Come respingere gentilmente, ma con convinta fermezza, la richiesta di effettuare la review di un articolo non destinato alla pubblicazione in open access? Per chi crede nella battaglia per la scienza aperta, ecco come fare.

Recentemente è stato nuovamente affrontato su ROARS il tema del ritardo dell’Italia riguardo alle tematiche della scienza aperta.

Ne è nata una discussione piuttosto animata, dove sono riemersi tutti i pregiudizi e i falsi miti che nel corso di questi anni abbiamo puntualmente sfatato, compreso il tema della open peer review e dell’esperimento di Nature (2006).

A varie riprese nel corso degli anni sono stati lanciati appelli ai ricercatori che invitavano al boicottaggio della editoria tradizionale, sottolineandone gli elementi di insostenibilità.

Uno dei più noti è quello avviato da Tim Gowers nei confronti di Elsevier: THE COST OF KNOWLEDGE.

Per vari motivi, nonostante una adesione di principio, le iniziative di boicotaggio della editoria tradizionale procedono a rilento, per non dire che sembrano essersi arenate.

Qualcuno, tuttavia, ha continuato in maniera coerente la propria battaglia a sostegno di modalità diverse di disseminazione e validazione della ricerca scientifica.

Segnaliamo il post di Mike Taylor sul suo blog: Declining a review request for a non-open journal. L’autore spiega all’editor della rivista perché non può accettare di fare la peer review di un articolo che non è destinato ad essere pubblicato in open access. Taylor scrive anche una cortese lettera di spiegazione all’autore del contributo da validare, invitandolo a prendere in considerazione per il futuro solo riviste open access.

Auspicando che un sano spirito emulativo continui sempre più ad attecchire fra noi, i due modelli di lettera (per l’editor e per l’autore) sono resi disponibili per il riutilizzo e per eventuali integrazioni o modifiche.

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21 Commenti

  1. Pubblicare in open access in Italia (e non solo) ha dei fortissimi handicap:
    1) Prima difficoltà: la scarsità di fondi. In genere le riviste open access richiedono un “contributo” da parte dell’autore di almeno 1000 EUR (ammesso e non concesso che siano riviste serie);
    2) In passato ho pubblicato su xxx-lanl, un open access senza review, del tutto gratuito. Ma questo NON conta per gli avanzamenti di carriera, dove la rivista deve avere un i.p., cioè deve essere riconosciuta da altre ditte private come ISI-Thompson e Elsevier. Elsevier in particolare è entrata nel settore perché ha visto che questo rende molto di più che vendere le riviste… Adesso poi tutta la nostra carriera è affidata agli indici/soglie di ANVUR..
    3) Per ciò che riguarda il lavoro di review, lo faccio essenzialmente per le riviste editate dalle Società Scientifiche. Anche se questo sta (purtroppo) cambiando, il costo di abbonamento alle riviste delle società scientifiche è ragionevole, visto che la loro ragione d’essere è la divulgazione della Scienza. Da questo punto di vista la Società Americane di Fisica (APS) e di Chimica (ACS) sono le più serie, un po’ meno le riviste della Royal Society.

    Il problema è che la pubblicistica scientifica è diventato un big business che sta influenzando in maniera negativa anche la nostra “moralità”. Ma questo è un po’fuori argamento

  2. Se fosse tutto open access, io avrei molte meno pubblicazioni e molta meno libertà.

    Il muro del pagamento è un problema che deriva dai costi di abbonamento, ma resta più democratico che una rete di università paghi un abbonamento, piuttosto che io piccolo ricercatore non possa pubblicare perché non posso pagarmi l’open access. E dunque muoio.

    Una pubblicazione è un po’ un’opera d’arte. Si paga per entrare in un museo. Se il biglietto diventa equivalente all’affitto del museo, abbiamo un problema.

    Se poi non posso accedere, dato che rubare non è un delitto quando si ha fame, chiedo a un amico di un altro paese o ente di passarmi ciò che non ho. E se l’uomo della strada mi chiede una copia di una mia pubblicazione, gliela passo volentieri.

    Un’alternativa possibile è che le università facciano una colletta sui fondi c.d. overhead per pagare un certo numero di articoli a chi non ha fondi propri. Ma un ulteriore livello burocratico credo non serva oggi.

    • Armaroli80: “Se fosse tutto open access, io avrei molte meno pubblicazioni e molta meno libertà.” Che disperazione!

    • @armaroli80 Il muro del pagamento è un problema che deriva dai costi di abbonamento, ma resta più democratico che una rete di università paghi un abbonamento, piuttosto che io piccolo ricercatore non possa pubblicare perché non posso pagarmi l’open access.

      Non funziona in questo modo. non è che la sottoscrizione di un pacchetto di riviste avviene in forma consortile e invece l’adesione all’open access avviene singolarmente. Ci sono varie forme di contrattazione che prevedono ad esempio la conversione dei fondi per abbonamenti in fondi per Article processing charges (tema i cui costi benefici sono allo studio anche in Italia). Così si fa in Uk e così si fa in Olanda.
      Inoltre non tutte le riviste open access richiedono un pagamento di APC. Un giro sulla DOAJ ci permette di vedere quante riviste chiedono APC e per quale importo.

  3. Chi lavora in enti di ricerca trova tutto o tramite il proprio sistema o tramite Nilde o altri circuiti inter biblioteche.
    Chi deve fare ricerche ben definite e soprattutto meta analisi lavora in simili enti e non bada a spese.
    Se un ricercatore di un paese sperduto che ancora si collega a internet con dial-up e il Mac SE/30 ha bisogno di qualcosa di più, nessuna rivista OA permette la navigazione testuale, molte richiedono browser aggiornati.
    Mi domando davvero se tutta questa enfasi per l’OA sia davvero solo per il professore di scienze di un paese in via di sviluppo che deve spiegare ai suoi alunni la precessione degli equinozi, o se sia solo un business.

  4. Infatti io avevo in mente il Sudafrica di qualche lustro fa, ma anche il Botswana di oggi, dove ancora in certe strutture hanno i modem e gli accessi controllati. Per loro l’OA è un po’ come avere l’amico che ti ospita a Miami, ma non avere i soldi per il viaggio. L’approccio a simili argomenti è, almeno per ora, più culturale che pratico. Un po’ come le emissioni di CO2 (cibo per le piante) e l’effetto serra (grazie al quale la terra non ha una crosta di ghiaccio in superficie). Affermare che le attività dell’uomo siano responsabili dei cambiamenti climatici, lo sappiamo tutti che è una balla, ma non per questo non dobbiamo aver rispetto per l’ambiente.

    • Non capisco il punto. L’assenza di connessione internet rende l’OA un approccio culturale. Quando la connessione internet arriverà ed il ns ricercatore dovrà sborsare 30-50$ per leggere un articolo, sarà sempre un approccio culturale? O il ns ricercatre avrà dei vantaggi da trovarsi l’articolo in oa o su un repository istituzionale/disciplinare?

    • @Beniamino Cenci Goga Chi deve fare ricerche ben definite e soprattutto meta analisi lavora in simili enti e non bada a spese.

      Beh forse a chi non paga direttamente sembra che non si badi a spese, invece i bilanci delle biblioteche vengono limati ogni anno sempre di più. E’ per questo che Harvard già nel 2012 sosteneva di non potersi più permettere l’acquisto dei pacchetti di riviste, che l’università di Montreal ha cancellato l’abbonamento a 2116 riviste di Springer http://www.bib.umontreal.ca/communiques/20160506-DC-annulation-springer-va.htm, che le università tedesche (tutte) per un paio di mesi sono rimaste senza accesso alle riviste di Elsevier per l’impossibilità di trovare un accordo adeguato con l’editore, che in Olanda e in UK hanno cambiato modello di contrattazione, che la Max Planck ha lanciato un appello per scardinare le modalità di contratto offerte attualmente dagli editori http://pubman.mpdl.mpg.de/pubman/faces/viewItemOverviewPage.jsp?itemId=escidoc:2148961:6, che la LERU ha lanciato la petizione Christmas is over http://www.leru.org/index.php/public/extra/signtheLERUstatement/.
      Esiste un problema di accesso, non solo in Africa, esiste un problema di costi esorbitanti, esiste anche un problema di presa di coscienza da parte dei ricercatori. Non è che se i costi non li vedo allora non ci sono. Esistono eccome e la coperta diventa ogni anno pià corta.

  5. Per anni abbiamo combattuto l’HTML nelle email (ricordi l’ASCI ribbon campaign?), ma importava a pochi e non c’erano interessi dietro. Ora sembra che l’OA sia la soluzione di tutto. Con l’iPad originale, quello del 2010, Netflix funziona benissimo (ovvio perché a Netflix interessa fare abbonamenti, non sovraccaricare l’app di funzioni inutili), mentre molte riviste OA hanno siti così carichi di immagini e amenità varie al punto che serve un tablet con almeno 1/2 GB di RAM, i 256 kb dell’iPad originale, che è uno strumento di soli 7 anni, non basta più.

  6. Le riviste open access che leggo e su cui pubblico io (e anche ArXiv) non hanno generalmente bisogno di browser aggiornati, (sto consultando con browser Lynx solo testo!). Poi, sia chiaro, non sto facendo una statistica accurata su tutti i settori e su tutte le riviste.
    Al contrario le riviste degli editori a pagamento richiedono browser aggiornati e spesso faccio fatica ad accedere alla pagina di un articolo.
    Non per nulla, anche chi ha accesso alle riviste a pagamento, spesso usa SciHub semplicemente per comodità!

  7. In un mondo normale, chi lavora deve essere retribuito
    L’editore di una rivista, sia essa “Open-Access-But-Paid-Submission” che a sottoscrizione, pagata dalle biblioteche, lavora, e viene pagato con parte degli incassi.
    Chi scrive un libro, didattico e scientifico, generalmente, viene retribuito dagli editori a fronte degli incassi della vendita del libro.
    Chi scrive un articolo scientifico, lavora. Non deve quindi pagare per farsi leggere. Dovrebbe invece essere retribuito per scrivere su una rivista il cui editore incassa. Così come vengono retribuiti gli autori di libri.

    Chi fa la revisione di un articolo scientifico, lavora. Quindi chi fa la revisione dovrebbe essere retribuito per il lavoro che fa.
    E se fosse retribuito anche in relazione alla qualità e rapidità del referaggio, probabilmente vi metterebbe maggior cura, mosso dal legittimo interesse di essere reingaggiato dall’editore.
    Le riviste Open-Access-But-Paid-Submission usano spesso due 2 revisori.
    Ritengo ragionevole che circa il 10% dell’ “Article Processing Charge” (npittoresco eufemismo…) sia versato come compenso a ciascuno dei revisori.
    Ipotizzano un tasso di rigetto del 75% (ma in certe OpenAccess pirata forse non raggiunge l’1%…), resterebbe il 20% all’editore per coprire i costi di type-setting e del sito web.
    Considerando gli AOC è difficile credere che questi costi non possono essere coperti con la quota residua nell’ordine di 100-1000 €/$/£ per articolo.

    Per evitare venalità personali, il compenso potrebbe essere destinato in tutto o in parte ai fondi di ricerca del revisore, quindi versato direttamente all’Istituzione di afferenza. Sono ovviamente possibili anche altri schemi di remunerazione dei revisori e/o istituzioni di afferenza.
    Personalmente, riterrei opportuno che per l’Italia, i giovani para-subordinati possano beneficiare personalmente della retribuzione. Mentre per noi più anziani e stipendio-fisso-muniti, la remunerazione dovrebbe essere versata all’istituzione come fondi per ricerca libera…anche per pubblicare ulteriormente.
    Con la retribuzione dei revisori, si trasferirebbe “ricchezza” verso i giovani scienziati e verso scienziati dei paesi a più basso reddito.
    Pensate al giovane scienziato di un paese a basso reddito, che riceve forse 100-500€ al mese per il suo lavoro, lavoro che svolge in condizioni probabilmente molto più difficili di quelle di cui noi ci lamentiamo a casa nostra.
    Pensate all’impatto che avrebbe sulla qualità della sua vita referare un articolo al mese sottoposto da un collega ben retribuito di una ricca istituzione (e.g. MaxPlack, ETH, EPFL, MIT, Caltech…), e ricevere 100-500€ per il suo lavoro di revisione.

    Confido quindi che il prossimo articolo di ROARS si intotoli “Declinare la richiesta di review per una rivista che fa profitto se l’editore non ne condivide un parte con i revisori”

  8. “Chi scrive un articolo scientifico, lavora. Non deve quindi pagare per farsi leggere. Dovrebbe invece essere retribuito per scrivere su una rivista il cui editore incassa.”

    Sarebbe un argomento sacrosanto se venisse sostenuto con la stessa veemenza anche per le riviste ad accesso chiuso che hanno margini di profitto costantemente più vicini al 40% che al 30%: perché un revisore o un autore deve lavorare gratis per Elsevier?

    La mia posizione personale è la seguente:

    – revisione gratuita per riviste ad accesso aperto senza APC, nella logica del dono e fuori da quella del commercio;

    – revisione gratuita per riviste ad accesso aperto con APC ridottissime, giustificate dai costi, e non obbligatorie, come Quantum;

    – nessuna revisione per riviste commerciali ad accesso chiuso o predatorie (ammesso che ne abbiano bisogno). Qui siamo fuori dalla logica del dono: perché lavorare gratis per una rivista “il cui editore incassa”?

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