Vorrei provare a fare il punto di quanto è avvenuto nell’ateneo veneziano negli ultimi dieci giorni. Comincio dall’ateneo veneziano perché mercoledì 10 novembre, l’ultima riunione con i colleghi storici ha decretato la fine del Dipartimento di Storia a Venezia. Il dipartimento di Studi Storici ha iniziato la propria attività nel gennaio 1984, ma quel mercoledì, in seguito all’ennesima riunione che vedeva all’ordine del giorno la ristrutturazione dei dipartimenti secondo le linee guida del DDL Gelmini, il dipartimento ha sostanzialmente chiuso i battenti, dopo aver perso la propria autonomia rispetto ad altri più grandi macro-dipartimenti sostenuti da una maggiore quantità di capitale e di afferenti. Sapevamo tutti che sarebbe accaduto, ma forse per ingenuità, o forse perché comunque continuavamo a pensare che non poteva essere vero, ci eravamo illusi che non sarebbe stato possibile gettare al vento trent’anni di lavoro di storici, antropologi e sociologi. Invece si. Da un momento all’altro eravamo accademicamente senza tetto, e poiché la riforma prevede che i nuovi dipartimenti siano contraddistinti dall’unitarietà tra ricerca e didattica, quel mercoledì pomeriggio non solo docenti e ricercatori diventavano naufraghi dentro l’accademia, ma anche gli studenti, visto che un corso di laurea che non afferisce a nessun dipartimento tende gradualmente all’esaurimento.
Oggi, quasi una settimana dopo, il pasticciaccio è ancora in evoluzione: il rettore mostra intermittenti ripensamenti, la data di scadenza per trovare le famose 45 afferenze necessarie per tenere in vita un dipartimento Gelmini-style è stata posticipata di una settimana. E mentre lo spostamento in avanti della scadenza vorrebbe aiutare gli indecisi a scegliere come riciclarsi, il prolungamento dell’agonia porta a nuove liti e a nuove lacerazioni. Se dovessimo fare il sunto di tutto ciò cui ha portato sino ad ora il processo di ristrutturazione dei Dipartimenti previsto dal DDL Gelmini, in qualche ateneo già applicato precocemente, dovremmo includere nell’elenco anni di sapere e di sinergie culturali smantellate, settimane perse per creare fragili alleanze tra baroni che non vogliono affondare ed intimidazioni verso i marginali delle logiche accademiche, che diventano indispensabili pedine nel toto-acquisti dei famosi 45 e dunque oggetto delle peggiori rivendicazioni di proprietà baronale. A questo dovremmo aggiungere il senso di mortificazione di chi vede da un giorno all’altro la sua materia non avere più collocazione formale, o di chi si vede diventare a tutti gli effetti membro del “Dipartimento Eccetera”, come ha detto un mio collega. Questo clima avvelenato di antagonismo doveva essere un’opportunità per creare un ateneo nuovo. Tale peraltro era il titolo del discorso del nostro rettore all’inaugurazione dell’anno accademico: «Ca’ Foscari: un nuovo Ateneo in Italia e nel Mondo». Ma per ora in questo nuovo ateneo ci sono solo litigi e ripicche, il cui unico scopo è mantenere il controllo su quel poco che c’è.
Zoom-out
Zoom-out: mentre in un’auletta veneziana si discuteva di chiusure e di auspicabili annessioni del Corso di Laurea ad un altro ateneo, trasformando così il processo gelminiano di chiusura ed annessione di dipartimenti ed atenei in una scelta nervosa dal basso, in meno di una notte centinaia di persone si davano appuntamento a Padova per gridare «vergogna» al Premier in visita al Veneto allagato. La frenesia nell’aria diventava sintomo visibile dello stress della pazienza collettiva, e mentre le macerie di Pompei arrivavano con perfetto tempismo a simboleggiare la decadenza dello stato e dell’economia italiana, l’Irlanda dava segni di tracollo, stretta com’è tra la crisi ed un piano di salvataggio pronto a divenire un cappio politico per il paese. È importante soffermarsi per un istante sulla situazione economico-politica dell’Italia, perché se sul piano politico il criticatissimo (in perfetto stile 25 aprile) governo Berlusconi è stretto tra le liti di vecchi coniugi che si contendono l’eredità, sul piano economico esso ha anticipato nelle sue scelte le ricette di austerità imposte dalla comunità internazionale ai paesi in bancarotta come la Grecia o l’Irlanda. La logica che sta alla base del piano di risanamento pre-crisi in Italia è problematico, caratterizzato da una truce identità tra problemi e soluzioni, tra cura e malattia, ove entrambe le voci sempre più parlano di tagli, di disoccupazione, dello smantellamento del settore pubblico e della sua privatizzazione. Le ricette anticrisi somigliano alle conseguenze della crisi, e questa relazione maliziosa, potenzialmente capace di innescarsi mutualmente, solo utopisticamente potrà risolversi in modo autonomo. Al contrario, il matrimonio politico tra tagli e privatizzazione apre a problematiche aggravate, le cui soluzioni sembrano esulare dalle competenze delle istituzioni.
Il matrimonio tra tagli e privatizzazione trova nella riforma della governance del DDL Gelmini un esempio torbido. La cosiddetta riforma della governance è la parte meno appariscente della riforma universitaria. Essa non ha trovato l’opposizione esplicita che è stata data al blocco del turnover, alla precarizzazione della figura del ricercatore, ai tagli alle borse di studio, al definanziamento dell’università. Ciononostante non è meno grave, in quanto propone, per definizione, un’unione tra governo e mercato attraverso il trasferimento del potere decisionale sulle scelte di indirizzo dell’università dalla comunità accademica ad un CdA esterno, offrendo così a privati il diritto di governare il potenziale produttivo delle più brillanti menti italiane. Se questo sembra ormai scontato, “filosoficamente” le radici di questa scelta sono riconducibili ad alcuni nodi seri, secondo i quali la messa in sinergia dell’università con il mercato consentirebbe di potenziare il turnout occupazionale del percorso formativo, sincronizzando domanda ed offerta sino ad eliminare quei percorsi formativi che il mercato non assorbe. Per questa via si suggerisce implicitamente che vi siano dei corsi di laurea o discipline “inutili” nel panorama educativo ed occupazionale, il cui taglio alleggerirà il pubblico, e che la sincronia tra mercato, università e ricerca possa aiutare una ripresa dell’economia, o addirittura una fuoriuscita dalla crisi economica. Simile premessa “filosofica” deriva da tempi di crescita come quelli degli anni Ottanta, quando il mercato era (o sembrava) ancora in espansione. Oggi, tuttavia, questo ragionamento è mistificante.
Oggi il mercato è in declino, attanagliato da una crisi strutturale epocale. In Italia il mercato vive un’impasse, ove la produzione (basta ascoltare Marchionne) è scoraggiata, è controproducente, è esuberante nei costi rispetto ai profitti. Questo mercato non ha bisogno di ricerca o di innovazione, si nutre di una manovalanza possibilmente dequalificata in grado di sostenere con i propri corpi il dopo Cristo di Pomigliano. Il primo sbocco occupazionale del mercato italiano è dunque manovalanza dequalificata e sottopagata, per la quale non serve un’università, come un’università qualificata non serve per l’elettorato. La sincronia tra università e mercato, tra domanda ed offerta non va dunque a favore del maggior assorbimento di studenti formati, ma di una loro minore formazione; non intende aiutare una ripresa dell’economia, ma ridurre il dissenso ai suoi diktat. In questo modo l’università diviene non solo uno strumento attivo di educazione sinergica alle priorità del mercato, ma un luogo su cui risparmiare, tagliare, privatizzare e precarizzare, a partire esattamente da quei percorsi formativi considerati “inutili” rispetto al modello economico dominante: le discipline umanistiche, le scienze di base ed i settori economicamente più onerosi, ovvero gli stessi che sarebbero fondamentali per aprire spazi di innovazione alternativi rispetto alla crisi attuale.
Nuove generazioni
Se il declino dell’economia e lo smantellamento dell’università sono gravi, vi è un aspetto ancora più grave in questo processo di declino accelerato. La cupezza delle opportunità e la sussunzione indotta del potenziale immateriale di energia, fantasia, creatività, ed immaginazione propositiva delle nuove generazioni alle esigenze strumentali di un mercato in crisi impone, infatti, il ripiegamento servile del desiderio collettivo e dell’autonomia di pensiero. Non c’è fiducia nell’autogoverno, ma educazione alla subalternità obbediente. In questo contesto, l’induzione all’utilizzo strumentale di sé di generazioni energiche, a partire dalla percezione cupa della chiusura del futuro, diventa non tanto un’opportunità ma una violenza sigillata dall’assenza di alternative, uno strumento di manipolazione che coincide forse con il crimine più grande di questi governi. In questo contesto di subalternità arrugginita dei giovani italiani, il disegno di legge Gelmini si pone come un sigillo di marmo.
Nonostante una campagna stampa mistificante e giustificazionista, il DDL Gelmini, ci dice Tocci, è in continuo peggioramento. Il finanziamento concesso da Tremonti sancisce un taglio di almeno 500 milioni di euro che conferma il blocco ai concorsi e la messa in esaurimento della figura del ricercatore (e dunque della docenza non precaria). Il voto del DDL prima del termine della sessione di bilancio cancella gli emendamenti approvati dalla Commissione Cultura spingendo all’approvazione di un Disegno di Legge che è peggiore di quello originario, in cui «i deputati della maggioranza hanno dovuto fare una sorta di abiura approvando ben 34 emendamenti abrogativi di norme che essi stessi avevano votato solo qualche settimana fa» (Tocci, 19 Novembre). Non basta la minaccia esplicita di chiudere alcuni atenei, il sottofinanziamento, il blocco delle assunzioni ed il pensionamento di un terzo del personale docente nei prossimi otto anni. Tra gli emendamenti cancellati figurano anche la cancellazione dei livelli essenziali delle prestazioni per il diritto allo studio (borse di studio, trasporti, assistenza sanitaria, ristorazione, accesso alla cultura, alloggi. Che resta?), la conferma in ruolo condizionata alla disponibilità delle risorse, il mancato riconoscimento delle prestazioni dei contratti a tempo determinato ai fini del trattamento di previdenza. Insomma: se vorranno studiare, le nuove generazioni dovranno poterselo permettere, e se vorranno fare ricerca dovranno farlo in modo subalterno, precario e dipendente sempre più da quel lontano vertice di potere che s’incontra all’intersezione tra la baronia e il mercato.
L’intersezione di potere tra la baronia e il mercato è sempre più verticale, nello stato come nell’economia e nell’università, ad indicazione della crescente diseguaglianza che caratterizza ogni ambito sociale. Non a caso ciò che tiene vivo il modello universitario in vigore è l’energia propositiva di circa sessanta mila precari della ricerca, braccio destro oscuro di baroni distratti che ha garantito una produzione eccellente di pubblicazioni nonostante il definanziamento conclamato. E ancora non a caso, ciò che tiene viva l’economia italiana è il lavoro di milioni di donne, giovani e migranti della Generazione Precaria. In spregio a queste forze vitali, Marchionne si dice costruttore di auto senza esserne capace, mentre la Crui si autoidentifica con l’Università pubblica senza far nulla per affermare il primato di eccellenza dell’università italiana. Mentono entrambi, e non tanto per arroganza, quanto per nascondere l’intima inettitudine che regge un potere spesso eccessivo, volgare, imbarazzante e le politiche distruttive tipiche degli uomini impotenti. Gli uomini piccoli non amano le meraviglie del mondo, le sfregiano perché non vi si possono specchiare. Ecco che due generazioni sono state chiamate silenziosamente per almeno un trentennio a mantenersi obbedienti e produttive di fronte ad un corpo politico improduttivo, gerontocratico, decadente. Le giovani donne ed i giovani studenti che vivono nell’accademia italiana mostrano a volte un’intimidazione preoccupante (impressionante quando confrontata alla spontaneità estera), che da sola basta a reggere il mito dell’autorevolezza baronale. Questo stato di cose non è più sostenibile. Lo hanno dimostrato le mobilitazioni nelle università, lo ha dimostrato Pomigliano, lo ha dimostrato Rosarno. Lo ha dimostrato paradossalmente anche il caso Ruby, metafora non solo della corruzione del governo, ma dell’effetto svilente del ripiegamento della dirompenza creativa del desiderio vivo delle giovani donne sulla remuneratività del patologico. Ecco allora perché, mentre la vecchiezza di una politica impotente ed improduttiva divora nuova vita per succhiare sopravvivenza, l’unica via d’uscita è l’indisponibilità. L’unica via d’uscita per la sopravvivenza del Dipartimento di Storia era una sospensiva politica sine die. L’unica via d’uscita per la ribellione creativa delle giovani donne è l’indisponibilità fiera. L’unica via d’uscita dal DDL Gelmini è l’indisponibilità tout court.
Indisponibili
La dichiarazione di indisponibilità promossa dalla Rete 29 Aprile ha un valore simbolico importante. Aveva inizialmente il valore di indisponibilità alla didattica, di rivendicazione del diritto di non fare ciò che la legge non richiede, cosa che nel risvegliare rimostranze minatorie ha sottolineato l’abitudine generalizzata all’assenso indiscusso. Ma a ben guardare non si tratta solo di un tema interno all’accademica. I giovani studiosi manifestano la loro indisponibilità rispetto all’intero modello di conformità alla decadenza in essere. Si tratta di un’indisponibilità alla corruzione, si tratta di un’indisponibilità all’opportunismo. Si tratta di liberare l’intelligenza collettiva ed il dissenso dalla gabbia educata di accettazione che sembra contenerli, di liberare la fantasia dalla lamentela, la possibilità dalla rassegnazione, la sessualità dal calcolo, la purezza dall’ideologia. È possibile che in questi mesi la lotta dell’indisponibilità abbia trovato più ostacoli che risultati, che il processo sia stato più faticoso che remunerativo; è possibile che la mobilitazione abbia risvegliato più opposizione che simpatia. È possibile, come è probabile, che Giovedì il nefasto DDL Gelmini verrà approvato. Tutto è possibile oggi. Ma ci sono alcuni punti fermi. Primo tra tutti il fatto che non v’è uscita istituzionale al declino, perché la via istituzionale fuori dalla crisi è altra crisi. L’altro punto fermo è che comunque vada in questi mesi si è innescato un processo. Sublime, anche se ha risvegliato gli inferi di chi non ama le cartine tornasole. Complicato, perché ha rivelato gli opportunismi antisociali che posseggono l’Italia e l’accademia, gli impulsi reazionari che anche in noi rimpiangono protezione e sicurezza, la difficoltà di comunicazione tra due generazioni distanti che tuttavia condividono la voglia di dignità e di parola. Difficile, forse, ma la scelta ora è tra un continuo riprodursi di scenari emergenziali di oppressione e sacrificio e un processo graduale di liberazione dell’infinita capacità propositiva dell’intelligenza collettiva, della sensibilità, dell’unicità indispensabile di ogni corpo. La scelta è tra la disponibilità a tutto e l’indisponibilità consapevole. Vada come vada giovedì: il desiderio ha cominciato a sedurre l’obbedienza, e non a lungo si possono contenere le onde.