C’è un aspetto delle procedure di abilitazione scientifica nazionale (d’ora in poi ASN) sul quale l’attenzione si è ansiosamente appuntata nello scorso mese di ottobre e che è comune alla procedura della valutazione quinquennale della ricerca (VQR), in fase di contemporaneo svolgimento. L’infuriare delle polemiche sulle ASN rischia di far passare in secondo piano un aspetto assolutamente centrale nella quotidiana attività di chi fa ricerca. Mi riferisco all’utilizzo, sia ai fini della VQR sia per le candidature all’ASN, di versioni editoriali in formato digitale (files PDF) delle pubblicazioni da sottoporre a vaglio. Le forme di disponibilità e di accesso a quei files hanno portato involontariamente in primo piano il rapporto esistente tra autori delle pubblicazioni scientifiche ed editori, gli uni e gli altri con le rispettive esigenze, prerogative, diritti. E hanno costretto a dare risposta a domande non certo nuove, ma dormienti: a cominciare da quella elementare su chi sia in possesso di quei files, chi possa produrli, chi possa distribuirli, chi sia il titolare dei diritti d’autore su quei materiali, su quei prodotti dell’intelletto e della ricerca.

A questo proposito, prima ancora di avanzare una tesi, ci sarebbe da rivolgere una serie di domande a coloro che sono stati più o meno volontariamente co-protagonisti di questa vicenda: gli editori (per intenderci li chiamerò gli editori ‘convenzionali’, secondo un’espressione invalsa nell’uso quando si discute di modalità di pubblicazione/disseminazione della ricerca). È noto con quanta preoccupazione i candidati alle ASN abbiano effettuato il caricamento dei files PDF delle proprie pubblicazioni, a causa del timore di incorrere in violazioni di copyright (è anche emerso come generalmente nessuno dei ricercatori interessati si fosse mai interrogato in precedenza sul problema del copyright sui propri lavori). Viene allora spontanea la domanda sul perché un problema di copyright dovesse essere posto – e con insistenza tale da richiedere a un certo punto nientemeno che un protocollo d’intesa MIUR-AIE (peraltro non tale da risolvere i problemi con gli editori stranieri) – quando la questione non era di sfruttamento commerciale o di libera distribuzione di quei materiali digitali, ma di un loro limitato utilizzo nell’ambito di un’Intranet ministeriale sicura e inaccessibile al pubblico e a beneficio dei rispettivi autori nell’ambito di procedure concorsuali, ossia aventi a che fare col proprio diritto di far avanzare la propria posizione lavorativa. Il blog di Roars ha raccolto in modo molto significativo le apprensioni di candidati che non sapevano come regolarsi coi propri lavori: quegli stessi che, si noti bene, in un qualunque altro precedente concorso di tipo tradizionale chiunque avrebbe presentato in stampa cartacea o in fotocopia autenticata senza chiedere autorizzazioni a chicchessia. E quelle apprensioni paradossali (a giudizio di chi scrive) dipendevano da una questione molto semplice: dal fatto che nessuno ha avuto il buon senso di dire che quei materiali erano da intendersi liberi da controlli e utilizzabili liberamente dagli autori senza bisogno di consensi preventivi di chicchessia. La domanda è dunque: qual è stato concretamente l’interesse prevalente che si è voluto tutelare a prezzo di creare così tante incertezze e ostacoli nei confronti di chi – i candidati – stava semplicemente presentando una domanda di partecipazione a un concorso e non promuovendo riproduzioni-pirata di preziosi testi richiesti da un mercato di lettori assetati di ricerca ?

Passiamo alla VQR. Ora che sta concludendosi, si può dire quanto, anche in questo caso, i lavori dei valutatori della VQR siano stati ostacolati, rallentati, intralciati dalle modalità di accesso anche in questo caso ai files PDF dei prodotti da valutare (la precisazione indispensabile è che quanto segue vale soprattutto per le monografie, tipico prodotto delle aree socio-umanistiche). Anche in questo caso, si è creata una situazione di paradossale contraddizione tra opportunità offerte dalle tecnologie informatiche e telematiche e freni, disagi e rallentamenti causati dall’interposizione di interessi particolari. Tutti i materiali presentati per la VQR sono stati infatti resi disponibili in formati PDF e in questi formati assegnati in lettura ai valutatori selezionati all’uopo. Sorvoliamo per il momento sul punto niente affatto secondario di come e da quali soggetti sia stata curata e gestita la raccolta, archiviazione, trattamento, distribuzione di quei materiali: su questo varrà la pena una seconda puntata di riflessione. E soffermiamoci sulle modalità di accesso a quei materiali: mettiamoci, cioè nei panni di quei valutatori che per diverse settimane hanno dedicato il proprio lavoro, in genere molto lavoro alla loro lettura e valutazione. Secondo le modalità astrusamente congegnate i files PDF, in particolare quelli delle monografie, sono stati posti sotto accesso protetto da username e password sempre diversi per ciascuno (e per ciascun singolo file in cui le monografie più consistenti e ‘pesanti’ hanno dovuto essere suddivise). Questo ha significato che i valutatori sono stati costretti ad ‘aprire’ i materiali (molto spesso, come dicevamo, suddivisi in 3, 4 o più spezzoni di dimensioni gestibili dal sistema) sempre inserendo username e password distintamente richiesti dalla procedura. È ovvio che in una procedura tradizionale, basata su materiali cartacei, una tale complicazione non sarebbe stata necessaria: a nessuno sarebbe nemmeno venuta in mente. Come se non bastasse, quegli stessi files sono stati resi del tutto non modificabili facendo ricorso a sistemi di annotazione, inserimento segnalibri e tutte quelle normali modalità di lettura che si usano coi libri, che sono anzi indispensabili per una lettura attenta, ripetuta, dilazionata e che la versione avanzata del programma di lettura dei files PDF permette. La domanda, ancora una volta, è molto semplice: per quale ragione ciò è stato fatto ? Per quale motivo è stato necessario creare prima quelle ansie e poi tutti questi ostacoli ? Per tutelare chi esattamente ? Gli autori ? I valutatori ? O forse per qualche ragione che, piuttosto, ha a che fare con il copyright che agli editori viene ceduto integralmente dai ricercatori autori di monografie, i quali così facendo, rinunciano praticamente senza condizioni al controllo del proprio testo ? Sembra ovvio che la preoccupazione dominante è quella che ha a che fare proprio con quest’ultimo elemento. Ma anche ammettendone la legittimità – che, anzi, è scontata stante il presente sistema di produzione e contrattualizzazione editoriale – c’è da chiedersi quale scopo concretamente ci si è prefissi, quale vantaggio superiore si è perseguito a prezzo di così tanti svantaggi: perché se non si fosse in presenza di un vantaggio evidentemente superiore agli svantaggi causati per tutelarlo, allora saremmo di fronte alla ormai classica legge di Carlo Maria Cipolla per l’identificazione della stupidità umana. Quale interesse superiore e irrinunciabile, cioè, è stato indispensabile proteggere, anche a costo di causare così tanti disagi, preoccupazioni, ostacoli proprio per coloro che, a ben vedere, sono gli utilizzatori quasi esclusivi di quelle pubblicazioni per i propri compiti istituzionali, che siano di ricerca o di valutazione ? Quale perverso sfruttamento improprio si è temuto che candidati, commissari, valutatori potessero mettere in moto di quei pericolosi materiali in formato digitale ? Se ne temeva l’incontrollata distribuzione nei gangli della società con grave rischio di erosione dei suoi fondamenti giuridici, economici e occupazionali ?

Proviamo allora a immaginare uno scenario diverso. Cosa avrebbe impedito di dichiarare istantaneamente le pubblicazioni da sottoporre a valutazione o a supporto di candidature libere da qualsiasi diritto diverso da quello dell’autore ? Non si sarebbe potuto prevedere, semmai, una forma di ‘opt-out’ nel caso di opere (libri) con comprovato perdurante valore commerciale ? Se proprio si fosse ritenuta inevitabile una forma di tutela, non si sarebbe potuto prevedere una dichiarazione di ‘fair use’ da parte di candidati, commissari e valutatori, piuttosto che mettere sotto chiave i loro files e letteralmente marchiarne le pagine con minacciose avvertenze circa il solo uso possibile ? Quale esattamente era il timore: che tutte queste persone si trasformassero in pericolosi colporteurs (contrabbandieri) ansiosi di distribuire a piene mani dei files PDF in mezzo a migliaia di lettori invocanti?

Sono domande volutamente retoriche e provocatorie. La risposta ovvia è che così facendo si sarebbe riconosciuto l’esistenza di un diritto prevalente dell’autore, oppure non si sarebbe approfittato della situazione per riaffermare ancora una volta, sebbene senza un ragionevole scopo evidente, la posizione degli editori convenzionali. È chiaro che si sarebbe potuto e dovuto riconoscere il diritto degli autori, almeno rispetto a determinati usi e fini. Ma ciò sarebbe probabilmente suonato per qualcuno come un potenziale colpo inferto al principale puntello contrattuale sul quale si reggono le pubblicazioni di ricerca accademica in forma di libro: ossia la cessione totale e irreversibile da parte dell’autore di ogni diritto di proprietà sul prodotto del proprio lavoro a favore dell’editore. Varrà la pena ricordare un fatto che nel mondo della ricerca tutti conoscono bene e che caratterizza in modo sistematico le prassi di pubblicazione accademica. Preciso di nuovo che mi riferisco qui non alle pubblicazioni scientifiche in generale e nemmeno a quella loro importantissima parte rappresentata dagli articoli su rivista internazionale indicizzata propri delle discipline scientifico-sperimentali. Mi riferisco invece unicamente al settore costituito dalle pubblicazioni di origine accademica appartenenti agli ambiti socio-umanistici e in particolare alle monografie, ai libri. Quando parliamo di libri di argomenti umanistici, di scienze giuridiche, politiche e sociali e di parte delle scienze economiche, psicologiche e architettoniche (ossia oltre la metà del mondo della ricerca accademica), abbiamo a che fare nella stragrande maggioranza dei casi di pubblicazioni finanziate in toto dagli autori (dalle loro istituzioni o dai loro progetti, s’intende) – dunque coperte nei costi di produzione. Si tratta, inoltre, di volumi in lingua italiana che nella maggior parte dei casi, a differenza dei prodotti su riviste internazionali in lingua inglese gestite dai colossi della letteratura periodica mondiale, non hanno un vero interesse commerciale e il cui mercato è quello molto limitato della ricerca accademica nazionale, delle biblioteche nazionali e internazionali e, al massimo, degli studenti universitari (magari solo la piccola sezione degli studenti magistrali o dottorali). Di fronte a questa situazione, la domanda, ancora una volta, è una sola: perché tutto questo ? Perché questo accanimento nel restringere, controllare, limitare, l’accesso, oltretutto in sedi di tipo concorsuale e valutativo ?

Riassumiamo: lo spunto ci è stato offerto dall’impiego di versioni digitali (PDF) di pubblicazioni scientifiche a scopo di valutazione e candidatura a concorsi (concorrenti e commissari); l’oggetto è dato essenzialmente da quella parte di pubblicazioni consistente in libri (dunque in ambiti prevalentemente socio-umanistici ampiamente intesi); l’imputazione riguarda il fatto di aver voluto regolamentare (Anvur, ministero, editori convenzionali) le condizioni di accesso e uso di questi materiali a tal punto da renderne l’utilizzo estremamente difficoltoso, disagevole, pesante; l’aggravante è di averlo fatto senza una ragione comprensibile e con molti più danni che benefici di qualsiasi genere, di aver fatto rimpiangere le buone vecchie copie cartacee e di aver dunque vanificato i vantaggi della tecnologia. Naturalmente i problemi non finiscono qui, perché ve ne sono di più strutturali nel mondo delle pubblicazioni scientifiche in generale ed è indispensabile affrontarli nella loro complessità. Basta al momento osservare che tutto ciò che, in materia di pubblicazioni digitali per i concorsi, è recentemente passato nei blog accademici, e su Roars innanzitutto, costituisce la prova involontaria ma efficacissima dell’importanza di adottare sempre più ampiamente metodologie di open access per le pubblicazioni scientifiche: metodologie, cioè, che – oltre ad assicurare la massima circolazione ai minori costi possibili a vantaggio della comunità scientifica – lascino all’autore/ricercatore completa facoltà di decidere come modificare, riprodurre, distribuire, archiviare, sottoporre a giudizio la propria produzione scientifica, ad esempio, come si è visto recentemente nel nostro paese, per fini di natura concorsuale.

La creazione di ostacoli e impedimenti è sempre segno di illiberalità. Se poi sono inutili e se soprattutto non sono commisurati all’entità del problema, allora oltre che di illiberalità si tratta di perversione. Quando con così tanta evidenza si applica la definizione di Carlo Maria Cipolla, vale la pena però chiedersi se non sia giunto il momento di mettere l’intelligenza umana al servizio di una causa migliore. E questa non può essere che la creazione delle condizioni per la libera produzione e circolazione dei prodotti della ricerca attraverso canali open access. Fatti perfettamente salvi sia il diritto del ricercatore di scegliersi il tipo di diffusione e le condizioni editoriali che preferisce sia l’interesse dell’editore a tutelare il proprio investimento, non ci siamo forse trovati di fronte alla prova perfetta del fatto che il sistema di produzione e diffusione dei prodotti della ricerca – soprattutto quella parte non indifferente che non si rivolge al mercato editoriale e ai circuiti commerciali normali – andrebbe profondamente ripensato ? In conclusione, tutte le difficoltà venutesi a creare e che ancora si creeranno per i principali stakeholders – candidati ai concorsi, commissari dei medesimi e valutatori – non ci sarebbero state in presenza di un sistema scientifico-editoriale di tipo open access. In attesa di questo, c’è da augurarsi che in occasione della prossima abilitazione nazionale – sperabilmente tra poco meno di un anno – autori, candidati e commissari siano messi in condizione di fare agevolmente il proprio lavoro, senza indebite interferenze. E tanto meglio se questo servirà a preparare il terreno per un futuro fatto di maggiore libertà di disseminazione del sapere scientifico.

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19 Commenti

  1. Caro Abbatista,
    nelle vicende della ASN e della VQR ci sono da distinguere due diverse esigenze: una (legittima) di poter regolamentare il flusso delle richieste di PDF(cospicuo soprattutto per la ASN), la seconda (assurda e un po’ maldestra) quella di poter esercitare un controllo sui testi digitali. Da qui le protezioni, le password e tutti i pasticci che in alcuni casi hanno corrotto i file.
    Detto questo è dal 2004 (anno della Dichiarazione di Messina sottoscritta dalla quasi totalità dei Rettori italiani) che si parla di sostegno all’accesso aperto alla ricerca scientifica, è dunque da allora che si dovevano creare gli strumenti(regolamenti e modelli di contratto)per un più ampio e libero utilizzo e per una più ampia diffusione dei lavori di ricerca.
    Paradossalmente hanno lavorato prevalentemente i bibliotecari su questi temi. (ricordo i gruppi della CRUI sull’OA all’interno della commissione biblioteche, le linee guida prodotte sulle diverse tematiche, il wiki sull’accesso aperto, i convegni durante le settimane dell’OA).
    Negli anni passati si poteva dire che il livello di coscienza/conoscenza dei ricercatori fosse ancora troppo basso. Una nuova occasione l’abbiamo avuta con i nuovi statuti e vedremo come saranno i nuovi regolamenti.
    Lei parla come se ci fossero da un lato i malvagi editori e dall’altro i poveri ricercatori, ma nei Senati accademici, nei consigli di Dipartimentio ci state voi a decidere e a votare. cominciamo da lì, e se qualcuno ha già un Regolamento che favorisce l’accesso aperto per favore lo condivida.

  2. Condivido in buona parte il commento di Paola Galimberti, salvo un paio di precisazioni di ordine generale (dunque che vanno al di là delle problematiche dell’ASN o della VQR). 1) Non ritengo che gli editori convenzionali siano “malvagi” (né tantomeno che i ricercatori siano povere vittime), ma che semplicemente facciano il loro mestiere (più o meno bene, più o meno rispettabilmente, come tutti, del resto: e spero che questa sia materia di libera opinione). Il punto è che riscontro una divergenza oggettiva di interessi tra un certo tipo di ricerca (non tutta la produzione accademica) e un certo tipo di editoria (le vicende ASN e VQR ne sono una spia minore). Una divergenza di interessi che si manifesta in una diversissima capacità operativa e funzionale rispetto alle finalità della ricerca, che sono di impatto (brutto ma sintetico termine per circolazione, diffusione, influenza, ricadute scientifiche), non di profitto o di guadagno. Per ora mi fermerei qui: il resto può essere sviluppato se dovesse decollare su ROARS un “thread” su Open Access, cosa che mi farebbe molto piacere. 2) Mi farebbe molto piacere perché sono anch’io convinto che il grado di sensibilità dei ricercatori e soprattutto degli organi di governo degli atenei italiani verso l’Open Access sia ancora basso. E’ vero solo in parte però che ad alimentare la campagna per Open Access siano stati soprattutto i bibliotecari e che i ricercatori siano rimasti passivi: accanto a Peter Suber e a Walt Crawford c’è Robert Darnton (ospite da noi a Trieste in una recente iniziativa pro-open access) e ci sono i niente affatto isolati, anzi le centinaia o migliaia di ricercatori internazionali che hanno creato “veri” strumenti di comunicazione scientifica open access (spesso grazie al sostegno dei responsabili e dei tecnici dei sistemi bibliotecari). In ogni caso, non è questione di affermare priorità d’impegno o di valorizzare il lavoro della propria comunità d’appartenenza. Ciò che conta è che è indispensabile la stretta collaborazione tra gli uni – li chiamerei “esperti di informazione scientifica distribuita” – e gli altri – i ricercatori, ma anche gli esperti di diritto – in vista dell’adozione di policies d’ateneo alle quali – almeno secondo la mia esperienza – si sta lavorando intensamente. Come per tutte le novità, per tutto ciò che innova anche radicalmente il mondo della produzione e della comunicazione scientifica, ci vuole tempo e ci vogliono solidi argomenti capaci di convincere comunità legate comprensibilmente a prassi consolidate. Da questo punto di vista, è particolarmente importante anche che siano sempre meglio chiarite le conseguenze dell’Open Access per il “bugbear” rappresentato dalla valutazione della ricerca: ecco perché sarebbe auspicabile che il tema entrasse a pieno titolo nelle discussioni di ROARS. Vediamo se questo accadrà. Grazie di aver rilanciato, Guido Abbattista (due “b” e due “t”).

    • Mi riferivo alla situazione italiana dove i Suber e i Darnton mancano.
      Finché i ricercatori (magari sostenuti dai loro atenei o dipartimenti) non impareranno a discutere i contratti di edizione e a richiedere agli editori modulazioni diverse della cessione dei diritti perché mai gli editori dovrebbero cambiare le loro politiche?

  3. due commenti minori: 1. “l’aggravante è di averlo fatto senza una ragione comprensibile”: purtroppo questa critica mi sembra generalizzabile a molte scelte del ministero e dell’Anvur, dunque la VQR o l’ASN non mi sembrano assolutamente un caso isolato. 2. La classifica delle riviste del’Anvur va decisamente contro le pubblicazioni on-line e dunque anche contro l’open access: non so dire con precisione per le aree scientifiche, ma in area umanistica le riviste on-line sono state classificate in una lista a parte, una sorta di limbo, anche quando avevano tutte le caratteristiche per accedere eventualmente alla fascia A, solo per il fatto di essere on-line.

  4. “Perché questo accanimento nel restringere, controllare, limitare, l’accesso, …?”

    Semplice: per esercitare potere. Mi sono rileggiucchiata le leggi Cipolla, ma sembra che manchi la definizione di cos’è la stupidità. Credo che Anvur et Co., suoi emanatori e derivati, non siano stupidi. Non vogliono, semplicemente, un’università che pensi con la propria testa. E infatti, dalla cosiddetta riforma Berl. a questa parte, si è fatto di tutto per , da una parte, lasciare andare alla deriva e, da un’altra, organizzare i risultati di questa deriva mediante burocratizzazione ipertrofica e metastatica, digitalizzazione assurda e messa in subalternità (con leggi, norme, contradditorietà delle medesime tra di loro e con le altre vigenti, inosservanza di leggi ancora in vigore che sanciscono diritti e doveri fondamentali). Chi ha aderito a questo andazzo politico e ideologico, ha avuto i vantaggi e i benefici della fidelizzazione, e cioè maggiore potere anzitutto.
    Del resto questo è anche il risultato di una politica comunitaria che avevo orecchiato un quattro anni addietro e che mi permetto di riassumere con le mie parole:

    “Per valutare la ricerca scientifica, l’istanza politica si serve attualmente di standard valutativi, accettati nella forma e controversi nella sostanza soprattutto in riferimento alle discipline umanistiche. Il concetto di standard proviene, come si sa, dalla descrizione di norme condivise per lo svolgimento e la valutazione di processi avanzati di tipo tecnologico. Negli standard in base ai quali si vuole valutare la ricerca scientifica viene spesso incluso il rapporto tra la ricerca e il suo ruolo o impatto sociale. Questo porta inevitabilmente ad ampliare lo spazio delle scienze applicate (Mayor / Forti 1996: 4, 145). Ma al contempo Federico Mayor, allora direttore generale dell’UNESCO, sosteneva, citando Michael Polanyi (Mayor / Forti 1996: 142), che per gli studiosi affermati le autorità non dovrebbero pianificare la ricerca ma solo assicurare le condizioni adatte alla sua prosecuzione. Dieci anni più tardi, con la crisi economica alle porte, l’equilibrio tra le due istanze scienza ~ potere era evidentemente mutato a favore di una maggiore invasività del potere, erogatore principale delle risorse finanziarie. Perciò Janez Potočnik, commissario europeo per la scienza e la ricerca, sottolineava nel 2005 che le strategie politiche sono chiamate ad interferire con la scienza per indirizzarla verso obiettivi di rilevanza sociale (individuati evidentemente dalla politica o quanto meno attraverso la politica). Donde la preminenza accordata, come si diceva, alle ricerche con potenzialità applicative.” people.unica.it/mlorinczi/files/2011/05/Lorinczi-Valencia.pdf
    Bisognerebbe anche rileggersi la biografia di Potocnik.
    Felice 2013!

  5. Personalmente, non riesco a capire tutta l’eccitazione degli editori italiani sui diritti d’autore e sui PDF, in particolare per quel che riguarda le riviste, almeno quelle di area umanistica che io frequento. In Francia, la stragrande maggioranza delle riviste è, se non per l’anno in corso, certamente per le annate più vecchie, disponibile semplicemente anche sul sito della Biblioteca nazionale, la BNF: per scaricare i testi, basta impegnarsi a non farne uso commerciale – il che mi sembra legittimo. Questo permette, tra l’altro, una rapida circolazione di testi e di idee. Non riesco a capire perchè in Italia le riviste pretendono di arrogarsi la proprietà dei diritti d’autore, tanto più che, a differenza di quelle, per esempio, tedesche (ma come le francesi) non è prevista alcuna remunerazione per gli autori, né vengono fatti firmare contratti. La pratica corrente è che una rivista ti chiede un saggio sulle cose su cui tu lavori e tu glielo scrivi: ma perchè questo deve significare che io “cedo” i diritti? Questo è tanto più assurdo se pensiamo che fine a qualche anno fa venivano dati all’autore almeno gli estratti, equivalente – stampato – del PDF. Se noi non scrivessimo sulle riviste, permettendo loro peraltro di pubblicare testi qualificati (o almeno così dovrebbe essere)che ne dovrebbero assicurare il prestigio, queste chiuderebbero. Si può certo obiettare che, essendo spesso in perdita, le case editrici non hanno alcun interesse a finanziare le riviste: ma allora il problema va posto in altri termini. Tutta l’editoria scientifica italiana, sia per quel che riguarda le riviste che i volumi, è profondamente viziata e distorta dal fatto che non esiste un sistema di finanziamento pubblico trasparente, qual’è quello che in Francia fornisce, ad esempio, il Centre National de Lettres: in Italia il finanziamento avviene, seppure con fondi pubblici, in forma “privata”. Se le università contribuiscono a finanzaire la pubblicazione delle ricerche dei propri studiosi, non lo fanno certo vagliando la qualità di quanto proposto per la stampa (sarebbe un affronto nei confronti dei colleghi, così che spesso capita che, anche se sai che il collega è un emerito somaro, l’etichetta vuole che abbia il finanziamento richiesto). Le case editrici, dal canto loro, non hanno più redazioni scientifiche degne di questo nome e accettano le pubblicazioni su raccomandazione, attraverso una rete di conoscenze che spesso ben poco ha a che vedere con la scienza e molto con le diverse consorterie academiche; senza contare che basta garantire l’adozione di un volume, obbligando all’acquisto un tot numero di studenti (con i collegi che, per scambio di cortesie, accettano volentieri di prorpinarlo anche loro ai loro disgraziati studenti, sapendo che saranno poi ricambiati), e il gioco è fatto. Poi c’è naturalmente il pagamento diretto, pratica che non disdegna nessuna casa editrice, nemmeno le più “serie”, perchè tanto, come recitava il vecchio adagio latino, pecunia non oleat. Con buona pace della buona simonetta fiori, che, ignara dell’esistenza di questa moltitudine di pratiche (peraltro inconcepibili all’estero: in Francia per esempio si dà un programma d’esame indicando una bibliografia, ma non esiste che si dia da studiare un libro “x”), annunciava con entusiasmo qualche mese fa, quando l’ANVUR era sulla cresta dell’onda, il fatto che finalmente gli studiosi italiani avevano fatto una graduatoria delle case editrici per “scientificità” (indice ormai, se non unicamente, certamente soprattutto del “prezzo” richiesto agli autori per la pubblicazione). Tutto questo distorce fatalmente l’editoria scientifica. Non so come si potrebbe intervenire, ma penso che bisognerebbe lavorare su questi temi: l’impressione è che per la ricerca ci siano pochi soldi e vengano troppo spesso buttai dalla finestra. Buona anno a tutti e grazie a roars di esistere

  6. Riprendo e commento la precisazione di Paola Galimberti. Non importa, a mio avviso, che esistano in Italia i Suber e i Darnton: importano le idee, che circolino, che vengano acquisite, che si facciano comportamenti e che si sostanzino in iniziative concrete (meglio se policies d’ateneo) da parte del mondo della ricerca in ogni sua componente. Il punto non credo che sia “far cambiare politiche agli editori”. E non penso che la questione sia di rettifica dei rapporti contrattuali tra autori ed editori, considerata la sproporzione di forze in campo. Del resto, agli editori nessuno presume di insegnare il mestiere. Allo stesso modo, però, i ricercatori devono rivendicare un pieno controllo sui meccanismi di diffusione ottimale della propria produzione, specialmente se finanziata da fondi pubblici (come nella maggioranza dei casi): cosa che però , se si punta a cambiamenti sistemici, non sono certo i singoli a poter fare. Serve innescare trasformazioni importanti, che siano in grado di migliorare decisamente l’uso dei finanziamenti e il risultato finale in termini di produzione/disseminazione dei lavori scientifici: ecco perché la valutazione dovrebbe assecondare questo cambiamento, non ostacolarlo modellandosi su consuetudini non più adeguate. Sarebbe interessante sapere cosa ne pensa l’Anvur, dove operano persone, strutturate e non, che non ignorano affatto questi problemi. Ecco, se l’Anvur, per quanto di sua competenza, sposasse apertamente le prospettive dell’open access, invece di appiattirsi sull’esistente, renderebbe un ottimo servizio alla comunità. Galimberti sa benissimo che esistono i canali per puntare a questo obiettivo. Si tratta di un ulteriore fronte che varrebbe la pena di aprire. All’appello manca sempre, purtroppo, il MIUR: alla mia domanda su cosa il ministero intendesse fare per sostenere Open Access (la tribuna era il medesimo incontro triestino su OA di cui ho parlato in precedenza: cfr. http://www2.units.it/sdisu/ sub data 28 settembre 2011), il prof. ing. Francesco Profumo ha risposto elogiando ciò che il Politecnico di Torino ha finora messo in opera. Il che non è proprio lo stesso.

  7. Grazie a Guido Abbatista per questo intervento su un tema di grande importanza. A proposito di disinformazione, ANVUR e MIUR hanno finto di ignorare che la legge sul diritto d’autore consente la riproduzione di opere o brani di opere nelle procedure amministrative (quali indubbiamente sono VQR e ASN):

    (Legge 22.4.1941 n. 633 art. 67:
    Opere o brani di opere possono essere riprodotti a fini di pubblica sicurezza, nelle procedure parlamentari, giudiziarie o amministrative, purché si indichino la fonte e, ove possibile, il nome dell’autore.)

    A mio avviso dietro c’è ben altro: l’intero sistema, fondato sull’opzione di fondo per la bibliometria commerciale (anche nei settori c.d. non bibliometrici è “pubblicazione” quello che si vende), dissimula un massiccio tentativo di soccorrere in extremis il settore dell’editoria scientifica, altrimenti destinato ad estinguersi per difetto di una qualsiasi plausibile utilità sociale, soppiantato dalla tecnologia dell’informazione.

    Perché l’università deve pagare un editore per pubblicare lavori di studiosi che la stessa università paga per scrivere? per poi pagare abbonamenti e volumi? Si paga 3 volte il libro (stipendio, contributo di pubblicazione, acquisto volume), tre volte la rivista (stipendio dell’autore, stipendio dei peer reviewers o componenti del board editoriale, costo dell’abbonamento) con l’unico risultato di trasformare i risultati della ricerca pubblica in un oggetto di “proprietà privata” appartenente all’editore.

    Si paga tre volte per perdere la “proprietà” di ciò che si è pagato.

    Perché lo facciamo? La risposta è evidente: perché solo così i risultati diventano “spendibili” nella VQR e nell’ASN (si tratti di candidati o di candidati commissari).

    Per la verità era stato notato già parecchi anni fa come il sistema bibliometrico risultasse funzionale agli interessi commerciali dei colossi dell’editoria sceintifica (tra cui spicca il gruppo Elsevier): un giro di affari multimiliardario, totalmente a carico del sistema accademico (i costi di produzione industriale nell’era dell’editoria digitale si approssimano allo zero).

    Un fiume di denaro pubblico che alimenta rendite oligopolistiche. E oggi, grazie alla lungimiranza dei governi “liberali”, qualche rivolo anche alla morente editoria “scientifica” nazionale.

    Il gioco di specchi sui diritti d’autore nelle procedure VQR e ASN, fino al mistificante negazionismo della chiara norma dell’art. 67 LDA, rivela la natura degli interessi in gioco. Ma grazie a Roars potrebbe diventare l’occasione per ripensare i presupposti del sistema.

    L’accesso libero ai risultati della ricerca universitaria non è solo una riforma a costo zero: nel medio periodo potrebbe dar luogo a risparmi davvero consistenti (stimerei dell’ordine delle centinaia di milioni per le università italiane).

    Ovvia l’obiezione: la rivista accreditata, la collana editoriale prestigiosa, consentono una selezione e una migliore penetrazione dei risultati rilevanti e di “qualità”, che si disperderebbero nel caos dell’open access.

    Ma allora, se questo è il loro ruolo, gli editori si riconvertano ad un lavoro di indicizzazione, recensione, segnalazione: e si facciano pagare profumatamente per questo, non per monopolizzare i nostri contenuti.

  8. Ci sono una serie di studi su sistemi della ricerca europei (UK,NL,DE,DK) che dimostrano che la riconversione di un sistema toll access a un sistema OA avrebbe dei costi notevoli prima di portare ad un notevole risparmio.
    Attualmente il sistema ibrido è un sistema costoso. Una cosa è certa. Non esiste Oa gratuito. Esiste OA pgato da chi scrive (o dalla sua istituzione) o OA pagato da chi legge. (nel secondo caso si hanno le distorsioni di cui si legge in questo post)
    I costi per pubblicare OA sono molto variabili ma comunque alti per un ricercatore, per cui sarebbe necessario il sostegno delle istituzioni (ministero, ateneo ecc.). In questo senso sarà interessante vedere la sostenibilità di progetti tipo PeerJ.
    Nel caso di OA gold il lavoro dell’editore è comunque importante per la gestione della peer review, per l’indicizzazzione e per una serie di servizi aggiuntivi.
    Per le monografie la cosa è più complessa. Il buon editore (e in Italia ce ne sono alcuni) fa un lavoo non sostituibile né facilmente improvvisabile, e bisogna distinguere l’editore che si sobbarca il rischio senza richiedere contributi da parte dei ricercatori, quello che richiede un contributo perché il lavoro è molto specifico e di nicchia per cui può avere una circolazione limitata e quello che pubblica qualsiasi cosa basta che si paghi. Nel primo e nel secondo caso dei contratti meglio formulati permetterebbero agli autori un riutilizzo dei propri lavori dopo un periodo di embargo, assicurando loro una vita più lunga di quanto possa garantire la permanenza in libreria.
    Da ultimo credo che chi sostiene e pontifica sull’OA debba anche impegnarsi in prima persona a rendere disponibili i propri lavori in un archivio istituzionale o disciplinare e a leggere bene i contratti futuri.
    Per coerenza.

  9. Sono ammirato dalla capacità di semplificazione. Basta rimuovere gli ostacoli posti dal diritto d’autore (anzi, dal copyright, se esistesse in Italia) per risolvere tutto.
    Di cosa stiamo parlando? C’erano decine di migliaia di libri di carta di cui presentare una copia digitale in pdf per una procedura valutativa. N.B.: non c’erano file da far circolare, ma carta da trasformare in file e, secondo le richieste della stessa procedura, da ritrasformare in carta per mezzo di una stampante.
    La soluzione? Sarebbe bastato che qualcuno avesse avuto “il buon senso di dire che quei materiali erano da intendersi liberi da controlli e utilizzabili liberamente dagli autori senza bisogno di consensi preventivi di chicchessia”. Si tace sul chi avrebbe dovuto essere questo qualcuno, e con quale autorità poteva usare il suo prezioso buon senso. Qualcuno non era certo chiunque. Era forse il legislatore, il Ministero, l’Anvur, un interprete indiscusso?
    Ma diamo per assodato che il buon senso sia sufficiente. Bene. A quel punto gli autori, che normalmente non sono in possesso del pdf dei libri pubblicati su carta potevano tranquillamente usare gli scanner per trasformare la carta in file e caricare quel file. Che certamente sarebbero stati di qualità così straordinaria da poterli annotare, e forse persino da estrarre in seguito informazioni citazionali…
    Oppure, avrebbero potuto chiederli agli editori. Che certamente sarebbero stati entusiasti di fornirli loro gratuitamente, al di fuori da qualsiasi schema definito di gestione. Dopo tutto erano solo i loro file di stampa, mai resi pubblici prima di quel momento. Cosa volete che sia.
    Certo, stiamo parlando di migliaia di persone, imprese, dipendenti, di ogni paese del mondo. Ma, si sa, tutto si risolve con una dichiarazione di buon senso che il diritto d’autore in questo caso non si applica, che vale l’art. 67 della legge autore, come suggerito in commento (che importa se la giurisprudenza precedente sostiene che procedimenti amministrativi lì siano quelli della giustizia amministrativa: basta il buon senso, via!). E migliaia di persone, per incanto, avrebbero collaborato per il bene comune.
    Che stupidi, invece, coloro che hanno cercato di creare un ambiente per cui queste migliaia di persone avessero voglia di collaborare. Era così semplice, invece. È solo la mania di voler considerare il mondo complesso a complicare le cose.

    P.S.: Mi piace dare a Guido Abbattista e ai lettori di Roars una notizia stupefacente. Vi sono docenti universitari, in Italia, che scrivono libri che si vendono perché la gente ha voglia di leggerli. E che hanno l’ardire di pensare che abbiano anche dignità scientifica, nonostante siano comprensibili.

    P.S.2: Ne Il signor Dido di Alberto Savinio (Adelphi, 1978) c’è una diversa definizione di stupidità che suggerisco di andare a cercare.

  10. PS3: sempre per la giusta esigenza di non semplificare, quando si parla di “pubblicazioni scientifiche” (che non equivale a “testi stampati”, ma a frutti originali e innovativi della ricerca) bisognerà forse ricordare che ci sono le (molto poche) cose “per la gente” e le (molte, la maggioranza) cose non “per la gente”. Non raccontiamo storie. Non si può fare come se ci fossero solo le prime. Ci sono anche e soprattutto le seconde. Che in effetti, sì, per loro natura non sono pensate e scritte per tutti. Né che, a quanto è dato spesso di vedere, necessariamente tutti desiderano capire (dispiacerà, ma è così). Il che non dipende per forza dal fatto di non essere “comprensibili”. PS4: sarebbe interessante fare qualche ipotesi sull’esatto significato con cui viene proposta l’espressione “la gente”.

    • Ha ragione. Il termine “gente” è proprio sbagliato in questo contesto. Perché fa pensare alla divulgazione. In verità pensavo ad altro: ad esempio ai giuristi che sono letti anche da giudici e avvocati o, se scrivono di diritto d’autore, anche da editori o bibliotecari. O a politologi o economisti che sono letti anche dai cittadini, per quanto pochi siano quelli che desiderano capire. O a bibliometrici che noi tutti stiamo leggendo più o meno avidamente di questi tempi.

  11. Io credo che sia importante evitare (sempre) le generalizzazioni. Soprattutto in questo genere di discussioni – e i temi della valutazione lo stanno insegnando a chi vuol intendere – una prospettiva troppo unilaterale in materia di pubblicazioni scientifiche rischia di essere fuorviante e di non fare giustizia alla complessità di un mondo che dovrà ben anche rinnovarsi e adattarsi, ma è fatto pur sempre di consuetudini non necessariamente superate perché radicate. Ciò significa, ad esempio, che è certamente vero che a molti ricercatori sarebbe bene chiedere maggiore chiarezza espositiva, ma tenendo sempre presente che se si parla di bosoni o di DNA mitocondriale o di molecole NGF (per stare alla cronaca di questi giorni) si può certamente fare ottima divulgazione (ne abbiamo proprio in Italia esempi superbi), ma la ricerca di base e le pubblicazioni specialistiche difficilmente potranno adottare un linguaggio totalmente alieno da tecnicismi, da concetti di uso non comune o da raccolte anche imponenti di dati, tabelle, grafici, immagini. E lo stesso vale se si parla cronotopi di Bakhtin, di governamentalità di Foucault o di altri argomenti specialistici della storia, dell’economia o della psicologia. D’altra parte, tutte le discipline scientifiche senza distinzione hanno diversi livelli di comunicazione che servono per rivolgersi a pubblici diversi, a seconda che si voglia fare divulgazione, didattica, interpretazione o sintesi generale, oppure che si voglia restare, come è inevitabile che sia,entro circuiti più professionali, più tecnici e più internazionali. Basterebbe tenere presente questa molteplicità di livelli per cominciare a vedere con meno pregiudizi le problematiche della pubblicazione scientifica, dei suoi costi e della sua circolazione. Soprattutto oggi che siamo alle prese con una penuria drammatica di fondi per la ricerca e per il lavoro scientifico e universitario in generale. E, in genere, proprio crisi e mancanza di risorse sono all’origine di cambiamenti più o meno profondi, più o meno voluti, più o meno condivisi. Metodi e forme di pubblicazione, politiche e tecniche di valutazione, rispetto a questo, non sono variabili indipendenti.

  12. C’è un punto dell’interessante commento di Attanasio al mio post sul quale vorrei tornare, perché è bene che non passi inosservato. E’ quello relativo alla produzione dei file PDF ai fini della VQR e dell’ASN. Lo riporto per intero: “gli autori – dice ironicamente Attanasio – che normalmente non sono in possesso del pdf dei libri pubblicati su carta potevano tranquillamente usare gli scanner per trasformare la carta in file e caricare quel file. Che certamente sarebbero stati di qualità così straordinaria da poterli annotare, e forse persino da estrarre in seguito informazioni citazionali…[sic]”. Due commenti minori: non c’è bisogno di usare scanner per produrre file PDF, ma semplicemente una fotocopiatrice, eseguendo la stessa operazione (anzi, meno dispendiosa) che si fa per produrre una fotocopia cartacea. Dunque alla portata di chiunque. Secondo: la qualità del risultato è più che sufficiente per letture, annotazioni di ogni tipo e anche successive stampe. Mi scuso: sulla qualità dei PDF non faccio questioni di puntiglio, ma è perché mi interessa l’argomento seguente: l’estrazione di informazioni citazionali. Questo è davvero interessante. E merita un approfondimento. Vorrebbe Attanasio chiarire ?

  13. Chiarisco volentieri, pur precisando che non penso di meritare un’esegesi così attenta.
    Una fotocopiatrice con funzioni di scanner è uno scanner. Certo, oggi sono strumenti comodi, non sono più quelle macchine lente di qualche anno fa. Ma, siccome stiamo parlando di un libro, il malcapitato dovrà sfogliarlo pagina per pagina il libro, piazzarlo sulla fotocopiatrice badando che resti piatto per ridurre le ombre sui bordi interni e produrre il file. Il risultato sarà un file spesso troppo pesante (i file spezzati di cui parla Abbattista nel suo post sono per lo più quelli prodotti dagli autori), assai difficile da leggere a schermo.
    Destino finale? Il più delle volte il revisore lo stamperà e le annotazioni saranno fatte su carta.
    Chiarisco volentieri, pur precisando che non penso di meritare un’esegesi così attenta.
    Una fotocopiatrice con funzioni di scanner è uno scanner. Oggi sono strumenti comodi, non più le macchine lente di qualche anno fa. Ma, siccome stiamo parlando di un libro, il malcapitato dovrà sfogliarlo pagina per pagina, piazzarlo sulla fotocopiatrice badando che resti piatto per ridurre le ombre sui bordi interni e produrre il file. Il risultato sarà un file spesso troppo pesante (i file spezzati di cui lei parla sono per lo più quelli prodotti dagli autori), assai difficile da leggere a schermo.
    Destino finale? Il più delle volte il revisore lo stamperà e le annotazioni saranno fatte su carta.
    Il tutto a costi altissimi, se si considera – oltre al fatto che riprodurre un libro con la stampante di ufficio costa di più che acquistarlo – il tempo che i candidati impiegano nell’operazione invece di fare ricerca. Che è un costo per l’università ma ancor più per il paese, se si è convinti, come io sono, che in Italia si fa in media buona ricerca.
    Il riferimento che “merita un approfondimento” riguarda la possibilità, da taluni ventilata, di utilizzare i file raccolti nel corso delle procedure di valutazione applicando tecniche di text mining per estrarre dati citazionali. La cosa è ovviamente impossibile se il file non contiene un testo, perché non OCR, ma solo una sua riproduzione fotografica.
    Citavo il tutto per proporre due riflessioni connesse al suo post iniziale. 1) La procedura concordata tra AIE e ANVUR prima e poi tra AIE e MIUR risponde a una logica: poiché nessuno (per fortuna) ha potere coercitivo nei confronti della moltitudine di soggetti coinvolti, si è scelto di creare un ambiente che faciliti la collaborazione, fornendo alcune garanzie tecniche e giuridiche. Quel che sottoscrive l’AIE non è vincolante per alcun editore, né italiano né straniero, ma il fatto che un numero molto elevato di editori italiani e stranieri abbiano aderito ci fa pensare che le scelte fatte erano meno stupide di come lei le ha descritte. 2) Le gran parte delle difficoltà che lei cita, anche sulla facilità di utilizzo dei file, non derivano dal diritto d’autore ma da ragioni tecniche che, anzi, una migliore gestione dei file che coinvolga gli editori in modo meno affrettato, consentirebbe di risolvere.
    Il che mi fa insistere sul futuro, più che sul passato: bisogna trovare il modo di regolare flussi documentali complessi che coinvolgono decine di migliaia di soggetti di natura diversa (ricercatori, strutture universitarie, editori profit e no-profit, revisori) che hanno interessi, modalità di lavoro, competenze tecniche, abitudini, mentalità diverse. Lei stesso, nella sua precedente replica, ricorda una molteplicità di situazioni. Anch’io penso, come lei scrive nel precedente commento che è “importante evitare (sempre) le generalizzazioni”. Anche in tema di diritti d’autore.

  14. Mi dispiace che questo stia diventando uno scambio solo a due. Non era questa la mia speranza nel (ri)sollevare una questione come OA che ritengo di importanza centrale per il futuro della pubblicistica scientifica. E non vorrei perciò mettermi a commentare questione per questione, cosa che annoierebbe l’interlocutore principale, gli altri lettori di Roars e anche me (anche se non mi sento di condividere una parola della prima parte dell’ultima risposta). In ogni caso, a quanto pare è da sottolineare che la mia richiesta di chiarimento era ovviamente retorica. E la risposta largamente attesa. Il che mette a nudo uno scenario, forse per i più, del tutto nuovo. E che certamente nulla ha a che fare con le procedure VQR e ASN. Parlare di procedure di valutazione è una cosa, di indici citazionali un’altra: non mi pare opportuno che i due temi siano sovrapposti. Anch’io cerco di guardare al futuro e mi preoccupo di vedere nel presente, anche dove sono nascosti, i segni anticipatori di un futuro che ha sempre molte possibili direzioni. E non mi riferisco certo alla prospettiva di disporre di ampi database testuali integrati di letteratura scientifica italiana (periodica e non) anche per le discipline socio-umanistiche, cosa indispensabile innanzitutto alla ricerca e che ci metterebbe finalmente alla pari con paesi molto più civili del nostro sotto questo profilo (la Francia in primo luogo). Ma, appunto, questo è uno scenario futuro che a) presenta varie soluzioni possibili che sarebbe bene fossero discusse apertamente e con una partecipazione diretta del mondo accademico e b) implica un ripresa contestuale della discussione sulla valutazione della ricerca in un panorama nazionale, ad esempio rilanciando il tema delle tecniche bibliometriche per le discipline socio-umanistiche italiane, che finora, per la sua scarsa rilevanza diretta e immediata, l’hanno discusso in modo più accademico che concreto. Tutto questo senza minimamente mettere da parte il punto centrale del mio intervento: VQR e ASN sono solo spie minori, anche se estremamente fastidiose, di un problema molto più generale: quello del controllo dei ricercatori sul prodotto del proprio lavoro. E’ un discorso di diritto d’autore, certamente. E’ un discorso di equità, rispetto e buon uso delle risorse. Ed è un discorso di libertà (al plurale, senza dubbio).

  15. Intervengo con un certo ritardo, mi si perdonerà, spero.
    Lo scambio a due Attansio/Abbatista è certamente interessante anche per altri (almeno per me), ma evidenzia la distanza, già citata da Galimberti, dei ricercatori riguardo a queste tematiche. Ed è davvero un peccato, perchè è anche grazie a questo disinteresse che le politiche OA stentano a decollare e continuano ad esistere una parte di editori che si comportano, talvolta (sempre?) in maniera “malvagia”.
    Circa la possibilità di pubblicare in OA anche monografie di ricerca (oltre che articoli) ritengo fondamentale la distinzione fra, appunto, monografie di ricerca, saggistica divulgativa e manualistica. Le ultime due hanno effettivamente un pubblico che permette una produzione “tradizionale”, le prime lo hanno talmente ristretto che è pressochè sempre necessario una qualche fonte di finanziamento (o di mecenatismo, o di perdita economica calcolata). Per le prime la pubblicazione in OA non può che essere un bene per l’intero sistema dell’università (che comprende ovviamente anche gli editori): questo è quanto emerge dalla piccola esperienza di Ledizioni, di cui mi faccio portatore.

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