Cosa può fare l’Università italiana per promuovere la crescita del Paese ? A questa domanda i rettori delle università risponderebbero all’unisono: “abbiamo già dato”. L’università, ci direbbero i rettori, contribuisce alla crescita impartendo a centinaia di migliaia di giovani l’istruzione superiore, sempre più necessaria alla nostra economia.

Tutto vero, ma l’Università italiana contribuisce anche ad ostacolare la crescita economica ritardando, al di là del ragionevole, l’ingresso dei giovani nel sistema produttivo. Infatti quasi l’80% dei laureati di primo livello si laurea con almeno un anno di ritardo rispetto alla durata del corso. La durata media di un percorso universitario, che dovrebbe essere triennale, risultava nel 2009 di quasi cinque anni (4,85 anni per l’esattezza). In altre parole i 171.126 laureati dell’anno 2009 hanno cumulato 315.000 anni-uomo di ritardo. E’ difficile calcolare il costo economico di questi ritardi, perché non sappiamo quanti dei laureati ritardatari siano già inseriti, prima della laurea, in un’attività lavorativa. E’ quindi sicuramente eccessiva la stima che si ottiene moltiplicando gli anni uomo di ritardo per un guadagno presunto di 20.000 euro l’anno (comprendendo tasse e contributi). Ma questa stima fornisce la cifra paurosa di 6,3 miliardi di euro, vicina ai 7 miliardi di euro che lo Stato versa annualmente al sistema universitario attraverso il Fondo di Finanziamento Ordinario.

L’università italiana può quindi contribuire, in maniera non indifferente, a promuovere la crescita ponendo mano ai rimedi necessari per prevenire i ritardi.

Cosa si può fare a questo proposito? Prima di tutto bisogna isolare, come causa dei ritardi, l’eventuale attività lavorativa degli studenti. Agli studenti-lavoratori deve essere proposto un programma di studi, a tempo parziale, compatibile con i loro impegni di lavoro.

Poi, naturalmente, ci sono studenti che non riescono a tenere il passo con gli studi universitari. Non è sorprendente. Quasi il 50% dei diciannovenni si iscrive all’università. Un fenomeno irreversibile, tenuto conto del fatto che oltre il 70% dei diciannovenni consegue la maturità. E’ naturale che i quasi 300.000 giovani che ogni anno tentano di iniziare gli studi universitari abbiano spesso una preparazione inadeguata per gli studi che intendono svolgere. E’ per questo che i ritardi negli studi hanno inizio fin dal primo anno. Gli anni di corso così si accavallano provocando ulteriori ritardi. La risposta a questo problema del sistema universitario (in assenza di una scuola “post-secondaria” alternativa all’università) non può essere quella di escludere, attraverso ipotetiche prove selettive, i giovani non sufficientemente preparati. Le norme attuali, varate ai tempi del Ministro Zecchino, prevedono prove di ammissione ai diversi corsi di laurea, ma prevedono anche che gli studenti che non le superano siano inseriti in un programma di formazione, preliminare ai veri e propri studi universitari.

Come sa bene il Ministro Profumo, solo le Facoltà di Ingegneria hanno tentato di seguire queste indicazioni di legge, senza però riuscire ancora a organizzare gli studi in modo da offrire agli studenti che non superano le prove un serio programma di formazione nel primo semestre. Queste esperienze delle Facoltà di Ingegneria dovrebbero essere studiate, migliorate, ed estese a tutte le Facoltà.

Non ha senso, in questa sede, entrare nei dettagli, dico solo che si potrebbe addirittura far slittare di un semestre l’inizio della istruzione universitaria, dedicando prevalentemente il primo semestre del primo anno alla formazione preliminare necessaria per affrontare gli studi universitari.

Naturalmente, il Ministero e l’Agenzia Nazionale di Valutazione dovrebbero impegnarsi a promuovere, seguire ed incentivare queste iniziative, fissando anche obiettivi precisi per la riduzione dei ritardi negli studi, fatti salvi, naturalmente i ritardi “programmati” degli studenti lavoratori.

 

(Pubblicato su Il Riformista il 6.12.2011)

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1 commento

  1. Ragionamento e cifre impeccabili!
    Mi permetto solo di aggiungere che lo slittamento automatico di un semestre andrebbe a penalizzare i (forse pochi ma non nulli) preparati. Se i licei funzionassero bene, si potrebbe proporre un anno integrativo (con ulteriore ciclo finale di esami) solo a coloro che provengono da licei con risultati inferiori a certe soglie (ad esempio voto di maturità inferiore a 80/100 e media degli ultimi tre anni inferiore e 8/10) oppure da scuole tecniche.
    Di questo anno integrativo potrebbero occuparsi direttamente gli atenei, utilizzando come docenti tutti coloro che sono risultati improduttivi per la ricerca ai sensi della VQR (meno di tre pubblicazioni in un settennio).
    Tutto questo ridurrebbe ulteriormente i costi.

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