L’immagine in primo piano ritrae giovani laureandi in giacca e cravatta, tutti maschi, in una vecchia foto in bianco e nero. Il titolo dell’articolo, invece, è il seguente: Non è più com’era, “Not how it used to be”. Il senso dell’articolo dell’Economist è presto detto: l’istruzione negli Stati Uniti è in pessima salute. Peggio ancora: l’università americana, l’illuminata musa delle politiche universitarie globali è al collasso, e l’Economist le canta il requiem. Ma che cos’è successo? Il primo grido d’allarme è venuto la scorsa settimana dalla Federal Reserve. Nel Quarterly Report on Household Debt and Credit, la Fed ha annunciato che il debito studentesco statunitense è aumentato, nel terzo trimestre del 2012, di 42 miliardi di dollari. Un dato particolarmente inquietante per due ragioni. Primo, perchè l’incremento si riferisce a un solo trimestre, quello che va da fine giugno a fine settembre 2012. Secondo, perchè buona parte dell’incremento deriva dall’aumento delle insolvenze, cresciute dall’8,9% all’11% in soli tre mesi. La notizia, ripresa estesamente dal Wall Street Journal, ha un significato chiaro: stanti le attuali condizioni del mercato del lavoro, l’insolvenza studentesca è un dato strutturale, irreversibile e in costante crescita, che mette a rischio la tenuta stessa dell’università pubblica.
Notoriamente, la cosiddetta bolla del debito studentesco da tempo allarma la politica e le banche, a causa di numeri tanto elevati da oltrepassare il trilione di dollari. Il problema è duplice: presentato erroneamente come una sorta di welfare studentesco, il prestito d’onore è stato a lungo stimolato, diffuso e incoraggiato con politiche superficialmente permissive, in un processo che velava l’aumento esponenziale delle tasse universitarie per scaricarne il costo sugli studenti. È così che, in soli dieci anni, il numero di coloro che hanno contratto debiti superiori ai 40.000 dollari è decuplicato. Il debito medio, scrive il Project on Student Debt, è oggi di 26 mila dollari medi a studente al momento della laurea. Due terzi degli studenti statunitensi sono indebitati. Nel contempo, negli ultimi trent’anni, le tasse sono cresciute da una media di 1.200 dollari di tasse annue per studente nel 1976-1977, a 12 mila dollari nel 2009-2010, scrive il Digest of Education Statistics. Insomma, per diversi anni il ricorso al debito ha consentito a tutti di accedere all’università in modo apparentemente democratico, mentre i suoi costi diventavano elitari. I primi a farne le spese erano gli studenti, incentivati a ricorrere a facili prestiti e poi perseguitati dai creditori “sino alla tomba”, come scrive Malcolm Harris.
È qui che entra in gioco l’Economist, perchè oggi il sistema è saltato. Oggi il 30% degli studenti che contraggono prestiti abbandona gli studi prima ancora di finire. Contrarre più debito significa aumentare il rischio, e laddove non c’è alcun lavoro certo, la laurea stessa è incerta – solo il 57% degli studenti si laurea dopo sei anni, gli altri abbandonano prima. Un dato simile è riscontrabile in Inghilterra, scrive il Times of Higher Education, dove pure l’abbandono universitario è in aumento a partire dalla riforma Browne. Negli Usa gli studenti sempre più spesso arrivano alla laurea talmente indebitati da essere costretti a rivolgersi alle mense per i poveri. I danni sono tali che nelle ultime settimane è nato negli Stati Uniti un movimento: il no college movement. Ispirato a Zuckerberg e Steve Jobs, il movimento guidato da Benjamin Goering sostiene che sia tempo di abbandonare l’istruzione terziaria tout court. Retto tutto da argomentazioni opinabili come “ci sono miliardari che non hanno mai studiato, dunque perchè dovresti farlo tu?” e “non c’è bisogno di una laurea per avere successo”, l’anti-college movement fa leva su un’argomentazione semplice: studiare costa tanto e non serve a nulla. Così, mentre l’insolvenza diventa un dato strutturale, negli Stati Uniti il prestito d’onore e le alte tasse paiono oggi aver affossato lo stesso sistema che volevano finanziare. Si, perché mentre gli studenti rinunciano all’università, l’Economist fa notare un altro problema: strette tra i tagli federali, un mercato del lavoro saturo, immatricolazioni decrescenti e studenti sull’orlo della bancarotta, le università stesse sono al collasso.
Insomma, il prestito d’onore, quel dispositivo nato per dare ossigeno all’università pare oggi la causa stessa del collasso del sistema universitario statunintense. Una storia non bella, dunque, ma importante anche in Italia. Mentre negli Stati Uniti questo dibattito rimbalza dalle pagine del New York Times al Washington Post, Obama si esprime contro l’aumento delle tasse universitarie e da più parti emerge una rinnovata sensibilità rispetto alle finalità sociali e collettive – non private – dell’istruzione pubblica, Ichino e Terlizzese, dalle colonne del Corriere della Sera, hanno un’idea. Come ridare ossigeno ai nostri atenei? Semplice, prestiti d’onore e tasse più alte. Chi glielo dice che cos’è successo?
Da Il Fatto Quotidiano, 20 Dicembre 2012.
Io credo che una delle cause dell’alto costo dell’istruzione universitaria negli SU siano le dimensioni della macchina burocratica fatta di una selva di dirigenti (deans, associate deans, assistant deans e quant’altro) ognuno dotato di costosi uffici e segreterie. Sono questi ben pagati dirigenti che rappresentano le necessità dell’università presso i consigli di amministrazioni (“boards” di diversa natura) ed è naturale che, in assenza di una vera concorrenza, i dirigenti tendano ad incrementare il loro numero ed importanza. Molti anni fa avevo cercato di documentare questa mia opinione attraverso i dati disponibili. Ma non credo che le cose siano effettivamente cambiate. Cercherò di recuperare il mio vecchio scritto. Purtroppo le università non sono soggette ad una concorrenza in termini di costi. Come per i venditori di profumi, i bassi prezzi danneggiano le vendite. Conviene quindi, fino allo scoppio della bolla, mantenere tasse universitarie alte per non essere da meno delle “università di eccellenza”.
Ecco quello che scrivevo nel marzo del 1995 in una lettera alle Notices of the AMS consultabile all’indirizzo
http://www.ams.org/notices/199503/letters.pdf
I have been reading with great interest
reports and comments which have appeared
in the Notices on the job market
difficulties for Ph.D. mathematicians
in the U.S. Many people have
complained that rosy predictions made
just a few years ago did not come true.
Others have suggested remedies or
have voiced their distress. Current explanations
for the unpredicted decrease
of university jobs leave me unconvinced.
“Rising costs” and “budget cuts”
are explanations which raise more
questions than they answer. Of course
education is a labor-intensive activity
and as such its costs tend to go up
faster than the costs of industrial production.
But this is true of most service
activities in modern society, most of
which are expanding. What is the difference,
in particular, for education in
science and mathematics? Are we sure
that available resources are rationally
allocated? And who decides how to allocate
these resources? I looked for answers
in the Digest of Educational Statistics
(1993 edition), a publication of
the U.S. Government, which dedicates
an entire chapter (Chapter III) to “Postsecondary
Education”. My attention
was caught by a statement appearing
in the introduction to this chapter.
“Administrative expenditures (institutional
support and academic support,
less libraries) have been rising
more rapidly than most other types of
college expenditures. At public universities,
between 1980–1981 and
1990–1991, inflation adjusted administration
expenditures per full-timeequivalent
student rose 26 percent
compared with 12 percent for instruction
expenditures per student.
At private universities during the same
period, the per-student administrative
costs rose 45 percent, and the instruction
costs rose by 38 percent…
College faculty generally suffered
losses in the purchasing power
of their salaries from 1972–1973 to
1980–1981, when average salaries fell
17 percent after adjustment for inflation.
During the 1980s, average
salaries were on the rise and have recouped
most of their losses.”
The increase of “administrative expenses”
seems difficult to explain. A
clue however may be found in another
statement contained in the introductory
note to Chapter III of the Digest:
“The student-staff ratio at colleges
and universities dropped from 5.4 in
1976 to 4.8 in 1989. During the same
period the student-faculty ratio
dropped from 16.6 to 15.7. The proportion
of staff who were administrative
and other non-teaching professional
staff rose from 15 percent in
1976 to 22 percent in 1989, while the
proportion of staff identified as nonprofessional
declined from 42 percent
to 38 percent (Table 215).”
Unfortunately these data are not
fully comparable with the expenditure
data referred to previously, because
they treat a different time period and
include all institutions of higher education,
including 2-year colleges. Nevertheless
it is interesting to observe
that from 1976 to 1989 the ratio of
full-time equivalent students to fulltime
equivalent faculty dropped from
16.6 to 15.7, while the corresponding
ratio for “executive/administrative/
managerial staff” dropped from
84 to 69.2. A more dramatic decrease
affected the ratio of students to nonfaculty
professionals, which dropped
from 52.4 to 29. Another way to look
at these data is to observe that in
1976 the proportion of full-time faculty
to full-time nonfaculty professionals
or administrators was 1.75
and that in 1989 the same proportion
fell to 1.1.
It is tempting to formulate the following
hypothesis which could partially
explain budget cuts for mathematics.
Universities have always had
to balance limited resources with unlimited
opportunities for expenditures.
In the late seventies, a downard
fluctuation in resources made budget
cuts in one form or another imperative.
The decision on where to
cut was taken by a group of people
which could be loosely identified with
the “executive/administrative/managerial
staff” of the various universities.
Ultimately decisions were taken
by trustees or regents, not by employees
of the universities, and they
certainly decided on the basis of reports
and proposals made by the top
nonfaculty staff. As a group, top administrative
staff had a collective interest
to emphasize the importance of
their own work and to provide for
themselves opportunities for advancement.
This could be easily
achieved by expanding activities not
directly related to instruction, which
required an increase of nonfaculty
professionals and top administrators.
The expansion was achieved at the
expense of instruction-related activities.
This meant, of course, that budget
cuts would affect some areas of instruction.
There was no particular
reason why mathematics should not
be affected. I feel that the hypothesis
outlined above could be tested by analyzing
the evolution of resource allocation
and personnel growth in a
representative sample of universities,
which should include some of the
major state schools. If it turned out
that my conjecture was true, the mathematics
community would have to
draw its conclusions. Its first priority
would no longer be to convince the
public that mathematics needs more
support than other subjects. It would
rather be to inform whoever foots the
bill for universities (legislators, taxpayers,
students and their families,
alumni) that their money is being diverted
to expand activities which have
little or nothing to do with the universities’
real functions: teaching and
research. But if we are going to appeal
to parents and taxpayers and plead
for more consideration for instructional
needs, we should be able to
offer something. This means that we
should all pay more attention to our
duties as teachers and give more
credit and prestige in our community
to dedicated teachers.
Allessandro Figà-Talamanca
Universita La Sapienza
Rome
Complimenti per l’articolo molto interessante! Ma vorrei aggiungere un paio di considerazioni.
1. Come emerge chiaramente dal tuo articolo, questo ‘collasso’ è dovuto principalmente all’attuale forte crisi, che però mette in difficoltà ogni sistema di finanziamento. Dove l’istruzione è finanziata con il fisco, le cose non vanno meglio.
2. I principali beneficiari dell’istruzione superiore sono sia la società nel suo intero che, più specificatamente, gli studenti stessi. Consistentemente, il costo deve essere ripartito in modo bilanciato fra questi due soggetti, attraverso il fisco da un lato e i debiti d’onore dall’altro. Mi pare evidente che negli Stati Uniti ci sia uno sbilanciamento verso la seconda componente e in Italia verso la prima. Inoltre, in Italia pesa molto il sostegno delle famiglie che è meno giustificabile e limita la mobilità sociale.
In ogni caso, grazie per aver dimostrato come il prestito d’onore non sia di per sè un ‘toccasana’.
“Mi pare evidente che negli Stati Uniti ci sia uno sbilanciamento verso la seconda componente e in Italia verso la prima. ”
Le tasse universitarie in Italia sono tra le più alte d’Europa. Vediamo cosa succede nel resto d’Europa dove il sistema universitario è simile a quello italiano prima di estrapolare a realtà completamente differenti.
E’ comunque insensato paragonare il sistema italiano al sistema US, perché IL sistema US non esiste, ne esistono vari.
Per quanto riguarda la ripartizione della spesa in funzione del reditto Irpef può consultare questo articolo
https://www.roars.it/ma-i-poveri-pagano-luniversita-ai-ricchi/
Ma perche’ dare del “lei” a tutti? Boh.
Sia le tasse pagate dagli studenti che i finanziamenti statali lasciano libere le università di usare male i fondi ricevuti. Mentre penso che non sia valida la tesi ingenuamente liberista secondo la quale aumentando le tasse cresce il controllo di qualità esercitato dagli studenti, non riesco tuttavia ad accodarmi al coro dei rettori che chiedono più soldi e lamentano tagli. Ci sono ancora margini di miglioramento nella distribuzione delle risorse, e nella utilizzazione del personale docente. Per decenni gli aumenti del personale docente sono stati distribuiti secondo il principio che i posti vanno dove ci sono i professori della stessa materia che li chiedono e non dove ci sono gli studenti che hanno bisogno di insegnanti. Così docenti diversi della stessa materia insegnavano e insegnano gli uni a pochi studenti di “scienze” e gli altri a centinaia di studenti di ingegneria, farmacia, economia. Il nuovo assetto basato sui dipartimenti dovrebbe offrire gli strumenti per correggere queste storture, ma le università e i rettori non si muovono affatto in questa direzione. Non parliamo poi dell’apparente eccesso di personale delle facoltà di medicina. In questo caso il personale docente dovrebbe almeno per un terzo essere a carico del sistema sanitario nazionale. Non si tratterebbe solo di cambiare fonte di finanziamento, ma di controllare una espansione dei ruoli che rivendica le necessità dell’assistenza sanitaria nei confronti dell’università e l’autonomia della ricerca e della didattica nei confronti del sistema sanitario.
Non parliamo poi della necessità di diversificare l’offerta didattica per rispondere ad una diversificazione della domanda. Per docenti, e rettori l’insegnamento universitario deve restare lo stesso anche se se è raddoppiata la percentuale dei diciannovenni che si iscrivono all’università. Non mi addentro sul problema del reclutamento ed “inbreeding”. Tuttavia i rettori avrebbero più credito se cercassero di stilare “linee guida” per i reclutamento che scoraggino lo “inbreeding” e peggio ancora il “nepotismo”. Purtroppomolti rettori si troverebbero su questo punto in una situazione di conflitto di interessi.
Nell’articolo si parla di “bolla del debito studentesco” che da tempo oltrepassa i mille miliardi di dollari. Mi sembra una questione rilevante anche da un punto di vista piu’ generale dell’istituzione universitaria. Questo articolo andrebbe reso noto a tutti i “liberisti” nostrani specie a quelli che sull’istruzione non sanno fare altro che calare dall’alto tale l’ideologia e si inebriano della sua fraseologia.
Sarebbe interessante capire quali sono i vantaggi e l’attrattività di un simile modello e per la società e per l’individuo.
Preciso innanzi tutto che non sono un economista, quindi potrei scrivere qualcosa di inesatto.
Non sono sicuro se innalzare le tasse universitarie o istituire i prestiti d’onore sia una buona o cattiva idea. Sto leggendo la proposta di Ichino/Terlizzese che è enorme, e le osservazioni di Francesca Coin che sono anche esse molto articolate.
In questo articolo c’è un punto che mi lascia molto perplesso:
“Nel contempo, negli ultimi trent’anni, le tasse sono cresciute da una media di 1.200 dollari di tasse annue per studente nel 1976-1977, a 12 mila dollari nel 2009-2010, scrive il Digest of Education Statistics.“
Ho ricercato la fonte originale, che penso sia questa:
http://nces.ed.gov/programs/digest/d07/tables/dt07_320.asp
Mi torna che le “tuition fees” per le università erano circa 1.200 dollari nel 1977 (colonna 9) e nel 2007 11.300 dollari. (la tabella che ho linkato si ferma al 2007). E’ assolutamente ragionevole che arrivino a 12.000 dollari nel 2009-2010, avendo a disposizione statistiche più aggiornate.
Quello che però non mi torna è che le tasse siano “cresciute”, o meglio questo non è ovvio nella misura cui è riportato dall’articolo. 1.200 dollari nel 1977 avevano un potere d’acquisto molto diverso che nel 2007. Ad esempio, si veda come sono cambiati i salari degli insegnanti nello stesso periodo:
http://nces.ed.gov/programs/digest/d07/tables/dt07_075.asp
Ad esempio, il salario medio di tutti gli insegnanti impiegati nelle scuole pubbliche è passato da 13.000 dollari nel 1977 a 49.000 dollari nel 2005.
Le tution fees negli stati uniti sono effettivamente aumentate, ma l’incremento è essenzialmente nominale.
Inoltre, il parametro che dovrebbe essere analizzato non sono tanto le tuition fees (colonna 9) ma più correttamente “Total tuition, room, and board”, colonna 2, che passa da 2.275 dollari nel 1977 a 15.434 dollari nel 2007 (moltiplicato per 6.7. volte).
Quindi, in mia opinione, le tasse o meglio il costo complessivo per frequentare l’università non sono aumentate così tanto, sicuramente non nella misura in cui una lettura superficiale dell’articolo suggerisce (10 volte).
Anche io non sono un economista, ma se il salario aumenta di 3,7 volte e le tasse di 6,7 volte… io direi che le tasse sono aumentate di tanto e mi inc…. anche.
@paolo
Il confronto tra quanto erano le tasse nel 1977 (con valuta del 1977) e quanto sono nel 2010 (con valuta del 2010) non è corretto. Nell’articolo originale dell’Economist, infatti, si confronta la crescita delle tasse universitarie con la crescita del costo della vita. Io spero che questo non sia il senso nell’articolo di Francesca Coin. Spero fortemente di sbagliarmi e di essere smentito presto, ma ho paura che l’aumento di 10 volte delle tasse sia semplicemente quello nominale. Non vorrei che negli USA un professore americano di nome Joseph Nicolaosson scriva sul suo blog che denigriamo il sistema americano perché confrontiamo i semplici aumenti nominali delle tasse…
Sappiamo da sempre che il sistema sociale USA e’ estremamente costoso, proprio perche’ largamente affidato ai privati: il servizio pubblico (sanita’, universita’, etc.) costa meno di quello privato. I teorici del risparmio sulla spesa pubblica trascurano il fatto che le spese sostenute dai privati creano un debito privato che in caso di insolvenza diventa dapprima deficit delle banche e poi spesa pubblica per salvare queste ultime. Di fatto i costi delle Universita’ USA sono ingiustificati: si mettono a carico degli studenti spese che poco hanno a che vedere con l’effettivo servizio che quelli ricevono. La crisi, a mio parere, era largamente prevedibile ed e’ stata rimandata finche’ l’economia USA ha tirato (grazie anche ad un debito pubblico a sua volta molto elevato).