Francesco Profumo, presidente del CNR e già docente al Politecnico di Torino. Elsa Fornero, docente di economia di economia politica all’università di Torino. Renato Balduzzi, costituzionalista dell’università del Piemonte orientale. Lorenzo Ornaghi, rettore della Cattolica di Milano. Paola Severino, vicerettore della LUISS di Roma. Andrea Riccardi, docente di storia contemporanea all’università di Roma tre. Piero Giarda, docente di scienza delle finanze alla Cattolica di Milano. Corrado Clini, già docente all’università di Parma. Enzo Moevero Milanesi, già docente di diritto comunitario a La Sapienza, LUISS e quindi Bocconi.
Mi sembra che sia tutto: su 17 ministri, ben otto vengono del mondo dell’università o con esso hanno avuto rapporti assai intensi. Quasi il 50%. Sembra proprio di assistere a una vera e propria rivincita del mondo universitario sulla politica, che ormai da più di un decennio lo denigra, lo critica e lo raffigura come un mondo definitivamente in declino, occupato nelle proprie logiche clientelari e nepotiste, inefficiente e screditato a livello internazionale, ai margini della ricerca e agli ultimi posti nei ranking di qualità degli atenei del mondo. Ed ora, ecco, in un colpo, che è da questo mondo che vengono chiamati i competenti, coloro che con le proprie qualità possono raddrizzare la disastrata barca italiana, tarlata e corrosa da diciassette anni di berlusconismo.
È certo un gesto in controtendenza rispetto al plebeismo culturale che ha segnato il dibattito politico, a quella sorta di dissipazione del patrimonio cognitivo tradizionale di un paese, di un patrimonio che ancora esiste e resiste e che – nonostante le campagne di stampa e le disinformate e tendenziose ricerche su università truccate e parentopoli accademiche –riesce tuttavia ancora ad occupare posti di rilevante qualità nei ranking internazionali (vedi la tabella pubblicata sul sito ROARS). Di certo il ritorno alla valorizzazione delle competenze segna una discontinuità col passato e potrebbe costituire un modello per il futuro, in cui la politica detta le direttive generali, lasciandone l’attuazione a un governo affidato a persone al di fuori della politica e che non abbiano clientele da sfamare. Ma la strada verso questa direzione è ancora lunga e non è sicuro che tutti siano disposti ad intraprenderla.
È ovvio, le competenze non bastano e non sappiamo quali siano le politiche che effettivamente saranno intraprese, specie nel campo della ricerca e dell’università. Si potrebbe anche continuare sulla strada assai discutibile intrapresa con la riforma Gelmini, oppure si potrebbero sfruttare gli spazi aperti dai decreti attuativi per eliminare o attenuare in positivo le sue più evidenti conseguenze negative e difetti applicativi. Ma su questo si vedrà cosa il futuro ci riserva. E lo stesso vale anche per gli altri dicasteri.
Ma senza dubbio un clima nuovo si avverte: al sentire le dichiarazioni programmatiche di Monti, con quel suo tono dimesso, pacato, ragionevole sembra essere mille miglia lontani dalle spacconerie, dalle mitomanie, dalle urlate ed esagitate manifestazioni programmatiche e comportamentali a cui eravamo abituati e quasi mitridatizzati. Un sobrio e vigile ritorno alla politica dialogata e austera, che dopo tante ubriacature massimaliste e populiste suona come una ventata di aria fresca alla fine di una nottata passata nell’incubo di un postribolo dall’atmosfera viziata.
Un’ultima considerazione ci sentiamo di fare: sarà il caso, sarà il segno di una deriva irrefrenabile, ma sembra proprio che tutte le intelligenze e le competenze siano concentrate da Roma in su e negli atenei privati, che tra l’altro (sarà di certo un caso…) sono quelli che, rispetto a quelli statali, hanno le peggiori performance nei ranking internazionali tanto amati degli ipercritici del sistema pubblico dell’istruzione italiana.
(Pubblicato sul blog “Non si può stare sempre a guardare”, il 17.11.2011)