Molte sono state le proposte per contrastare l’aumento inarrestabile dei costi della comunicazione scientifica in un’epoca in cui ciò che conta è pubblicare il più possibile in riviste prestigiose il cui prestigio è spesso definito da un numero (IF). Fra queste proposte alcuni enti di finanziamento della ricerca (Coalition S) hanno pensato di “forzare” il sistema spingendo gli editori a trasformare le proprie pubblicazioni in gold open access convertendo così i costi per leggere in costi per pubblicare. Questa azione oltre ad avere come finalità quella di rendere accessibile a tutti la ricerca finanziata con fondi pubblici e trasparenti i criteri con cui la si valida e valuta, si propone anche di contenerne i costi e di testare nuovi modelli di business per la circolazione della informazione scientifica. Ma è ciò che sta avvenendo veramente?
Il circuito della comunicazione scientifica è stato soggetto negli ultimi trent’anni a una forte evoluzione principalmente per l’avvento del digitale.
Ciò ha permesso la riproduzione dei contenuti (pubblicazioni scientifiche) a costi prossimi allo zero. Un dato di fatto meraviglioso per la circolazione delle ricerche e per lo sviluppo della scienza ma che trova un ostacolo nel fatto che nonostante i costi di produzione siano necessariamente diminuiti (costi della carta, della riproduzione e della distribuzione via posta azzerati) i costi per l’ accesso sono costantemente aumentati, creando per pochi noti oligopolisti (Springer, Elsevier, Wiley ad esempio) profitti che raggiungono il 45%.
Sistemi di valutazione quantitativi che definiscono il prestigio delle riviste anche e soprattutto sulla base di indici numerici (indici bibliometrici come IF, o Citescore) hanno fatto sì che le riviste dei pochi oligopolisti diventassero il target naturale di ogni ricercatore che volesse progredire nella carriera o ottenere finanziamenti, creando un mercato ad offerta anelastica con forti barriere all’ingresso in cui è molto difficile entrare per nuovi soggetti.
Istituzioni anche molto prestigiose già da parecchi anni dichiarano di non potersi più permettere gli alti costi legati alla informazione scientifica.
Da più parti nel mondo singoli ricercatori, gruppi di bibliotecari e poi intere istituzioni hanno cominciato all’inizio degli anni 2000 a rilevare la necessità che la ricerca finanziata con fondi pubblici venga resa pubblicamente accessibile a chiunque.
Quando si dice ricerca finanziata con fondi pubblici si pensa alla ricerca condotta nelle nostre università, da personale pagato con fondi pubblici, che ottiene grant che sono di enti pubblici, e che regala agli editori i risultati sotto forma di articoli scientifici e contribuisce con la peer review a validare le ricerche dei colleghi.
La dichiarazione di Berlino e le successive iniziative (ad esempio la dichiarazione di Messina) promuovono da oltre 17 anni politiche di green open access, cioè di autoarchiviazione della versione referata di una pubblicazione ma non con il layout editoriale in un archivio istituzionale o disciplinare (IRIS, o Pubmed ad esempio) dopo un periodo di embargo definito dall’editore, oppure di gold open access, che prevede il pagamento di un importo per pubblicare un lavoro di ricerca una volta accettato in riviste totalmente open access (PLoS, Frontiers, MDPI), o il diamond open access che prevede la pubblicazione in riviste in piattaforme di epublishing in cui né l’autore né i lettori devono pagare ma è una istituzione che si fa carico dei costi di gestione (https://riviste.unimi.it/, https://www.ojs.unito.it/, https://journals.unibo.it/riviste/).
Accanto a queste forme di open access e raccogliendo le sollecitazioni alla apertura e alla trasparenza degli enti di finanziamento e di alcuni governi se ne è sviluppata una più subdola, l’hybrid open access. Si ha l’open access ibrido quando un autore paga perché la sua pubblicazione sia ad accesso aperto in riviste altrimenti accessibili a pagamento.
Ciò significa che se ad esempio l’abbonamento ad una rivista costa 3000 euro e pubblicare un articolo ad accesso aperto in quella stessa rivista costa 3500 euro (si tratta di un prezzo medio e realistico per le riviste degli editori for profit. Si veda il costo medio per l’università di Cambridge per un articolo pubblicato con Elsevier ) e se ho 10 autori di una istituzione che pubblicano in quella rivista pagando per avere il testo ad accesso aperto, l’editore incasserà 38000 euro, corrispondenti a 3000 euro di abbonamento e altri 35000 euro per i costi di pubblicazione. Ciò moltiplicato per tutte le riviste e per tutte le istituzioni. Questo fenomeno è noto come double dipping. Difficile da contrastare, perché i sistemi di valutazione rendono fondamentale per i ricercatori pubblicare in molte di queste riviste e i finanziatori chiedono che la pubblicazione sia in una delle forme di accesso aperto descritte sopra.
In questo contesto si inserisce Plan S il cui scopo è “making full and immediate open access a reality”.
Per rendere l’open access una realtà vengono suggerite diverse strade:
A) il gold open access in riviste o piattaforme
B) il green open access senza embargo
C) l’ibrido, ma solo temporaneamente, vale a dire attraverso contratti particolari con gli editori (transformative agreements) che prevedano che in un tempo definito (entro il 2024) l’editore trasformi tutte le sue riviste in riviste gold open access.
Il modello C prevede dunque che consorzi ed editori concludano accordi trasformativi detti Publish and Read o Read and Publish.
Nel migliore dei mondi possibili a fronte della stessa spesa consortile tutti i membri del consorzio dovrebbero accedere ai titoli dell’editore e tutti i loro corresponding author dovrebbero poter pubblicare ad accesso aperto senza ulteriori esborsi.
Ma noi non siamo nel migliore dei mondi possibili e di fatto i contratti conclusi (i primi sono partiti nel 2017) hanno visto un aumento consistente dei costi senza che d’altro canto ci sia stata la tanto attesa trasformazione come dimostra un recente studio promosso da EUA.
L’esperienza dei contratti trasformativi in altre nazioni ci insegna quanto segue:
Punto di partenza per ogni contratto sono i dati che il consorzio stesso raccoglie in merito alle spese sostenute e al numero di articoli ad accesso aperto pubblicati
I contratti trasformativi durano tre anni al massimo
I costi dovrebbero restare in linea con quelli del modello subscription (con un price cap moderato)
Tutti gli articoli (senza limite di numero) che hanno come corresponding un autore di una istituzione aderente al consorzio devono poter essere pubblicati ad accesso aperto
Ovviamente i contratti trasformativi dovrebbero anche contenere un esplicito impegno dell’editore a trasformarsi entro la fine del contratto.
In Italia i contratti trasformativi per ora proposti non sembrano riprendere nessuno di questi punti, prevedendo tra l’altro un consistente incremento dei costi.
Se però i contratti trasformativi rappresentano un momento di transizione, le istituzioni e i sistemi nazionali dovrebbero cominciare fin da subito ad interrogarsi sui possibili scenari (transizione verso cosa?), sui costi e sugli strumenti a disposizione dei ricercatori e delle istituzioni in un sistema che veda una volta tanto gli editori al servizio della ricerca e non viceversa.
*Per approfondimenti sugli esiti dei contratti trasformativi e sui possibili scenari si veda il report svedese https://www.liberquarterly.eu/article/10.18352/lq.10309/ e quello di EUA commissionato a Technopolis https://eua.eu/resources/publications/932:read-publish-agreements.html
Grazie come sempre per l’interessante articolo. Purtroppo tutti i miei colleghi sono completamente insensibili alla questione, e non credo che ci siano grosse differenze nel resto d’Italia.