la pressione verso la “scienza applicata”, che spinge a seguire filoni con frutti rapidamente applicabili e numerosi, quindi a portata di mano, quindi di basso valore a lungo termine: i quali, di conseguenza, prima o poi sarebbero state comunque trovate senza sforzo da Tizio, Caio, o più probabilmente, dalla multinazionale Sempronia.

    Insomma mi pare che le frustate della politica da bottegai, anziché spronare la ricerca, l’abbiano fatta impuntare, e con essa il progresso.

  2. -When the number of papers published per year in a scientific field grows large, citations flow disproportionately to already well-cited papers-
    Questo fenomeno potrebbe anche essere naturale conseguenza della sempre maggiore difficoltà di leggere e citare tutto lo scibile su un dato argomento magari esploso in vaste comunità scientifiche come quella cinese.
    Conseguentemente, la crescita del numero di pubblicazioni è inversamente proporzionale alla probabilità che una pubblicazione sia citata [24].
    Ci si affida nelle citazioni a review, che invecchiano velocemente, ad articoli pioneristici di decenni prima come punto di partenza, ed ad alcuni selezionati articoli recenti, a partire dai propri che sono i migliori.

    [24] https://www.roars.it/a-proposito-dellarticolo-sul-doping-citazionale-apparso-su-plos-one/#comment-70499

  3. L’ossificazione dei paradigmi dominanti non mi pare una novità. A me pare una novità allarmante la dimensione ipertrofica di tale ossificazione, che oggi è probabilmente la conseguenza di anni in cui la ricerca su committenza, quella finanziata da Call competitivi in cui a decidere su cosa fare ricerca è la politica o l’impresa, ha eliminato ogni altro finanziamento “ordinario”. Per finanziamento ordinario alla ricerca intendo quelle buone pratiche di finanziamento alla ricerca libera, senza condizioni relative al tema su cui esercitarsi. Da noi si chiamavano, ad es., ex 60%. Vennero additate al pubblico ludibrio come pratiche sprecone e corruttogene, ma invece garantivano quel tasso di “scoperta”, di creazione di nuove idee che oggi latita. E in più, rispondevano al dettato costituzionale, che dispone la tutela della “libertà” di ricerca.

  4. Secondo me e’ proprio l’idea che il principale “prodotto della ricerca” siano gli articoli su rivista a dover essere messa in discussione.
    Migliaia di articoli che non dicono nulla di davvero innovativo, un ricercatore dovrebbe perdere 3 mesi ogni anno solo per leggerli tutti. E sarebbe tempo perso, in rapporto al poco “succo” che da tale lettura si estrae.
    A mio avviso i reali risultati innovativi e di valore della ricerca van cercati altrove. A seconda del settore scientifico, abbiamo ad esempio:
    – software, sia “open source” che “chiuso”.
    – prodotti multimediali (audio, video, realta’ virtuale)
    – data set derivati da campagne sperimentali, su cui altri scienziati possono verificare le loro teorie
    – brevetti
    Trovo fondamentalmente obsoleto il modello di pubblicazione su rivista tramite “peer review” come unica misura dei risultati della ricerca.
    In un mondo dominato dai social network, i ricercatori dovrebbero semplicemente mettere in rete i risultati delle ricerche, ed aprirsi ad un confronto pubblico sugli stessi, con un meccanismo di apprezzamento o contestazione anch’essi pubblici.
    Se sviluppo un nuovo algoritmo, non devo piu’ scrivere un articolo volutamente criptico che renda difficile per chi lo legge metterlo in pratica.
    Debbo invece rendere disponibile il codice di calcolo, assieme ad una serie di dati su cui provarlo, e ad una chiara spiegazione di come funziona e come va usato.
    Ovviamente un tale approccio aperto richiede di rivedere completamente le attuali regole su copyright, brevetti, e lo stesso abnorme concetto di “proprieta’ intellettuale”.

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