Ci sono alcune formule che, periodicamente riproposte, hanno lo stesso effetto galvanizzante degli sciroppi del dott. Dulcamara, o di  quello che gli americani chiamano “snake oil” e gli asiatici “balsamo della  tigre”, tutti sanno che non servono a nulla, nessuno sa bene cosa contengano, forse abbastanza trementina da dare un sollievo immediato, ma tutti sono contenti di suggerirli. Da anni sto chiedendo a coloro che blaterano questo mantra, come giustamente lo definisce Francesco Coniglione, su Roars, di spiegare cosa vogliono dire: di svolgere, come si dice in algebra, l’equazione. Altrimenti rimaniamo a un livello epidermico del discorso: che è indubitabilmente e indiscutibilmente una parola d’ordine di destra.[1]

Ogni tanto rispunta la ricetta miracolosa del dott. Dulcamara: “l’abolizione del valore legale del titolo  studio”, che avrebbe l’effetto di rimettere tutto il sistema in squadra. A proposito di quest’ultima proposta ci sarebbero molte cose da dire e ne ho già scritto i più occasioni. [2] Ho detto e lo ripeto che non sono pregiudizialmente contro una maggiore autonomia delle scelte didattiche dei singoli atenei, sulla “abolizione del valore legale” non posso neppur dire di essere a favore o contro, perché non capisco cosa voglia dire.  Il mio timore è che dietro questa formula ci sia l’ennesima attesa di un bottone, schiacciando il quale,  il resto del sistema va a posto. Una cosa è certa, l’”abolizione del valore legale” è uno slogan di destra, anzi “lo” slogan della destra italiana, assieme all’imposizione del numero chiuso. Poco prima delle elezioni del 2001 Angelo Panebianco sfidò sul Corriere della Sera Berlusconi e Fini a dire quali fossero le loro ricette per l’università italiana. A un sol uomo, come Bibi e Bibò i due risposero a stretto giro di posta con due articoli che essenzialmente contenevano, una sola duplice risposta: “Numero chiuso e abolizione del valore legale del titolo”. Si da il caso che queste risposte siano il patrimonio immutabile della destra più profonda, dal 1968 almeno, e sono entrambe altamente questionabili  da chi ci vuole riflettere  minimamente, invece di riproporre meccanicamente una formula tanto evocativa quanto vuota. Il numero chiuso sembra una ricetta quasi risibile per un sistema che ha meno laureati e meno studenti di tutti i paesi civili comparabili, ma merita tornarci nello specifico in altra sede. Il giornalista sfidante del 2001, ha fatto qualche commento che permettesse al lettore comune di capire che le risposte non erano il verbo sull’università italiana? No sirree, manco per sogno, anche perché sono convinto che su questo punto era ed è del parere di Berlusconi e Fini. Tra l’altro qualcuno dovrebbe spiegare a questi signori che, messe assieme, le due proposte sono illogiche: infatti che bisogno c’è del “numero chiuso”, se il titolo di studio non ha valore legale? Ma davvero avete mai sentito un luogo comune che riveli una profonda riflessione?

Un altro aspetto implicito nel termine “abolizione” rivela la vacuità della proposta: si abolisce qualcosa che è facilmente individuabile;  i titoli nobiliari sono “aboliti”, basta la disposizione transitoria XIV della Costituzione italiana. Poi ci ha pensato la stampa “popolare” a tenerli in vita. Vogliamo dichiarare all’art. 1 di una nuova legge: “E’ abolito il valore legale dei titoli di studio”,magari aggiungendo come per i titoli nobiliari, “valgono come parte di nome”? E che ne deriva? Come ha ben spiegato Francesco Coniglione nel suo ragionato intervento, alla fine tutto si ridurrebbe a qualche  cambiamento nella normativa dei concorsi pubblici, peraltro già in atto a seguito delle leggi Bassanini, con scarsi risultati concreti.  Il punto è che “valore legale”, è una formula sintetica che sta per una complessità di pratiche sociali  normative che non si possono sciogliere con un fiat. Abbandoniamo la formula e andiamo al sodo: il  vero problema concerne il modo di garantire, al meglio, a terzi (studenti, famiglie, datori di lavoro, clienti futuri) che un dato titolo di studio, poniamo in medicina, attribuito dalla tale università, certifica che chi lo ha ricevuto ha acquisito determinate conoscenze. Questa certificazione è necessaria perché noi viviamo in una società complessa in cui non è possibile verificare di volta in volta le competenze di una persona, il più delle volte acquisite in istituzioni lontane (ora anche in altri paesi) per cui è necessario un sistema di credenziali, come si spiega bene un testo famoso di Randall Collins, The Credential Society.[3]  In termini concreti come si può sapere se il titolo di Dottore in Giurisprudenza conseguito presso l’Università degli studi di Milano è diverso da quello conseguito eventualmente presso il CEPU o la Martinotti Foundation for Technological Enhanced Learning costituita ad hoc?

Ci sono molti modi per ottenere questo risultato e ogni paese ha il suo. In Italia ci si arriva tramite normative di pubblicità e procedure negli atti (curricoli di studio, procedure per le ammissioni, gli esami e le tesi) regolate dal diritto amministrativo e quindi dallo stato. In altri paesi tramite formule di “accreditamento” delle università  che rilasciano questi titoli. Si sta diffondendo la pericolosa illusione che se si abolisse il “valore legale del titolo”, ma di nuovo non è ancora stato spiegato bene cosa in concreto tale abolizione voglia dire, si incoraggerebbe la competizione tra le università con un miglioramento della qualità e soprattutto si libererebbero le università da rigide incombenze procedurali. Però non è stato spiegato bene mediante quali meccanismi, anche se sotto sotto si capisce che il modello di riferimento è di nuovo quello americano.

Proprio da questo punto di vista si tratta di scarsa conoscenza, per dire gentilmente,
del funzionamento reale dei sistemi universitari in altri paesi. Nella università in cui sono stato ripetutamente Visiting Scholar, la New York University, oltre all’accreditamento generale dell’Ateneo concesso da “The Commission on Higher Education of the Middle States Association of Colleges and Schools” ogni divisione o scuola (equivalenti grosso modo alle nostre facoltà) e ogni singolo corso che dà un titolo deve essere accreditato da un ente: per la precisione se ne contano 26, che vanno dall’Accreditation Council for Occupational Therapy Education, all’ American Bar
Association Council on Legal Education
, all’ American Bar Association Standing Committee on Legal Assistants, all’Association of American Law Schools,
all’American Dietetic Association Council on Education Division of Accreditation and Approval,alla Commission on Accreditation of Allied Health Education Programs – Joint Review Committee on Education in Diagnostic Medical Sonography, alla National League for Nursing e altri ancora più o meno noti od oscuri. Sono sostanzialmente 26 piccoli “valori legali” separati. Ora qualcuno dovrebbe dirmi cosa succederebbe  in Italia se, per seguire questo più liberale sistema “senza valore legale”, ogni università, invece di ricevere un unico accreditamento dal ministero e dal CUN, dovesse moltiplicare le richieste a una molteplicità di enti, che a loro volta dovrebbero in qualche modo essere accreditati, se non vogliamo che l’accreditamento per gli ingegneri edili venga dato dalla  “Furbetti del quartierino ONLUS”. Per queste ragioni a chi propone la “abolizione del valore legale del  titolo”, richiesta ispirata in molti casi, ma non tutti, da nobili intenti[4] e sostenuta da persone del calibro di Mario Monti, ho ripetutamente rivolto la richiesta iniziale, sinora non soddisfatta: per evitare la magia delle parole, chi sostiene tale provvedimento sviluppi la parentesi, come si dice in algebra: cioè sostituisca quelle sei parole con ciò che esse vogliono dire, in fatti concreti. Su questi sarà più facile discutere evitando i baconiani eidola fori. [5]

Nei quattro anni da che scrivevo il grosso di quello che precede, l’università è stata “riformata” con spirito rivoluzionario dal Ministro Gelmini, che fa parte della ristretta cerchia dei true believers di Berlusconi e che porta avanti con focoso spirito innovatore la trasformazione dell’università, progetto che ricompare in ogni documento del nostro governo comprese le due ultime “lettere fantasma” (nel senso di mancanti della firma ora di questo ora di altra autorità essenziale, lasciando interamente sulle spalle del premier la responsabilità di realizzare le promesse. Altro che risate!). L’università è stata effettivamente cambiata: rivoltata come un calzino come aveva promesso Berlusconi, senza troppo badare, nella urgenza, di dove vada a finire la cucitura. Il valore legale è stato di fatto abolito con le famose telematiche, il numero chiuso si realizza per asfissia. Si realizza così il voto di quanti, anche da sinistra, denunciano l’eccessivo numero di laureati, riprendendo dopo quasi un secolo, e probabilmente senza avvedersene, la filosofia del modello Giovanni Gentile. Tutto questo mentre alla direzione della Banca d’Italia sale Visco che sostiene che il problema dell’Italia è la mancanza di forza lavoro con istruzione universitaria. Ma il buon senso dice “meglio un asino vivo che un dottore morto”; morto, beninteso, per la fatica sovrumana di studiare.  Qualche anno fa, Jorge Semprun raccontò di aver partecipato a un viaggio propagandistico in URSS organizzato dal regime rivoluzionario per  mostrare le conquiste del socialismo a una delegatia di intellettuali simpatizzanti. Al termine del viaggio il commissario politico assegnato al gruppo fu bersagliato dalle critiche dei partecipanti, per le grandi miserie osservate, e rispose con la famosa frase di Lenin sulla rivoluzione: “non si può fare la frittata senza rompere le uova”. Al che il poeta greco-rumeno Panaït Istrati osservò seccamente “finora abbiamo visto solo gusci rotti”. Appunto.

 


[1] ) Non voglio entrare nella tiritera sulla classificazione di Renzi come destra o  sinistra, non mi interessa. Dico solo due cose: il mantra sull’università “libera” è indubitabilmente un luogo comune della destra, non ho nulla contro l’assunzione di temi “di destra” in un programma di sinistra: dipende dal contenuto, ma questo non mi sembra molto perspicuo. Un’altra obiezione che farei al sistema induttivo WIKI di Renzi ha a che vedere con il pollo induttivo di Bertrand Russell, che, come è noto, morì un certo capodanno perché  aveva dedotto una visione del mondo dalla osservazione quotidiana  della mano che ogni mattina apriva uno sportello della sua stia e versava una generosa porzione. A capodanno entra la stessa mano, afferra il pollo induttivo lo trascina su un’asse e zac! gli taglia il collo. Corollario, mettere in fila 100 desiderata è esattamente quello che fanno, in forma più greve e barocca, i programmi di tutti i partiti, possiamo fare un confronto puntuale e troveremo molte duplicazioni, che fa Berlusconi con le sue famose “letterine” (da Letta Gianni). Il compito della politica non è quello di fare l’elenco dei possibili, ma di individuare i possibili realizzabili grazie alla scelta e all’azione politica.

[3] ) Academic Press, N.Y.. 1979, in cui si studiano anche le ragioni della crisi generale dei modi di accreditamento, ingenerata proprio dall’espansione dell’istruzione superiore.

[4] ) Vedi per una analisi anche più pungente della mia, Alessandro Figà Talamanca “L’abolizione del valore legale della laurea? Uno slogan massimalista”, Il Riformista, 3 Dicembre 2005

[5] ) Nell’Università, come in qualsiasi organizzazione complessa, gli interessi particolari trovano sempre il modo di prevalere su quelli generali se la forma organizzativa non stimola circoli virtuosi spontanei sostenuti dagli appropriati controlli e da un sistema calibrato di sanzioni e incentivi.

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2 Commenti

  1. Molto corretta l’interpretazione per cui la locuzione “abolizione del valore legale del titolo di studio” è uno slogan, un “mantra”. Bisogna dire che è stato uno slogan vincente, perchè ha avuto parecchio successo, ed è per questo che viene ri-utilizzato continuamente.

    L’utilizzo di questo slogan serve, insomma, a creare uno “spazio ideologico”, attraverso un corto cicuito in chi ascolta, il quale – ignaro della complessa e ponderosa tematica che vi sta dietro, e visto lo stato pietoso del dibattito politico-giornalistico (ma anche scientifico) a riguardo – si convince che il proponente abbia una ricetta di pronto utilizzo, e soprattutto “internazionale”, per risolvere problemi. Nulla di più falso.

    Comunque segnalo un minuscolo tentativo di (cominciare a) fare un po’ di chiarezza, nella ricerca sintetica confezionata dal Servizio Studi del Senato per la Settima Commissione – che dovrebbe studiarlo, se fosse una Commissione seria
    http://www.senato.it/documenti/repository/dossier/studi/2011/Dossier_280.pdf

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