Il 9 giugno si è tenuta a Ferrara una tavola rotonda sull’importanza della ricerca in Università. L’obiettivo dell’evento è stato quello di discutere la centralità della ricerca per l’Università italiana del futuro, in contrasto con politiche che potrebbero rendere le Università centri dedicati prevalentemente alla didattica, spostando la ricerca in istituti ad essa interamente dedicati, che non svolgono attività formative.

Il tema è stato affrontato da vari punti di vista: Andrea Grignolio (Università Vita-Salute San Raffaele, Milano) ha discusso quello storico; Alberto Baccini (Università di Siena) quello della valutazione della ricerca universitaria; Elena Cattaneo (Università di Milano, Senatrice a Vita) quello del rapporto fra Università e Istituti Nazionali di Ricerca; Elisabetta Cerbai (Università di Firenze) quello dell’impatto delle azioni PNRR. Alla discussione, moderata da Michele Simonato (Università di Ferrara), sono interventi tra gli altri Francesco Bernardi (Università di Ferrara), Marco Onorati (Università di Pisa) e Marco Tamietto (Università di Torino).

Introduzione

Il principio fondante dell’Università è quello di coniugare didattica a ricerca. Docenti e discenti universitari formano una comunità: docenti che trasmettono alle nuove generazioni i saperi sui quali loro stessi esercitano ricerca; discenti che non sono solo oggetti passivi di trasferimento di informazioni ma soggetti attivamente coinvolti nella costruzione di conoscenza. Senza la ricerca, l’insegnamento si riduce ad una mera trasmissione di informazioni, a scapito del rapporto personale tra docente e studente.

In Italia, oggi, il baricentro tra questi elementi sembra progressivamente spostarsi verso la didattica, mentre la ricerca (anche la ricerca pubblica) sembra progressivamente orientarsi verso centri ad essa interamente dedicati, che cioè non svolgono attività formative. Anche se la progressione accademica premia l’attività di ricerca più della didattica (ma va peraltro analizzato come questo accade), le Università puntano sempre più apertamente verso corsi ad alta numerosità, chiedendo ai docenti un impegno sempre maggiore sul versante della didattica. Lo stesso Ministero dell’Università e della Ricerca (MUR) ha recentemente assecondato questa tendenza, aumentando il rapporto docenti/discenti per i corsi di Medicina e Lauree Sanitarie. Nel contempo, negli ultimi anni le (esigue) risorse per la ricerca sono state dirottate dall’Università verso Istituti Nazionali di Ricerca.

Questa non è una questione meramente accademica, ma investe tutto il Paese ed i giovani in particolare. Anche il disagio manifestato ripetutamente e in molti Atenei dai rappresentanti degli studenti potrebbe avere a che fare con l’allentamento del contatto diretto con i docenti, la perdita di modelli (di “maestri”), che lascia gli studenti in una posizione di solitudine nell’affrontare la loro stessa formazione. In aule sempre più affollate, gli studenti universitari rischiano di sentirsi soli.

È quindi responsabilità di tutti prestare attenzione a questa problematica. È necessario aprire un dibattito per cominciare a plasmare l’Università del futuro, quella in cui lavoreranno i giovani di oggi e in cui si formeranno i loro figli, quella a cui guarderà il Paese per tenersi al passo con gli altri Paesi avanzati.

Calate nel contesto storico dentro il quale ci troviamo, queste considerazioni suscitano una miriade di domande. Ha senso un’Università senza ricerca, o con un’attività di ricerca debole e sussidiaria a quella di Istituti ad essa integralmente dedicati? Le azioni previste nell’ambito del PNRR puntano davvero (e se sì, sono adeguate) a resettare il baricentro e rilanciare la ricerca universitaria?

Il 9 giugno si è tenuta a Ferrara una tavola rotonda che aveva l’intento di aprire un dibattito su questi temi, articolandolo su alcuni specifici aspetti: quello storico; quello della valutazione della ricerca universitaria; quello del rapporto fra Università e Istituti Nazionali di Ricerca; quello dell’impatto delle azioni PNRR. Hanno partecipato al dibattito Andrea Grignolio, docente dell’Università Vita-Salute San Raffele, Alberto Baccini, dell’Università di Siena, Elena Cattaneo, docente dell’Università Statale di Milano e Senatrice a Vita, ed Elisabetta Cerbai, dell’Università di Firenze. Alla discussione, moderata da Michele Simonato (Università di Ferrara), sono interventi tra gli altri Francesco Bernardi (Università di Ferrara), Marco Onorati (Università di Pisa) e Marco Tamietto (Università di Torino).

L’evento si è tenuto in forma ibrida. La registrazione completa è disponibile su YouTube qui.

Il contesto storico

Andrea Grignolio ha tratteggiato una panoramica storica sul rapporto tra insegnamento e ricerca nelle Università.

“Chi insegna deve fare ricerca. – ha detto Grignolio – E questo non è un fatto scontato, perché la combinazione di didattica e ricerca è qualcosa di relativamente recente, ma che ci ha permesso di fare molte cose che non potevamo fare prima, fino al 1500 almeno”.

I primi ospedali, i Bimaristan, sono stati fondati dai Nestoriani intorno al 350 d.C. in varie zone delle attuali Turchia, Siria ed Egitto, ed erano insieme luoghi di cura dei malati, di ricerca e di insegnamento. I Nestoriani erano una popolazione colta, originaria di Alessandria d’Egitto, che in questi luoghi si dedicò alla rielaborazione delle dottrine tradizionali greche, in particolare le teorie di Galeno. Unendo studio e pratica medica essi testarono le teorie di Galeno, fino a quel momento ritenute dogmi indiscutibili, e svilupparono anche severi sistemi di revisione tra pari (peer-review ante litteram). Queste innovazioni, basate sull’unione di didattica e ricerca, resero i Bimaristan un modello da imitare. Come fece Costantino l’Africano, medico cristiano che fondò nel 1200 la Scuola Medica Salernitana, uno dei centri di cura e ricerca più importanti del medioevo.

Un secondo momento chiave fu la rivoluzione metodologica introdotta da Andrea Vesalio (1514-1564) nelle Università italiane. Autore del primo libro di anatomia moderno, De Humani Corporis Fabrica, Vesalio rivoluzionò il modo di insegnare e fare ricerca nelle Università, unendole nell’atto di verifica sperimentale delle dottrine mediche tramandate e insieme cambiando il modo in cui veniva condotta la lezione. Prima di Vesalio, il professore, “lector”, leggeva testi di Galeno in latino che un traduttore, “ostensor”, ripeteva indicando ad un “sector” dove praticare le incisioni dei corpi per l’insegnamento dell’anatomia. Se c’erano discrepanze tra quanto osservato sul tavolo anatomico ed il testo latino, l’informazione non veniva rivista, dando per scontato un errore nella lettura piuttosto che nel testo. Secondo Vesalio, il medico deve essere anche “sector”, deve cioè mettere le mani direttamente sul corpo del paziente, per verificare le tesi di Galeno. Il flusso di informazione non deve essere univoco, dalla fonte agli studenti, ma vanno introdotti meccanismi di revisione dell’informazione sui quali lo studente deve farsi parte attiva.  La rivoluzione di Vesalio, dunque, non riguardò solo il metodo attraverso il quale verificare le conoscenze mediche, ma il modo stesso di concepire l’Università.

Il terzo passaggio chiave avviene in Germania, ad inizio ‘800. Justus von Liebig (1803-1973), noto per i suoi contributi in ambito agrochimico, fu promotore di un nuovo modello di Università. La sua idea fu di avvicinare, anche fisicamente, ricerca e didattica. Costruì il suo laboratorio di chimica organica vicino all’Università, in modo da consentire agli studenti di apprendere in prima persona quanto studiato nelle aule e nelle biblioteche. In questo clima di innovazione metodologica e didattica si impose il cosiddetto “modello Humboltiano” di Università. Con le parole di Grignolio:

“Combinare ricerca e educazione, creare individui autonomi in un ambiente di ricerca libera, sia per gli studenti che per i ricercatori”.

Questo modello di Università è stato successivamente elaborato e consolidato, fino ai nostri giorni.

La valutazione

Le università italiane sono state dunque parte integrante della storia che ha portato a riunire didattica e ricerca. Ma l’Università italiana di oggi segue ancora questo modello? La relazione di Baccini ha cercato di rispondere a queste domanda, mostrando i limiti delle recenti riforme nell’incentivare la produzione di ricerca di qualità.

La riforma introdotta dalla Ministra Gelmini nel 2010 voleva garantire che i docenti universitari svolgessero attività di ricerca di alta qualità. Per perseguire questo risultato, ha introdotto una valutazione basata su indici bibliometrici, in modo più approfondito e ampio rispetto ad altri paesi europei o agli Stati Uniti. L’idea principale dietro questa iniziativa era che la valutazione potesse rappresentare una “cura” per la ricerca universitaria italiana.

All’inizio, questa “cura” sembrava funzionare. Rapporti internazionali riportavano infatti un aumento dell’impatto delle pubblicazioni scientifiche italiane in termini di citazioni rispetto ad altri Paesi, come il Regno Unito: un rapporto dell’ANVUR del 2018, un altro rapporto commissionato dal governo inglese nel 2016 e la sua versione aggiornata del 2022 indicavano tutti un incremento dell’impatto citazionale delle pubblicazioni italiane.

Alcuni hanno interpretato questi dati come l’effetto positivo dei sistemi di valutazione voluti dalla riforma, che avrebbero di fatto migliorato la qualità della ricerca italiana. Secondo Baccini, invece, la crescita dell’impatto della ricerca italiana dal 2010 ad oggi è un’illusione. Questo “miracolo italiano” sarebbe infatti in larga misura il risultato di cattive pratiche di pubblicazione, come l’autocitazione indiscriminata, che abbassano la qualità della ricerca e sono incentivate proprio dai sistemi di valutazione su base bibliometrica.

L’introduzione del sistema di valutazione avrebbe portato ad un incremento sistematico del numero di abusi e cattive pratiche di pubblicazione. Diversi indicatori suggeriscono che questa è una tendenza generale, e non solo il frutto di alcune “mele marce” nell’università italiana. Il primo indicatore è il numero di ritrattazioni scientifiche, un primato italiano non solo rispetto ai paesi dell’eurozona, ma anche a livello internazionale (MarcoCuenca et al., Scientometrics 2021).

Il secondo è l’autoreferenzialità, misurabile con l’indice di inwardness (Baccini et al., PLoS One 2019). Questo indice fornisce una sintesi di diverse modalità di autocitazione (un autore cita sé stesso, un coautore di un articolo cita il suo collega coautore, etc.), permettendo così di confrontare l’autoreferenzialità non solo di singoli ricercatori, ma anche di interi dipartimenti e paesi. Secondo questo indice, a partire dall’introduzione delle riforme nella valutazione universitaria su base bibliometrica l’Italia ha modificato il proprio comportamento citazionale verso una maggiore autoreferenzialità, in linea con Paesi non inclusi dal G10 come Russia, Colombia, Egitto e India.

La “cura” italiana per migliorare la ricerca – ha detto Baccini – è la stessa usata da paesi emergenti per scalare le classifiche internazionali: istituzione di una “bibliometria di Stato”, e monetizzazione diretta e indiretta di performance misurate con indicatori quantitativi di produzione e impatto”.

Peraltro, l’autocitazione non sarebbe inoltre l’unico problema causato dalla riforma del 2010. La valutazione su base citazionale, e il sistema di incentivi basato su di essa, avrebbe portato alla diffusione di altre cattive pratiche.

Un aggiramento sistematico delle regole per ottenere l’abilitazione, con il diffondersi di fenomeni di gaming, autoraggi di comodo, pubblicazioni su riviste predatorie, doping citazionale, club citazionali, controllo sistematico delle pubblicazioni sulle riviste di fascia elevata, etc. Con conseguenze come la riduzione della varietà dei temi di ricerca: quella innovativa, più rischiosa, viene penalizzata a scapito di ricerche “facili” ma utili per la carriera”.

Per quanto, come sottolineato da Grignolio, si debbano riconoscere alcuni limiti negli indici proposti da Baccini, e sia perciò opportuno svilupparne su altri parametri (per esempio, i finanziamenti ERC ottenuti da ricercatori italiani), e per quanto, come riconosciuto da Marco Tamietto, la valutazione bibliometrica si sia dimostrata utile per la selezione dei profili meno qualificati nelle richieste di abilitazione scientifica, sembra chiaro che la bibliometria da sola sia uno strumento molto imperfetto di misurazione della qualità (o non qualità) delle pubblicazioni. Uno strumento, tuttavia, dietro al quale i singoli e gli Atenei potrebbero cercare di nascondere la propria inadeguatezza sul piano della ricerca.

Gli Istituti Nazionali di Ricerca

I limiti del sistema di valutazione non sono l’unico ostacolo per la ricerca universitaria italiana. Ad oggi mancano ancora strumenti adeguati a facilitare l’accesso ai fondi e a rendere il sistema di finanziamento più competitivo. Siamo infatti l’unico paese europeo a non avere un’agenzia per la ricerca, e non esiste nemmeno un portale comune dove reperire in maniera chiara e semplice informazioni rispetto a bandi, progetti e finanziamenti. Queste funzioni dovrebbero essere affidate al MUR, che purtroppo non riesce a svolgerle efficacemente perché sottodimensionato e sottofinanziato. E questi problemi sono aggravati dal fatto che la ricerca pubblica è ampiamente sottofinanziata.

Per affrontare queste difficoltà, in un passato recente si è puntato, invece che su meccanismi di trasparenza e competizione, su quelli che Elena Cattaneo chiama “feudi dorati”.

“Il presunto “modello” vincente è la politica di finanziare pochi “centri di eccellenza”. Invece di liberare il potenziale universitario con le riforme, lo Stato finanzia feudi dorati, i Centri Nazionali di Ricerca”.

In Italia ci sono diversi esempi di centri di ricerca istituiti su tematiche specifiche scelte direttamente della politica, senza una valutazione preliminare del contesto e delle necessità, e finanziati direttamente e per sempre in maniera non competitiva. Ciò non solo produce una distribuzione iniqua delle risorse, ma rischia anche di ridurre la qualità della ricerca. La letteratura sociologica e di policy mostra infatti che è la maggior diversità a migliorare la ricerca, non la concentrazione arbitraria di fondi in singoli istituti “eccellenti” (Fortin e Currie, PLoS One 2013).

Ai “feudi dorati”, Cattaneo oppone un modello che – nell’ambito di una ricerca pubblica finanziata con fondi adeguati alla media del resto d’Europa, certi nelle tempistiche e trasparenti nelle procedure competitive di valutazione – prevede di investire in Istituti per attività di ricerca con caratteristiche non diffusamente replicabili, e l’apertura degli stessi all’utilizzo diffuso da parte dei ricercatori. Questo modello è già stato applicato con successo per istituti come il CERN di Ginevra, l’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare del Gran Sasso (INFN) e per le Piattaforme Nazionali (PN) dello Human Technopole di Milano.

Lo Human Technopole è un esempio di come si possano implementare nuovi meccanismi di finanziamento (anche) su enti nati secondo la logica del “feudo dorato”. La costruzione di questo centro di ricerca venne decisa nel 2016, senza nessuna analisi del bisogno, seguendo l’esigenza politica di dare una destinazione agli immobili dell’EXPO di Milano. Vennero stanziati 140 milioni all’anno di finanziamento, senza bandi pubblici, senza una competizione trasparente. Oggi, dopo sette anni, grazie ad un lungo lavoro politico, il 45% di questi fondi resta destinato alla ricerca interna all’ente, mentre il 55% è destinato a creare, mantenere e aggiornare piattaforme tecnologiche da mettere a disposizione dei ricercatori di altri enti, in primis di Università. La possibilità di fare ricerca usando le attrezzature delle PN avanzate di Human Technopole, troppo costose per essere acquisite singolarmente da ciascuna Università o ente di ricerca, sarà aperta (tramite valutazione di una commissione indipendente di prossima istituzione) ai ricercatori di tutto il Paese, dando così maggiori opportunità soprattutto a quelli che si trovano a fare ricerca in aree “storicamente” svantaggiate.

Il PNRR

Secondo Elena Cattaneo, il problema della qualità e della trasparenza nella distribuzione e nell’assegnazione delle risorse per la ricerca si ripresenterà con i fondi PNRR:

“Il fatto che i soldi del PNRR verranno mal distribuiti è un dramma civile. Chi dirà ai nostri figli perché non abbiamo gestito bene quei soldi?”

Se il PNRR andrà sprecato, gli effetti negativi non ricadranno solo sulla quantità e qualità della ricerca prodotta in Italia, ma anche sul personale qualificato impiegato in Università. Elisabetta Cerbai ha fornito un’analisi dell’impatto del PNRR sul personale universitario, evidenziando i rischi di dispersione delle risorse umane qualora ad esso non seguissero altri investimenti sulla ricerca.

Nella Missione 4, componente 2 (M4C2), il PNRR prevede un insieme di misure rivolte al potenziamento dei legami tra ricerca di base e impresa. I progetti finanziati, dunque, dovrebbero essere innovativi e soprattutto ad alto impatto sociale. Il piano prevede la costituzione di 5 centri nazionali e di 14 partenariati estesi.

La maggior parte dei fondi PNRR sono destinati alle risorse umane. A prima vista, questo può sembrare un fatto positivo. Emerge, tuttavia, un grosso problema, che è la conseguenza delle politiche di finanziamento alla ricerca portate avanti fino ad oggi:

“Le risorse umane disponibili per il PNRR – ha ricordato Cerbai – sono di vario tipo: ricercatori a tempo determinato, assegni di ricerca, etc. Ma dove si trovano queste risorse umane, visto che nel frattempo le università hanno perso personale strutturato a tempo indeterminato?”

Il taglio del personale a tempo indeterminato è stato un altro risultato della già discussa riforma Gelmini, diretta ad una riduzione della spesa per la ricerca (si veda qui).

Questa riduzione del personale si è associata ad una diminuzione del numero di studenti universitari (più al Sud che al centro Nord), dal 2015 fino al 2022. Quest’ultima era aggravata dalla generale crisi demografica e più evidente in alcuni ambiti, come quello umanistico. Nonostante un recente recupero, l’Italia è ancora sotto la media degli altri paesi europei per numero di studenti rispetto alla popolazione.

Si configura quindi un serio problema di reperimento del personale. Ma ancora più grave sarà il problema della collocazione del personale reclutato, una volta che i fondi del PNRR saranno esauriti: non ci sono ancora progetti chiari per piani di investimenti continuativi nel futuro. L’immagine che meglio rappresenta questa situazione è quella di un prato prosciugato, che non è più in grado di assorbire l’acqua. Così Cerbai:

Cosa ne sarà di queste risorse umane spesate dal PNRR dopo che il PNRR non sarà più attivo? Sarà il nostro sistema in grado di assorbire queste risorse?”

La visione (o forse la speranza) della politica è che i progetti finanziati garantiscano un impatto a lungo termine sul tessuto economico e sociale del paese, che permetta di riassorbire l’investimento sul personale. Ma l’Università italiana sarà in grado di produrre questi progetti?

“I pochi dati che abbiamo – ha concluso Cerbai – indicano che l’impatto del PNRR sul personale è attualmente positivo, e ben distribuito nei diversi settori di ricerca. Tuttavia sarà fondamentale progettare con cura l’assorbimento nel mercato lavorativo del personale su cui si è investito. Usando la metafora di prima, è importante che l’acqua venga assorbita, e che non vengano sperperati questi fondi in investimenti di breve termine“.

Francesco Bernardi ha sottolineato che un rischio associato ad un eventuale fallimento di queste politiche è il brain drain. Qualora i nuovi assunti non fossero reinseriti nel mercato lavorativo, è realistico aspettarsi un ulteriore flusso di migrazione di questo personale qualificato verso altri Paesi. Ha inoltre aggiunto che le politiche di aumento del numero degli studenti producono risultati inferiori a livello di qualità della ricerca e di impatto sociale di essa, rispetto agli investimenti volti a contrastare il brain drain italiano.

Marco Onorati ha evidenziato un ulteriore problema nella gestione del personale nel contesto del PNRR, ovvero quello delle tipologie di contratto. Recentemente sono stati introdotti contratti biennali costosi e disegnati su quelli dei dipendenti statali, un modello non direttamente applicabile alla docenza universitaria. Secondo Onorati, questo è un problema da affrontare:

“Queste sono azioni contradditorie: da un lato voler aumentare le unità di personale, dall’altro modificare i tipi di contratto in modi che in realtà non favoriscono la continuazione delle carriere universitarie“.

Una conclusione (o un inizio di discussione)

Obiettivo della tavola rotonda era di aprire un dibattito su un tema importante e poco (o solo superficialmente) affrontato dalla Politica. Il tema della didattica e ricerca in Università, nonostante la sua rilevanza, è infatti drammaticamente assente dal dibattito pubblico e non è al centro dell’attenzione politica e sociale. Perché? Che cosa possono fare i ricercatori, i protagonisti della ricerca, per cambiare questa situazione?

Per rispondere a queste domande, Elena Cattaneo ha proposto una riflessione generale sul rapporto tra scienza e società, appellandosi agli scienziati perché si assumano la responsabilità di preoccuparsi in prima persona dei problemi politici e sociali. Secondo Cattaneo, infatti, oltre che della qualità della loro ricerca e del successo nella loro carriera, gli scienziati dovrebbero preoccuparsi di recuperare una connessione con i cittadini. Prendersi questa responsabilità è fondamentale per contrastare la cultura antiscientifica e reazionaria che alimenta attacchi diretti e restrizioni alla ricerca italiana, e contribuisce a escludere temi come quello della centralità della ricerca dal dibattito pubblico.

Occorre instaurare una diversa relazione tra scienziati e politica:

“La scienza oggi non è parte del dibattito politico. Gli scienziati arrivano alla politica solo per ottenere guadagni personali, non per promuovere progetti che riguardano la comunità degli scienziati e dei cittadini. Questo è il dramma che viviamo”.

Bisogna quindi avere il coraggio di criticare apertamente le politiche che si ritiene danneggino la qualità delle Università italiane.

Marco Tamietto ha portato un esempio positivo che mostra come gli scienziati possano realmente incidere sul proprio futuro, come auspicato da Cattaneo. Nel caso specifico, come siano riusciti a riaffermare principi e valori di pluralità, sostenibilità e equità in contrasto agli oligopoli che controllano il sistema commerciale delle riviste scientifiche. Recentemente, tutti i membri dell’editorial board della prestigiosa rivista NeuroImage (oltre 40 scienziati) si sono dimessi in polemica contro l’ingiustificato aumento delle spese di pubblicazione imposte agli autori ($ 3,450) dall’editore Elsevier. L’intero gruppo di scienziati ha messo in gioco la propria credibilità scientifica, su cui si fonda il prestigio di una rivista, per fondare una nuova rivista non-profit e open access (Imaging Neuroscience, editata da MIT Press) con l’impegno di mantenere il più basse possibile le spese di pubblicazione per gli autori, e di azzerarle per studi provenienti da regioni a basso reddito (per maggiori dettagli sull’iniziativa si veda qui).

La possibilità di cambiare esiste, ed è sulle spalle di tutti.

“L’Università è un’istituzione millenaria, – è stata la chiosa di Simonato – sopravviverà anche a questi sussulti. L’Università è stata fatta da persone libere, e saranno persone libere a portarla verso il futuro”.

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