Uno dei principali capi d’accusa che negli ultimi tempi è stato mosso all’università è quello di praticare il cosiddetto “nepotismo”, per sconfiggere il quale è stata addirittura varata la riforma Gelmini. Sarebbe forse il caso di svolgere in merito alcune considerazioni che mi paiono necessarie se si vuole affrontare tale questione al di fuori delle campagne giornalistiche e dei titoli scandalistici. Innanzi tutto ritengo che bisogna essere cauti nella valutazione dell’estensione e del radicamento del fenomeno, per evitare di incorrere nello stesso inconveniente denunciato da Diagora l’Ateo, raccontato da Cicerone. Quando l’antico filosofo scettico visitò l’isola di Samotracia, un amico, mostrandogli le tavolette votive appese nel famoso tempio del dio Poseidone – protettore dei naviganti –, gli fece notare criticamente: “Tu che non credi nella provvidenza divina, che cosa ne dici di tutti questi ex voto che naufraghi, scampati al pericolo, hanno qui deposto?”. Al che Diagora gli rispose: “Avviene proprio così; infatti i naufraghi che sono annegati non han potuto appendere le loro tavolette in qualche posto”.
Questo episodio – che andrebbe raccontato a tutti i giovani studenti di statistica come, diciamo, “sindrome di Poseidone” – mette in luce un fatto assai importante: a non fidarsi dei casi singoli, della fenomenologia d’accatto, delle narrazioni delle malafatte che, appunto per il loro carattere impressionistico in grado di sollecitare l’indignazione morale per i singoli casi di ingiustizia, fanno tanto effetto. Ad importare veramente è il rapporto tra casi positivi e casi negativi, ovvero l’incidenza percentuale dei casi di nepotismo su quelli in cui esso non ha luogo. Ed ovviamente quando parlo di nepotismo, lo intendo nel senso tecnico del termine, non per riferirmi al ben più complesso e spinoso caso del rapporto maestro-discepolo (senza legami parentali), sul quale ho già espresso in passato la mia personale opinione.
Ma anche qualora si dovesse prestare fede agli studi di Perotti e Allesina sulla diffusione del nepotismo nell’accademia italiana, cosa che richiederebbe un’analisi ad hoc, mi pare che si sia ancora alla semplice constatazione del fenomeno, che richiede ancora una sua spiegazione e comprensione, perché, come afferma Spinoza, bisogna “non ridere, non lugere, neque detestari, sed intelligere”. Con ciò certo non voglio sostenere che il fenomeno del nepotismo è inesistente o che sia da prendere sottogamba. Niente affatto. Ritengo solo che debba essere inquadrato in un contesto più ampio, per evitare che esso diventi semplicemente un casus belli per la destrutturazione e la delegittimazione dell’università e per giustificare politiche quali quelle messe in atto da un decennio a questa parte.
E allora – sulla base dell’esperienza personale che ciascuno può avere, perché anche in questo caso mancano delle ricerche effettivamente attendibili – bisogna innanzi tutto chiedersi se il livello di nepotismo esistente all’università sia maggiore di quello che possiamo riscontrare in ogni altra istituzione pubblica (ma anche privata). La risposta sarebbe oltremodo facile: in qualunque comune, provincia o ente “partecipato” il nepotismo è assai più radicato e diffuso che nel mondo accademico, favorito dalla destrutturazione del sistema pubblico dei concorsi, sostituito (specie nelle “partecipate”) dalla chiamata diretta mediante contratti precari, poi stabilizzati e resi a tempo indeterminato. A qualche collega universitario non viene in mente nulla sulla base delle propria esperienza? E da questo punto di vista il mondo universitario resta ancora un’isola felice – metaforicamente parlando – in quanto in esso gran parte del personale docente (almeno nelle discipline meno succulente, come quelle umanistiche) è ancora assunto “per merito”. Certo, da una istituzione come l’università ci si aspetterebbe un “rendimento meritocratico” più elevato di quello di una comune istituzione pubblica, ma per ottenere tale risultato occorrerebbero delle condizioni al contorno ben più significative degli espedienti regolamentari.
E con ciò arriviamo all’ultima considerazione da fare – più importante perché tocca alcune questioni di fondo non solo dell’università, ma del “sistema Italia”. Per introdurre la questione, domandiamoci perché in altri paesi industrialmente avanzati (quelli con i quali – quando fa comodo – ci piace confrontarci) tale fenomeno del nepotismo sembra meno rilevante che in Italia (o non viene posto con altrettanta urgenza). Un docente universitario americano, ad es., si metterebbe a sgomitare per far entrare il proprio figlio all’università, specie se questi ha altre aspirazioni? No di certo: se questi vuol fare l’ingegnare o l’avvocato è molto più facile fargli fare una buona università e quindi lasciargli esercitare la professione nel settore privato: guadagnerebbe molto di più e avrebbe di certo più soddisfazioni. Qui il sistema economico e la struttura sociale sono abbastanza vivaci e aperti (ricordate la “società aperta” di Popper?) per permettere una facile collocazione al di fuori delle mura protettive dell’accademia, nella quale decidono di rimanere coloro che hanno più la passione per la ricerca e meno per i guadagni.
Ma è questa la situazione italiana? Da noi abbiamo una economia stagnante, con un altissimo tasso di disoccupazione giovanile; una società ingessata e sempre più corporativizzata (con il notaio che fa figli notai, e così via); un sistema politico che si è sempre più “castificato” e che ormai va tranquillamente verso la propria autoriproduzione eterna; con ascensori sociali che sono stati praticamente annichiliti (e ormai non mancano le denunce in merito). Insomma abbiamo un sistema sociale e un’economia che non innova (e in ciò v’è la ragione di fondo della mancata esigenza di un alto numero di laureati e dei mancati investimenti in ricerca e sviluppo), che mette ai margini competenze e incompetenze. In queste condizioni si alimentano e si amplificano i mali ampiamenti diagnosticati nella letteratura (familismo amorale ecc.) e in particolare vengono esaltati gli egoismi sociali: chi ha una posizione di potere, sia pur esso un micro-potere, cerca di sfruttarlo come può, innanzi tutto per garantire se stesso arraffando quanto più gli è dato fare e quindi per assicurare ai propri figli una condizione minima di sopravvivenza, che li metta al sicuro da un incerto futuro.
Il professore universitario – il “barone” – non è estraneo a questo generale clima sociale e di conseguenza ne riproduce, nel solo ambiente in cui ha un riconosciuto e sempre più residuale potere, i meccanismi: il nepotismo non è che il frutto di questa generale patologia della società italiana. Ed è quest’ultima che bisogna combattere con tutta la propria forza. Hanno scarsa efficacia, invece, gli appelli alla redenzione morale, le denunce giornalisticamente efficaci, i “regolamenti etici” che si sono dati le università, come anche i vincoli burocratici e normativi di cui è gran dispensatrice l’Anvur al fine di moralizzare concorsi e rendere virtuosi i comportamenti dei docenti universitari. Quando si tratta di sopravvivenza, le logiche spietate dell’evoluzione, il “genio” egoista, finiscono sempre per avere il sopravvento e si può essere sicuri che si troveranno i modi per poter comunque continuare a fare quel che si è fatto.
Se vogliamo dunque parlare seriamente di nepotismo, ed affrontarlo per quel che è, non nascondiamo la testa sotto la sabbia delle facili denunce e delle populistiche indignazioni morali, ma guardiamo in faccia la situazione per quella che è. Magari i nostri sogni notturni ne saranno un po’ turbati, ma almeno ci si metterà sulla buona strada se non per eradicare del tutto e miracolisticamente il male, almeno per compiere un primo passo col diagnosticarlo con maggiore accuratezza.
Della serie:
l’economia va male e tengo famiglia.
In sintesi qui si sostiene l’argomento “è colpa della società”.
Nope.
A me piuttosto sembra che sia: visto che il nepotismo
esiste ma è nettamente inferiore al resto della società
ALLORA il nepotismo non è un argomento valido per
diminuire del 20 per cento i soldi all’Università e
smantellarla senza creare niente. Non nascondiamoci
dietro a falsità. Se il nepotismo fosse talmente pervasivo
da obbligarci a smantellare tutto allora
non ci sarebbe il miracolo italiano sulla ricerca riportato nei giornali stranieri (vedi i dati riportati da .Giuseppe De Nicolao nella mail successiva in risposta ad Angel).
Filippo Mignosi
E’ un problema culturale piu’ profondo e radicato, che va ben al di la’ del ciclo economico e non riguarda solo la Pubblica amministrazione. Riguarda piu’ in generale la visione che molti popoli latini hanno della ‘famiglia’.
Più che altro non capisco dove vuole arrivare questo articolo. Se si scoprisse che il problema del nepotismo è meno esteso nell’università piuttosto che negli enti locali, cosa dovremmo fare? Compensare il ritardo e assumere tutti i nostri nipoti a carico dell’erario?
Poi, lo sanno tutti, il fenomeno nell’università è in realtà molto esteso e assume caratteristiche particolarmente odiose, spesso si trovano famiglie intere che condizionano lo stesso settore scientifico-disciplinare. Ora ci manca solo il biologo che associ un gene allo specifico settore disciplinare, in Italia non sarebbe stupefacente…
Angel: “Più che altro non capisco dove vuole arrivare questo articolo. Se si scoprisse che il problema del nepotismo è meno esteso nell’università piuttosto che negli enti locali, cosa dovremmo fare?”

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Per capire dove vuole arrivare l’articolo, basta leggere le prime righe: “Uno dei principali capi d’accusa che negli ultimi tempi è stato mosso all’università …”. In una società italiana, che soffre *tutta intera* di un grande problema di etica civile, al punto che è stato coniato il termine di “familismo amorale”, smantellare tout court l’università in nome del risanamento morale finisce per essere un alibi per coprire la vera decisione strategica che è quella di disinvestire in istruzione, cultura e ricerca.
Credo che un settore particolarmente esposto sia quello medico (universitario e non). Ma la soluzione del problema non è ridurre i servizi sanitari al punto di non poter piü curare la popolazione (purtroppo, stiamo andando in quella direzione, ma non mi sembra che nei talk show politici, i tagli alla sanità vengano giustificati in nome della lotta alla baronia dei primari).
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“spesso si trovano famiglie intere che condizionano lo stesso settore scientifico-disciplinare. ”
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Attenzione alle generalizzazioni. Per quanto abbiano dei limiti, le analisi sulle omonimie dei cognomi mostrano che le anomalie all’interno degli SSD tendono a verificarsi negli SSD con un riscontro professionale/economico rilevante (giusrisprudenza, medicina, …). Sarebbe anche interessante un confronto con il familismo all’interno delle professioni. Un altro caso critico potrebbe essere quello di SSD piccoli dove pochi ordinari possono condizionare tutto.
Che questa sia una situazione generalizzata è una tesi che cozza con le statistiche internazionali. Immaginiamoper un attimo che il nepotismo sia così dilagante al punto da compromettere la qualità scientifica dei professori e dei ricercatori. Come potremmo allora spiegarci i seguenti dati?
Dal 1996 al 2012 la percentuale di ricerca mondiale prodotta in Italia è lrimasta stabile, con un leggero incremento dal 3,3% al 3,5% (mentre la quota mondiale degli USA è passata dal 29,0% al 22,1% a causa dell’ascesa della Cina). La percentuale di ricerca europea prodotta in Italia è passata dall’11,0% al 12,6%. Nello stesso periodo, quella del Regno Unito è passata dal 24,4% al 22,6%, quella tedesca è rimasta stabile, passando dal 21,3 al 21-2%, quella francese è lievemente calata dal 15.9% al 15.1% (fonte: elaborazione SCImago su dati Scopus).
“Tengo famiglia”
Cosa significa in sostanza questa famosa espressione, con la quale si vuole stigmatizzare un tipico carattere degli italiani? Mi pare che con essa si voglia sottolineare una sorta di familismo, per cui la difesa della famiglia e dei propri cari (moglie, figli, nipoti) venga anteposto ad ogni altro dovere civile o morale e venga attuata anche mettendo in atto comportamenti che sono in chiaro contrasto con le norme della moralità condivisa. Al contrario, il non accedere a questa forma di familismo, equivarrebbe a disinteressarsi della sorte dei propri familiari quando il farlo entri in conflitto con gli obblighi e i doveri insiti al proprio ruolo: insomma comportarsi come una sorta di portatore del dovere morale kantiano per il quale l’imperativo categorico debba essere “assoluto” cioè svincolato da ogni condizionamento ipotetico, sia esso familiare o di altro tipo.
Ma se questo principio può avere una sua ratio dal punto di vista di una moralità astratta, esso non è però descrittivo di quanto accade nella realtà, di quanto storicamente constatabile in ogni società. In effetti, quando il singolo si trova nella possibilità di scegliere tra il rispetto di principi morali astratti e il “tengo famiglia”, prevale la tendenza naturale delle persone a difendere la propria famiglia contro le avversità esterne e nell’assicurarle quanto più possibile una condizione di benessere e prosperità. Questo comportamento non è tipico della società italiana, ma di ogni società e constatabile in ogni epoca storica. Tuttavia – si potrebbe affermare – il “tengo famiglia” tipicamente ita-liano ha un connotato negativo che altrove manca, una “allure” di egoismo sociale in altri paesi non riscontrabile, in quanto esso assurge a motivo esclusivo di comportamento sociale, indipendentemente dai doveri e dagli obblighi che a ciascuno conseguono per l’ufficio che occupa. Ma come mai accade ciò? Quali le condizioni in cui questo meccanismo si scatena?
Se ci poniamo queste domande dobbiamo rivolgere il nostro sguardo alla realtà sociale, giacché la preoccupazione prevalente della famiglia, e quindi dell’assicurare ad essa un avvenire o mezzi di sussistenza sufficienti, è tipico di società in cui vige la minaccia del pauperismo e in cui la società nel suo complesso (o lo stato, per suo conto) non riescono ad assicurare meccanismi di garanzia sociale, di solidarietà e di promozione che rendano i giovani quanto più presto possibile liberi dal sostegno familiare e in grado di percorrere una strada autonoma, ottenendo un lavoro adeguato alle proprie capacità. Non è un caso che nelle società in cui vi è un buon welfare, in cui la disoccupazione è ridotta e percentuali fisiologiche, in cui l’economia “tira” e dove la struttura sociale assicura – anche mediante a un sistema di promozione demandato alla formazione – una buona mobilità sociale, l’imperativo del “tengo famiglia” ha meno rilevanza e si assesta su livelli di normalità non patologica.
“Tutta colpa della società”
Tutta colpa della società, dunque? Certo che no: possono esservi persone che hanno un tale consolidato e spiccato senso morale da resistere alle esigenze egoistiche della “famiglia”. Ma non mi pare sia questa la condizione media delle persone “normali” (in Italia come altrove) e non ritengo sia possibile spiegare i comportamenti diffusi, come il nepotismo o altri malcostumi morali particolarmente diffusi da noi, sulla base di un comportamento eccezionale. Del resto, una riprova la si può avere facilmente, facendo la domanda contraria: se non è colpa della società, a cosa può essere attribuito tale comportamento patologico? A una sorta di peccato originale della stirpe italica da curare con l’ingegneria genetica? Alla mancanza di fibra morale, cui sopperire attraverso una più dura educazione cattolica e facendo ogni giorno predicozzi morali alle persone? Al destino cinico e baro? Alla maledizione della prima luna?
Qualcuno di certo replicherà sostenendo che – nel caso particolare del nepotismo universitario – la colpa sia dei regolamenti e delle norme che mancano e di fatto lo consentono. Ma nei paesi in cui esso è assente (o meno evidente) esistono forse queste norme? Vedremo proprio il contrario, che v’è una normativa che anzi lo renderebbe assai più agevole, e tuttavia esso non è praticato come in Italia. Come mai? Si potrebbe rispondere facilmente: è l’habitus morale, il costume accademico. Ma l’habitus (come già sapeva Aristotele) si forma col tempo e in condizioni sociali, economiche e familiari favorevoli; il che ci porta alla situazione di partenza. Potrei anche aggiungere – cosa che non ho fatto nel mio articolo – che il nepotismo nei paesi che poco lo conoscono è reso poco “conveniente”: le conseguenze negative nel praticarlo sono superiori a quelle che si otterrebbero in positivo. Ma anche in questo caso – in un’Italia dove per un lavoro qualsiasi a 600€ al mese si danno battaglia migliaia di giovani – possiamo facilmente immaginare che il tempo necessario affinché le conseguenze negative si facciano concretamente sentire (minori finanziamenti ecc.) sono di gran lunga più remote del vantaggio concreto e immediato che il singolo ne può trarre. Sempre ammesso che sia possibile stabilire dei criteri e delle norme di effettiva penalizzazione degli atenei in base al loro tasso di “nepotismo”.
Ecco, avevo cercato di affrontare, in un breve articolo, questo argomento cercando di evitare il moralismo, col quale non si risolve mai nulla. Di certo l’argomento merita di essere approfondito, ma liquidare il tutto citando la icastica espressione di Leo Longanesi o sostenere che l’argomentazione è irrilevante perché in essa si sosterrebbe che è “tutta colpa della società” (o con altre battute o paradossi, su cui non mi soffermo), mi pare sia un voler evadere la sostanza delle questioni per rifugiarsi – come sempre più spesso succede – nella indignazione morale, che tutti mette d’accordo senza nulla spiegare.
La professoressa di matematica con cui lavoravo (che era stata 30 anni a Pisa) mi diceva:
“A Pisa, come in tutta la Toscana, l’economia e’ stagnante. E quindi il nepotismo e’ molto diffuso in ambito universitario, cosi come in quasi tutti i settori. D’altra parte le corporazioni delle arti e mestieri le hanno inventate li”.
La spiegazione non mi convince molto. Pero’ il fenomeno c’e’. Non a caso a Pisa ci sono addirittura 3 universita’ statali. Ed ora una anche a Lucca. Senza contare Firenze e Siena che ne hanno due a testa. Totale: 8 universita’ statali in una regione con 3.7 milioni di abitanti.
Se tanto mi da tanto il Veneto, che ha 4.9 milioni di abitanti, dovrebbe avere 10 universita’ statali. Ed invece ne ha solo 4.
Tuttavia la Scuola Normale, S. Anna, IMT di Lucca, etc non sono la stessa cosa di un’università che parte dai corsi triennali (Firenze, Pisa, Siena, Tuscia). Anche l’Università per stranieri di Siena, mi sembra una realtà particolare. La grossa differenza tra Veneto e Toscana è la presenza in quest’ultima di diversi istituti di studi superiori.
Tipo lo IUSS di Pavia?
Forse la spiegazione è che UNIPD è intrinsecamente “superiore”, e quindi non ci può essere niente altro.
;-)
Concordo
Condivido in gran parte la risposta di De Nicolao e sono sicuro delle buone intenzioni dell’autore. Tuttavia credo esistano motivazioni più efficaci e convenienti per attaccare le recenti riforme e la disinformazione che le sostiene.
Se dell’articolo non ne faccio una buona lettura io, che conosco bene queste cose, posso immaginare l’idea che se ne può fare chi l’università non la conosce.
Che il nepotismo riguardi solo i settori connessi al mondo delle professioni, ho dubbi seri e fondati. E comunque estendiamo la lista: materie giuridiche ed economiche, medicina, architettura, ingegneria civile, arriviamo a più del 50% dei settori scientifici, peraltro molti di quelli che hanno più impatto sulla società.
Visto che parliamo del mondo delle professioni, non dimentichiamo poi le interferenze tra concorsi e mondo professionale, con candidati giudicati da colleghi in conflitto di interesse, che è giocoforza un problema molto comune in questi ambiti. In tal senso l’uso di parametri oggettivi, persino le odiate mediane, han avuto un effetto benefico.
Complimenti all’autore per post e commento qui sopra, per aver fornito una visione un po’ più completa di questioni così delicate.
Kant non era quello che diceva: “il cielo stellato sopra di me, la legge morale dentro di me?”. Me lo ricordo bene e lo dico anche per sottolineare l’importanza dei grandi maestri, come è stato il mio professore di filosofia del liceo.
Poi, la realtà è un po’ meno che ideale, ma io farei un passo indietro, svincolandomi dal particolare momento storico, per tornare alle questioni principali: “è vero che ogni forma di legame parentale nell’università è una forma di nepotismo?” e: “in caso, quanto è realmente esteso e grave il fenomeno?”.
La risposta alla prima domanda non può essere naturalmente: “sì, sempre e comunque”, perché sarebbe frutto di pregiudizio e avrebbe solo l’effetto di produrre discriminazione.
Eppure, la legge Gelmini si presta purtroppo ad una lettura di questo genere e ancora una volta senza essere risolutiva del problema casomai, perché le reti accademiche possono diramarsi ben al di fuori di un preciso dipartimento e di una precisa università. Non solo, la legge Gelmini va contro una pratica internazionalmente accettata e messa in atto (ad esempio in USA, Canada, Germania, Svizzera), seppur oggetto di qualche controversia, che è quella dello “spousal hire”, consistente in programmi per favorire le “dual careers” di coppie che fanno lavori simili.
Per dare una risposta alla prima domanda, vale intanto la pena ricordare che chi nasce in famiglie dove l’arte è nota e praticata respira un’aria favorevole, diciamo così, ed è molto probabile che ne tragga giovamento. Sanno tutti che i Curie erano una famiglia di Nobel: Marie ne vinse due, il marito Pierre uno e la figlia uno insieme al marito.
Ora, mi immagino già gli “aneddotisti” saltare subito in piedi pronti a dire che gli aneddoti possono essere l’eccezione che conferma la regola. Ma l’eccezione è casomai il fatto di vincere 4 premi Nobel in una stessa famiglia, e non il fatto di godere comunque di una formazione e di una mentalità che sono un vantaggio di partenza. E non centro contrario al merito.
Sappiamo dell’esistenza, nel privato, di grandi dinastie di industriali, portate avanti da figli anche ottimamente formati che possono avere il merito di migliorare le aziende di famiglia.
Nel privato sarà il mercato a sancire o meno il successo di queste scelte, mentre nel pubblico il discorso è diverso.
Ritornano quindi le questioni: come riconoscere e valutare il nepotismo?
E’ famoso lo studio di Allesina sulla ricorrenza dei cognomi nei diversi settori universitari:
http://www.plosone.org/article/info%3Adoi%2F10.1371%2Fjournal.pone.0021160
Allesina ha fatto uno studio semplice: ha preso il database del Cineca, ha cercato i casi di omonimia, ne ha trovati probabilisticamente “tanti” e ha concluso che siamo malati di nepotismo. Ineccepibile. I casi più gravi sono concentrati al Nord e a al Sud (il Centro sarebbe più virtuoso), ma il peggio è nelle isole e i settori marchiati con la lettera scarlatta sono: Ingegneria, Legge, Medicina, Geografia e Pedagogia.
Ma, a parte il fatto che l’omonimia non implica necessariamente la parentela (non si è tenuto conto della frequenza dei cognomi in Italia), questo studio in sé non dice quanto il problema sia eventualmente reale, sia dal punto di vista del confronto con altre istituzioni pubbliche/private italiane ed estere, sia rispetto alle conseguenze che esso possa casomai avere nei confronti dell’istituzione “università”. Il “nepotismo” infatti dovrebbe avere un’accezione realmente negativa nel caso in cui promuovesse “incapaci” e quindi producesse scarse performance dell’istituzione.
Il problema però è ancora più a monte, perché il metodo Allesina sarebbe non solo troppo semplice ma anche incorretto. Ferlazzo e Sdoia lo hanno analizzato rispetto a dati UK in questo articolo:
http://www.plosone.org/article/info%3Adoi%2F10.1371%2Fjournal.pone.0043574
mostrando che:
“The results strongly suggest that the analysis of shared last names is not a measure of nepotism, as it is largely affected by social capital, professional networking and demographic effects, whose contribution is difficult to assess. Thus, the analysis of shared last names is not useful for guiding research policy.”
Ritorniamo, fra l’altro, all’uso di dati estratti statisticamente male come armi improprie per guidare scelte politiche.
Per valutare in qualche modo l’effetto del reclutamento più o meno meritorio dei “figli”, Abramo e D’Angelo hanno condotto uno studio sulla produttività disgregata per parentela:
http://www.lavoce.info/il-nepotismo-accademico-tra-mito-e-realta/
Considerando comunque la “produttività” come un dato indicativo, con tutti i suoi limiti, si vede che i dati sui “figli” non sono poi così lontani da quelli dei “non figli”.
Alla prova delle conseguenze sull’istituzione, dunque, il fenomeno andrebbe certamente ridimensionato rispetto agli strombazzamenti della stampa e ai pregiudizi che ingenerano.
Ricordando quanto detto anche ieri da Einaudi, e cioè che bisogna “conoscere per deliberare”, ci si rende conto che il fenomeno merita certamente altri approfondimenti, ma che non ci sono al momento prove sistematiche di reale gravità del problema.
Partendo anche dall’assunto che un comportamento pregiudizievole è in invece in sé sbagliato, penso hce l’etica dovrebbe allora casomai ancora una volta essere promossa all’interno dei comitati di selezione anche nel caso dei “figli”.
Molto interessante l’articolo di Ferlazzo e Sdoia. Segnalo la loro idea di replicare l’analisi di Allesina usando i nomi invece dei cognomi:
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“Hence, following the rationale proposed in [1], a large number of academics in Italy (26.8%) work in fields wherein a bias toward hiring people with certain given names exists”
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La spiegazione (rilevante anche per valutare le differenze percentuali di omonimia nelle diverse regioni) sarebbe questa:
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“these findings also stand against the idea that nepotism can be measured as the frequency of shared names. Indeed, nepotism (or any other kind of intergenerational transmission of academic job) does not affect how academics name their children. Instead, in Italy given names have a regional distribution, though less marked than last names, and different disciplines have different composition in terms of gender or age prevalence. ”
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Pure interessante l’articolo di Abramo e D’Angelo sulla comparazione della produttività scientifica di “figli” e “non-figli”.
Mi rimane l’impressione che, in un periodo difficile, diventi irresisitibile la tentazione di ricorrere a “narrazione magiche” che danno una spiegazione facile da capire e additano una pozione miracolosa per guarire. I giovani bravi non riescono ad intraprendere la carriera accademica? Per qualche ragione, non si riesce a far passare il messaggio che il reclutamento è quasi congelato da più di un lustro, che il turn-over è strozzato e che il finanziamento ha subito un taglio (-18,7% in termini reali dal 2009 al 2013). Più facile, invece, far passare il messaggio che la colpa è dei baroni che riservano tutti i posti ai loro figli e parenti. È un messaggio facile (ci sono dei “cattivi” ben identificati), addita una soluzione (mandateli a casa, tagliate i loro stipendi, chiudete un po’ di università inutili che servono solo a pagare stipendi ai loro famigliari) e non obbliga a fare ragionamenti più difficili sul ruolo della formazione e sulla necessità di fare investimenti adeguati che entrerebbero in concorrenza con sanità, pensioni, disabilità, etc.. Perchè studiare statistiche OCSE su laureati, spesa per università, statistiche bibliometriche sulla produzione scientifica? Dopo tutto, è sufficiente punire i cattivi e, per magia, tutto si risolverà.
Naturalmente, perchè la “punizione” sia visibile, la preferenza cade su misure che colpiscono nel mucchio (blocco degli scatti, riduzione del turn-over, prepensionamenti che poi finiscono per colpire essenzialmente i ricercatori, norme antiparentopoli, …). In questo modo si può mostrare agli elettori il “pugno di ferro” nei confronti dell’accademia canaglia. Gli effetti pratici nei confronti delle cricche accademiche (che esistono, non neghiamolo) sono pochi o nulli, ma che importa?
Perfettamente d’accordo con quanto dice Giuseppe De Nicolao: si sceglie la narrazione più facile, quella che fa immediatamente sollevare l’indignazione, anche al costo di ignorare fatti e dati e senza nessuna cautela metodologica. Ma a quanto pare è proprio questa l’intenzione di una classe dirigente, che mi pare abbia deciso di ridimensionare la funzione del sistema pubblico di formazione a favore di pochi hub eccellenti e delle università private. Si veda, ad es., l’articolo di Panebianco sull’ultimo numero di Sette (il rotocalco del Corriere).
Se i docenti universitari fossero TUTTI (ma proprio TUTTI) gentili, disponibili e puntuali forse l’opinione pubblica cambierebbe idea, nel giro di 10 anni, sull’Università.
Lo studente è un cliente-paziente che deve essere trattato con il massimo riguardo.
Al riguardo anche il personale amministrativo universitario deve fare un grande salto di qualità. Quando ero studente venivo trattato male dal personale amministrativo. Ora mi trattano bene. Ma purtroppo continuano a trattare piuttosto male gli studenti. E non racconto i deliri di Milano Statale…
Giuseppe: “È un messaggio facile (ci sono dei “cattivi” ben identificati), addita una soluzione (mandateli a casa, tagliate i loro stipendi, chiudete un po’ di università inutili che servono solo a pagare stipendi ai loro famigliari) e non obbliga a fare ragionamenti più difficili sul ruolo della formazione e sulla necessità di fare investimenti adeguati che entrerebbero in concorrenza con sanità, pensioni, disabilità, etc.. ”
Francesco: “Ma a quanto pare è proprio questa l’intenzione di una classe dirigente, che mi pare abbia deciso di ridimensionare la funzione del sistema pubblico di formazione a favore di pochi hub eccellenti e delle università private.”
Non c’è concorrenza con la Sanità, perché nella Sanità in questi ultimi anni si sta proprio perseguendo la politica di creare un numero di hub eccellenti con lo smantellamento di molto ospedali. Città di media grandezza, di 50-60.000 abitanti stanno rimanendo senza ospedali. Se già prima le liste di attesa per esami erano inaccettabili (si faceva in tempo a morire casomai), i posti letto insufficienti e i pronto soccorso intasati, ora i problemi non potranno che ingrandirsi e i servizi peggiorare. La conseguenza naturale è una deviazione verso il servizio privato.
Intanto le tasse sono rimaste le più alte d’Europa, con quelle della Svezia (che però assicura servizi puntuali ed efficienti, nonché indicatori di innovatività e competitività massimi in Europa), a questo punto in maniera quasi del tutto ingiustificata, il debito è pauroso e il potere d’acquisto delle famiglie è in picchiata, inadeguato casomai a consentire l’uso diffuso dei servizi privati.
La “propaganda” si sorregge a colpi di retorica, notizie manipolate e sorrette da falsa scientificità e si nutre nel tempo nell’ignoranza crescente dei cittadini. Un laureato su cinque è un dato preoccupante.
Nel frattempo, dentro l’università, c’è chi si quasi si compiace di queste misure, chi non disprezza il piazza pulita fatto a colpi di demagogia, di mediane, di supposte leggi antibaronali, pensando alla fine di trarne un vantaggio personale.
Avranno purtroppo di che riflettere quando le università inizieranno a chiudere.
Scusate, naturalmente era “ricordando, come anche fatto ieri, quanto detto da Einaudi”. Di solito non rileggo quello che scrivo, mea culpa.
Se devo essere sincero, la sostanza di questo articolo non la capisco nemmeno io (a parte moltissime singole affermazioni sicuramente condivisibili).
L’articolo inizia affermando “Innanzi tutto ritengo che bisogna essere cauti nella valutazione dell’estensione e del radicamento del fenomeno…”, cosa che non bisognerebbe mai stancarsi di ripetere.
Poi conclude con un quadro apocalittico di un nepotismo pervasivo che ingloberebbe completamente tutta la società italiana, per cui (in particolare) “Il professore universitario – il barone – non è estraneo a questo generale clima sociale e di conseguenza ne riproduce i meccanismi”.
All’ininzio il nepotismo nell’università non si sa “se c’è, e se c’è, com’è…” poi si conclude che tutti sono nepotisti di necessità?
Non si potrebbero documentare le affermazioni che “In queste condizioni si alimentano e si amplificano i mali ampiamenti diagnosticati nella letteratura (familismo amorale ecc.) e in particolare vengono esaltati gli egoismi sociali: chi ha una posizione di potere, sia pur esso un micro-potere, cerca di sfruttarlo come può…”. Certo che in certi casi succede, ma non è un po’ troppo pesante l’affermazione che questo vale per tutta la società italiana? In quanto poi al familismo amorale, è una teoria – secondo me – campata per aria, scritta da uno che della realtà italiana ne conosceva ben poco, e che, in altra occasione pare aver affermato che “government aid to the poor would make the givers of aid feel virtuous, but wouldn’t improve the lives of the receivers of aid.”… Come si può prendere sul serio tal signore?
Eh, purtroppo la “facile narrazione” e’ quella piu’ efficace dal punto di vista comunicativo… Non ci si puo’ ragionevolmente aspettare che le sottigliezze e gli anfratti degli argomenti accademico-scientifici (come sono le considerazioni in questo bell’articolo di Coniglione) possano attecchire su un’opinione pubblica generalmente poco attenta e di solito mal consigliata…
Come strategia di comunicazione, propongo un “fight-back” in difesa dell’universita’ basato su una narrazione altrettanto facile, sicuramente dozzinale e provocatoria, probabilmente ingenerosa, ma forse efficace, come la seguente :
“poiche’ i casi piu’ eclatanti e/o numerosi di nepotismo si registrano nei settori e nelle discipline piu’ vicine alle professioni, e non altrove, allora il problema non sta nell’universita’ italiana in se’, ma nelle pratiche sociali che in Italia sono tipiche di quelle professioni”.
Non per rompere le uova nel paniere, ma, a mio parere, qualunque analisi escluda i “riferirmi al ben più complesso e spinoso caso del rapporto maestro-discepolo (senza legami parentali)” nell’ambito accademico, è inutile al fine di migliorare un sistema ormai in declino. Grazie
Non so. A me l’articolo non mi convince ed alcuni passaggi (il nepotismo nelle partecipate) mi paiono malposti e pericolosamente assolutori per ” i nipoti e gli zii” (non dimentichiamoci che dovremmo essere anche classe dirigente). Segnalo poi che la “sindrome di Poseidone” è certamente efficace ma esiste da un pezzo in statistica con diversi e meno eleganti denominazioni (ad es. Survivorship bias”).
Le generalizzazione è sempre pericolosa, ma la comunicazione credo avrebbe potuto essere assai utilmente sintetizzata: “Benché’ il nepotismo nel mondo accademico, dati alla mano, sia minore che in altri settori della pubblica amministrazione, va ovviamente eliminato. Questo possibilmente con procedure dall’interno, ad evitare che sia preso a pretesto per azioni legislative che risultino a danno per l’università”. Come ho scritto in apertura “assai utilmente” ad evitare che ci possano essere interpretazioni di frasi anche solo parzialmente assolutorie. Peraltro, un sistema che non è organizzato per limitare abusi deve essere migliorato per evitarli. Qualcuno in disaccordo? O quale ulteriore esercizio di retorica vogliamo svolgere con il risultato di sembrare di sostenere che da mille prospettive diverse l’unico vero punto e che non bisogna cambiare nulla?
A mio avviso, il problema vero non è il nepotismo ma il localismo. Se fosse vietato a chiunque – figli, non figli e “figli putativi”, cioè gli “allievi” – di sviluppare la propria carriera tutta in un unico ateneo, non vedremmo dipartimenti colonizzati da famiglie che si credono “scuole”, né da scuole che diventano di fatto famiglie allargate.