In un intervista incrociata, pubblicata sul Corriere della Sera, il matematico Giuseppe Mingione e l’economista, membro del Consiglio Direttivo di Anvur, Daniele Checchi discutono sulla robustezza e sull’utilità della VQR.

Mingione sostiene che

«La classifica delle università italiane al top nella ricerca che è stata pubblicata qualche giorno fa dall’Anvur non riflette la vera qualità del lavoro svolto nei vari dipartimenti. I metodi adottati per stilarla premiano la mediocrità e cancellano l’eccellenza»

Per mostrare l’inconsistenza della valutazione della VQR Mingione paragona le classifiche stilate dall’ANVUR con quella del ranking di Leiden. Idea semplice ed efficace poiché il ranking di Leiden si basa solo su dati bibliometrici. Se la classifica VQR e il ranking di Leiden danno risultati molto diversi, come, in effetti, è il caso, ci deve essere una ragione. Secondo Daniele Checchi la ragione è semplice:

«Tutta la procedura di valutazione dell’Anvur è stata concepita fin dall’inizio per fornire al ministero un quadro aggiornato dei punti di forza e di debolezza degli atenei (leggi: per stanare i supposti fannulloni, ndr), non per premiare le eccellenze»

Di parere del tutto diverso il presidente di Anvur Graziosi:

 

A questo punto ci sorge un dubbio. I membri del CdA Anvur parlano tra loro? Hanno una vaga idea di quello che fanno e del perché lo fanno?

Abbiamo discusso altrove il non senso di fare una valutazione massiva dell’università come è la  VQR e il suo costo. Qui vorremmo ricordare che la VQR, che secondo Checchi serve per “stanare i fannulloni” e non “per premiare l’eccellenza” , costa una cifra compresa tra i 30 e 56 milioni all’anno, cioè tra i 120 e i 240 MLN in 4 anni. Al contribuente italiano scovare un fannullone è costato tra gli 82 mila e i 136 mila, a seconda delle stime dei costi che si preferisce adottare.

 

 

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52 Commenti

  1. ”Qualche decennio fa il numero delle pubblicazioni prodotte è divenuto però così alto che si è capito che volendo valutare i loro autori […] non era più possibile pretendere che qualcuno si sobbarcasse la fatica improba di leggerle. Allo stesso tempo si è diffusa l’opinione, fondata di per sé sul buon senso, che fosse poco sensato finanziare la produzione di pubblicazioni lette solo dal proprio autore. Qualcuno ha allora trovato genialmente il modo di risolvere entrambi i problemi con un colpo solo, soddisfacendo allo stesso tempo la diffusa domanda di valutazioni oggettive e quantitative. Si è deciso infatti di giudicare ”oggettivamente” e automaticamente il valore dei lavori intellettuali contando semplicemente quante volte erano citati dai loro simili in un determinato arco di tempo. Questo sistema ha esonerato i potenziali valutatori dalla fatica di leggere e dall’ancora più faticoso compito di motivare il proprio giudizio, distribuendo il compito di leggere (o almeno di far finta di farlo) tra tutti gli autori di pubblicazioni nel settore. In questo modo si è naturalmete provocata un’ulteriore impennata del ritmo della produzione, resa peraltro possibile dallo sviluppo tecnologico; il progressivo spostarsi delle pubblicazioni dal supporto cartaeo a quello elettronico ha infatti permesso di superare il problema, che altrimenti sarebbe stato insolubile, della limitatezza delle risorse forestali del pianeta.

    Il sistema escogitato ha avuto il merito di eliminare equivoci individuando ufficialmente il fine del lavoro accademico nell’autoalimentazione del sistema. I finanziamenti alla ricerca vengono distribuiti con criteri apparentemente meritocratici […]. Il merito viene però semplicemente misurato dalla quantità di consenso ottenuto nell’ambiente, analogamente a quanto accade con gli indici auditel o nel mondo della politica. il sistema è giustificato dall’assunzione che il consenso ottenuto da uno studioso nell’ambiente dei suoi colleghi dipenda dalla qualità del suo lavoro intellettuale. Allo stesso modo si può presumere che il consenso elettorale ottenuto da un politico misuri la sua capacità di statista e la sua onestà di amministratore della cosa pubblica. In entrambi i casi il sistema finisce però spesso con il selezionare doti diverse, evidentemente più efficaci nel perseguire lo scopo. Si tratta evidentemente delle stesse doti utili nel procacciare fondi. A questo punto è divenuto possibile un passo ulteriore. Perché non misurare direttamente il successo dai finanziamenti ottenuti saltando il passo intermedio del conteggio delle pubblicazioni e delle citazioni? Anche perché è ben noto che tutti i fenomeni di crescita esponenziale conducono più o meno rapidamente a un punto di rottura oltre il quale la crescita si interrompe e le pubblicazioni accademiche, sia pure digitali e nonostante la possibilità, parzialmente esplorata, di automatizzarne la produzione, non posso sfuggire alla regola generale. Non stupisce quindi che leggendo i verbali delle commissioni esaminatrici dei concorsi universitari o quelli dei consigli di facoltà relativi a chiamate […] sempre più spesso il merito dei candidati, dopo una premessa rituale sul loro valore scientifico, venga valutato direttamente e ufficialmente sulla base della quantità di finanziamenti ottenuti, che forniscono effettivamente l’elemento più concreto e attendibile sulla capacità di continuare a ottenerne in futuro.

    Credo che un numero crescente di membri dell’ambiente accademico avverta qualche disagio. Tutto il sistema mostra infatti scricchiolii, dovuti soprattutto alla sproporzione tra il fine di ottenere finanziamenti e potere, lo strumento, costituito in buona sostanza da un meccanismo di raccolta del consenso analogo a quelli vigenti nei mondi (ormai largamente sovrapponibili) della politica e dello spettacolo, e la forma ereditata dal passato, che richiede la continua produzione di pubblicazioni in massima parte prive di qualsiasi influenza all’esterno del mondo accademico.”

    estratto da

    Lucio Russo, La cultura componibile. Liguori Editore (2008).

    • Il mondo reale si è trasformato in uno spettacolo che è diventato «la principale produzione della società attuale
      (Guy Debord, La Société du spectacle, Buchet-Chastel, Paris, 1967 trad. it. La società dello spettacolo, Baldini Castoldi Dalai, Milano 2001).

    • Il mio disagio con il pensiero di L. Russo, e di altri come lui, è che scrivono cose in gran parte condivisibili ma in una prospettiva sterile. Fermandosi alla constatazione del “degrado” dei tempi moderni ma senza andare a fondo nelle cause (davvero tutto quello che vediamo sarebbe figlio solo della poca voglia di leggere i lavori ?) e, ancor peggio, non proponendo nulla se non un ripianto di un passato “migliore” (ma senza analizzarlo più che tanto), oggi difficilmente proponibile.
      .
      Un commento non permette di entrare nel merito. Tuttavia posso elencare telegraficamente alcuni dei punti che (forse per mea culpa) non ho mai visti discussi nelle pagine di L. Russo.
      – le necessità di finanziamento della ricerca nella loro evoluzione storica;
      – la maggior o minore capacità di “riscalamento a qualità uniforme” del sistema di formazione superiore rispetto ad un aumento quantitativo delle necessità di formazione superiore;
      – l’ intreccio e l’ evoluzione dei rapporti tra sistema della ricerca, strutture politiche e sistema produttivo nelle democrazie occidentali;
      – l’evoluzione delle richieste sul sistema di formazione e ricerca provenienti dalla società.
      .
      Penso che se non si toccano nodi come questi, diventa difficile distinguere quel che viene dal dilettantismo dell’ anvur e quello che fa parte dell’ altrettanto inquietante evoluzione complessiva del sistema mondiale della ricerca.

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