Come è ormai tristemente noto, almeno fra gli addetti ai lavori, la sociologia generale ha conseguito risultati veramente pessimi sia alla VQR sia all’ASN: punteggi di qualità mediocri generalizzati e un numero di abilitati in termini assoluti e relativi estremamente basso (16,7% nell’abilitazione alla seconda fascia e 19,6% nell’abilitazione alla prima). All’interno della comunità accademica dei sociologi è deflagrato un aspro dibattito fra chi, in modo addirittura compiaciuto, sostiene che questi risultati abnormi sono semplicemente lo specchio del degrado della disciplina in buona parte del paese (a eccezione di alcune poche università del Nord, cui appartengono essi stessi) e chi, invece, prova a cercare altre spiegazioni, più plausibili sulla base proprio dei dati ufficiali. A parer mio, negli interventi che in questi mesi si sono succeduti su vari siti (in particolare il sito dell’AIS e il Blog Per la Sociologia) circolano affermazioni poco sostenibili, quando non assunti apodittici, molte superficialità e anche vere e proprie inesattezze strumentali. Per questo ho ritenuto necessario cercare di fare chiarezza affrontando la questione in modo analitico.
A questo fine proverò a smontare la premessa di valore che sia eticamente stigmatizzabile anche il solo discutere di VQR e ASN – trattandosi di un bene in sé – e alcuni assunti, l’una e gli altri presenti negli scritti dei difensori, senza se e senza ma, di VQR e ASN:
- i risultati dei due processi di valutazione sono inoppugnabili;
- i due processi di valutazione dipingono un quadro di grande mediocrità per la gran parte della sociologia italiana, dal quale si distinguono solo pochi punti di eccellenza, ubicati nelle grandi università del Nord del paese;
- la ASN e la VQR sono moralmente preferibili perché scevre da influenze particolaristiche. Grazie al rasoio di Occam, mostrerò che i risultati sia della VQR sia dell’abilitazione (sicuramente di Sociologia generale, politica e del diritto, da me analizzati in profondità) sono compatibili con l’ipotesi che in ambedue i casi le pratiche valutative siano state fortemente distorte da intenti di politica accademica del tutto estranei al processo.
Nessuno dei difensori d’ufficio si preoccupa di citare i numerosi esperti di valutazione secondo i quali i criteri e le procedure dell’ANVUR sono metodologicamente discutibili, oltre che discordanti da quelli condivisi a livello internazionale (si vedano a questo proposito anche i numerosi articolari pubblicati su ROARS). Ovviamente è del tutto lecito dissentire in modo argomentato e documentato da quelle voci critiche, ma non dovrebbe essere consentito passarle strumentalmente sotto silenzio, confidando nella scarsa informazione di chi legge.
Con qualche ironia, mi permetto inoltre di osservare che nelle valutazioni peer quali la VQR ci troviamo di fronte a un vero paradosso: come considerare per buoni i risultati della valutazione, se la disciplina – come è risultato per la sociologia – è di scadente livello generalizzato e dunque presumibilmente lo sono anche i valutatori? Questo inconveniente, nel caso in questione, è aggravato dalla scelta imprudente del GEV14 di coinvolgere nelle sue procedure un certo numero di associati, risultati poi non abilitabili per la scarsa maturità e qualità scientifica. Evidentemente le loro valutazioni a maggior ragione non possono ora essere considerate affidabili. Siamo dunque di fronte a un ulteriore circolo vizioso: se diamo per buono l’esito dell’ASN, allora dobbiamo considerare non credibile quello della VQR!
Mi sembra poco serio che sia anche stato sottaciuto un fattore di stampo prettamente metodologico, indipendente dal livello scientifico. La letteratura specialistica e numerosi articoli pubblicati su ROARS, infatti, documentano come le discipline non-bibliometriche siano sistematicamente sotto-valutate rispetto a quelle bibliometriche, proprio a causa del metodo impiegato. Anche la VQR ne fornisce una prova grazie alla parziale doppia valutazione, bibliometrica e non, di alcune discipline di confine (psicologiche ed economiche). Sulla base dei dati è stato mostrato che, in ogni valutazione simultanea in base ai due metodi, il punteggio bibliometrico ha sempre sopravanzato in modo significativo quello peer. Anche nel caso della VQR, pertanto, le discipline non-bibliometriche, fra le quali la sociologia, a parità di qualità, hanno ricevuto punteggi inferiori.
Stupisce infine che tanti illustri scienziati sociali intervenuti nel dibattito si dimostrino così poco avvertiti disciplinarmente che la valutazione, frutto di un processo sociale di mediazione e negoziazione interindividuale, si deve fondare su criteri discorsivamente condivisi fra i valutatori, i valutati e coloro che quei risultati dovranno usare per implementare le politiche del settore. Per questo non può avere mai carattere di misura oggettiva. Ebbene, nel caso della VQR, molti dei referees hanno trovato a dir poco imbarazzante l’impiego degli indicatori predisposti. Tutti sappiamo, per esempio, che il criterio dell’impatto sul dibattito internazionale, per come è formulato, ha indotto molti a dare un punteggio basso a buona parte dei prodotti valutati, anche se personalmente ritenuti di eccellente livello scientifico. D’altronde, il criterio della innovatività della metodologia si è dimostrato non solo problematico nella sua applicazione ma, a parere di molti, anche intrinsecamente sbagliato, quanto meno per una disciplina quale la sociologia. Come valutare, infatti, l’innovatività metodologica di un saggio teorico? E che giudizio attribuire a uno studio che presenta ipotesi sociologicamente banali e risultati insignificanti, ennesima riproposizione nell’ennesimo articolo ripetitivo, tuttavia rigorosamente main stream, dotato di tutto l’apparato dimostrativo “giusto” e dunque forse per questo da considerarsi innovativo? E, ancora, come comportarsi con quei lavori che al contrario, pur con una metodologia semplice o persino obsoleta, affrontano problemi importanti e arrivano a risultati di rilievo per l’avanzamento della conoscenza, perché fin dall’inizio si sono posti interrogativi originali e di spessore? Dal momento che non si era provveduto a creare un terreno di condivisione, a questi dubbi i referees hanno dato risposte molto diverse.
Nell’esperienza di molti dei valutatori il punteggio numerico totale, che il sistema calcolava sulla base dei valori assegnati ai singoli parametri, era spesso assai lontano dal giudizio qualitativo formulato all’inizio, alla lettura del saggio. Alcuni, giunti alla fine della procedura di valutazione, tornavano indietro e tentavano di coartarne i criteri, in altri casi invece – ora per la fretta del momento, talvolta per stanchezza e talaltra anche per piena fiducia nello strumento – molti accettavano per buono il punteggio complessivo calcolato dal sistema. Un membro autorevole dell’ANVUR mi ha recentemente spiegato che questo procedimento è errato, perché prima si sarebbe dovuto assegnare (informalmente su un foglio, presumo) il punteggio numerico complessivo desiderato, in coerenza con la valutazione qualitativa iniziale, poi ci si sarebbe dovuti ingegnare ad aggiustare i singoli parametri per far tornare i conti. Così, mi ha assicurato, si è fatto in tutte le (altre?) discipline non-bibliometriche.
L’insieme dei problemi qui elencati mostra con evidenza che è assolutamente errato trattare i punteggi non-bibliometrici come fossero misure oggettive, tanto più se a fini comparativi. Questo caveat è più volte rimarcato negli stessi documenti ufficiali VQR, ma completamente ignorato dai professori di sociologia, i quali possono così compiacersi di una presunta inferiorità della propria disciplina rispetto alle altre, a parer loro causata da gravi differenze fra una pletora di dipartimenti di scadente livello e pochi centri di ricerca del Nord, di sicura eccellenza e aperti all’internazionalizzazione del sapere, cui essi stessi appartengono (qualche collega intervenuto nel dibattito, giovane e ingenuo, sebbene già meritevole di abilitazione alla prima fascia, li ha addirittura accostati ai grandi dipartimenti di sociologia negli Stati Uniti). Mi spiace per questi illustri studiosi dover rilevare che proprio l’evidenza empirica della VQR da loro invocata mostra esattamente il contrario di quanto essi sostengono. In Italia, infatti, secondo i dati VQR non esisterebbe nessun dipartimento di sociologia eccellente, o anche solo di buon livello, e le disparità di qualità, tutte di misura contenuta, non ricalcherebbero affatto quelle Nord-Sud: anzi, alcuni grandi dipartimenti del Nord si trovano in una zona intermedia della graduatoria, alle spalle di alcuni piccoli e oscuri dipartimenti meridionali. Niente di strano, se non si trattasse proprio di quei dipartimenti settentrionali nei quali si è poi registrata un’altissima e del tutto abnorme concentrazione di abilitati (in un caso addirittura del 75%!), del tutto ingiustificabile – come si è invece cercato di fare da parte di più d’uno – sulla base della qualità scientifica rilevata.
Per provare a capire come si sia misteriosamente prodotta questa valutazione di aurea mediocritas generalizzata, di cui tutti fino a ora fingono di non essersi accorti, partirò dalla considerazione che le “misure” della valutazione sono il risultato provvisorio di processi interpretativi, opzioni epistemologiche, competenze individuali e condizionamenti di quelli che gli anglosassoni chiamano invisibile colleges e noi, a seconda dei casi, conosciamo anche come componenti o cordate. Se la letteratura ben documenta come le cerchie di carattere scientifico influenzino il giudizio peer (problema stranamente ignorato in Italia), a me sembra utile dedicare un po’ di spazio anche all’ipotesi complementare che nel nostro processo di valutazione, in aggiunta, abbia interferito l’appartenenza di tipo politico alle vecchie componenti accademiche e, forse soprattutto, a nuove cordate note per gli intenti moralizzatori. Sebbene non sia possibile corroborare in modo rigoroso questa ipotesi (non “dimostrare”, come scriverebbe grossolanamente qualche collega intervenuto nel dibattito) a causa della riservatezza del processo di referaggio, tuttavia l’esclusione a priori dell’influenza delle appartenenze mi sembra o fortemente sprovveduta oppure, nel caso di persone molto navigate nell’accademia, chiaramente strumentale.
Proverò pertanto a specificare l’ipotesi che nella valutazione i referees siano stati influenzati vuoi dalla conoscenza diretta dell’autore, vuoi dalla familiarità tematica, epistemologica o metodologica, vuoi anche da ragioni prettamente politiche. Sebbene gli orientamenti particolaristici in molte situazioni favoriscano pratiche collusive per accrescere la competitività della propria comunità a scapito delle altre, nel caso della sociologia, al contrario, si può ipotizzare che abbiano generato una lotta fratricida tutta interna alla disciplina stessa – indifferente alle conseguenze collettive – con il ricorso a una sistematica stroncatura pregiudiziale delle pubblicazioni degli avversari, insieme alla moderata sopravvalutazione indebita di quelle degli amici.
In virtù della riservatezza dei dati, come ho già anticipato, questa ipotesi non può essere messa alla prova in modo rigoroso, tuttavia trova non pochi sostegni in alcuni, importanti, indizi. Per esempio, sembra essere non insignificante il numero di docenti che accanto a giudizi molto lusinghieri (di punteggio massimo) hanno ricevuto valutazioni pari addirittura al minimo. E’ difficile credere che uno studioso in grado di raggiungere l’eccellenza possa contemporaneamente essere autore di pubblicazioni così scadenti da venire giudicate di livello zero e, in aggiunta, sia così imbecille da selezionarle per la VQR. Inoltre, vorrei evidenziare il clima che si era creato nella comunità dei sociologi, sicuramente poco consono a un sereno processo di valutazione. In barba alla doverosa riservatezza degli elenchi dei referees cui erano tenuti i membri del GEV, fra i dipartimenti del Nord rimbalzavano pressanti telefonate ed e-mail per chiamare gli amici “duri e puri” a prender parte alla guerra santa del rigore. Non so invece che cosa succedesse nel resto del paese. Si sa anche di appelli agli stessi “duri e puri” perché accettassero di valutare un grande numero di prodotti, allo scopo di neutralizzare vecchi baroni, notoriamente nemici giurati della qualità, i quali stavano facendo man bassa per favorire ancora una volta i colpevoli mediocri. Sulla base, inoltre, di ciò che ha scritto imprudentemente un membro del GEV14 circa la pratica di non rispettare sempre le procedure standard nell’accoppiamento fra prodotto/autore e referee, non si può neppure escludere del tutto che, al nobile scopo di imporre finalmente rigore nei confronti di colleghi e dipartimenti per convinzione di qualcuno di basso livello, siano stati distribuiti in lettura i loro prodotti proprio a quei referees, ben noti a tutti, che andavano manifestando pubblicamente analoghi intenti di “pulizia scientifica”. In questo bel quadro, che di finalità scientifiche ha ben poco, è anche possibile che certi “non puri e non duri”, come si sa a loro volta organizzati in cordate, oltre a favorire i propri prótegés, da subito abbiano anche adottato autonomamente comportamenti vendicativi verso coloro che con arroganza pretendevano di essere antropologicamente superiori, oppure che solo a un certo punto, allertati su ciò che stava accadendo, siano corsi ai ripari.
Sebbene, come già sottolineato, non si possano fare affermazioni con inoppugnabile rigore, tuttavia, se non si accetta di piegare i dati ai propri fini, come fa purtroppo qualcuno, ma neanche di dare per scontato l’esito della VQR secondo cui tutti i dipartimenti italiani, senza distinzione alcuna, sarebbero scadenti (perché tutti sappiamo semplicemente che non è così!), allora mi sembra utile prendere sul serio gli indizi di comportamenti particolaristici dei valutatori, sensibili all’appartenenza di cordata, che avrebbero accresciuto a dismisura il numero dei giudizi pregiudizievoli totalmente negativi, non bilanciati da speculari valutazioni generose agli amici. L’esito, probabilmente non previsto, è stato il crollo di tutti i valori medi, dei singoli studiosi, dei dipartimenti e dell’intera disciplina. Perfino il membro dell’ANVUR già citato mi ha personalmente confessato che la valutazione della sociologia ha dell’incredibile e non trova spiegazione alcuna di ordine scientifico.
L’ipotesi esplorata, di lotta fratricida tutta interna alla disciplina, ha anche il pregio di essere parsimoniosa perché, oltre alla mediocrità generalizzata descritta dai dati, è in grado di rendere conto anche dell’esito infausto degli ultimi progetti PRIN, con l’esclusione completa della sociologia dai finanziamenti, e della migliore performance della sociologia economica nella VQR, senza che si sia costretti ad assumere, come è stato fatto, una presunta inferiorità (genetica?) dei sociologi generali. Più seriamente, i migliori risultati potrebbero dipendere dal fatto che nell’area della sociologia economica il netto predominio, da sempre, di un unico gruppo di potere incentivi l’affermarsi nelle procedure valutative di comportamenti cooperativi e scoraggi l’emergere di orientamenti punitivi.
Riassumo allora qui di seguito le ragioni per le quali sarebbe doveroso che, riferendosi ai risultati della VQR, chi è intervenuto nel dibattito, così severo quando si tratta dell’eccellenza scientifica degli altri, avesse saputo usare anche personalmente cautele metodologiche, rigore critico e, va da sé, evitato di farne un’arma in favore del potere di alcuni: 1) gli esperti di valutazione non sono affatto concordi sull’appropriatezza della metodologia impiegata dall’ANVUR, 2) la bassa valutazione della sociologia dipende (non si sa quanto) anche dai metodi non-bibliometrici utilizzati; 3) i dati VQR contraddicono l’immagine di una sociologia italiana divisa fra pochi centri di eccellenza del Nord e una pletora di dipartimenti più che mediocri; e 4) last but not least, gli stessi dati sono invece compatibili con l’ipotesi parsimoniosa – pur tutta da provare – che nel processo di valutazione abbiano giocato un ruolo forse determinante l’appartenenza a invisibile colleges (come avviene in tutte le valutazioni fra pari, in tutto il mondo) e, hic et nunc, interessi extra scientifici e intenti politici, connessi a componenti di vecchia data e soprattutto nuove cordate in via di affermazione, che hanno gravemente nuociuto alla disciplina.
Qualcosa di più si può dire sulla presenza di pratiche particolaristiche di stampo correntizio nell’operato della commissione di Sociologia generale, politica e del diritto e nelle sue scelte assolutamente anomale, che hanno scatenato un violento dibattito all’interno della comunità sociologica e la preparazione (tuttora in corso) di un ingente numero di ricorsi al TAR. Grazie alle informazioni trasparenti e accessibili sul web, da parte mia, con un metodo rudimentale e obsoleto – sicuramente meritevole di bassa valutazione della VQR ma efficace – ho provato a confrontare qualitativamente le espressioni di voto dei singoli commissari con i curricula dei candidati. In considerazione della gravosità del lavoro, per ora mi sono limitata ad analizzare le espressioni di voto negativo ai candidati risultati poi abilitati senza unanimità, prendendo in considerazione le loro appartenenze a cerchie accademiche. Ne sono emerse logiche illuminanti, di sicura matrice particolaristica. Per convincere i lettori che c’è del vero, propongo a chi fra loro è sociologo, o comunque conosce bene le dinamiche interne a questa area accademica, di cimentarsi in un piccolo gioco, cercando di indovinare gli interessi di cerchia perseguiti dai commissari, anonimi, sulla base dell’appartenenza dei candidati abilitati cui hanno assegnato voto negativo. Per brevità faccio solo due esempi, ma potrei completare con gli altri due commissari italiani.
Prima domanda: a quale cerchia fa riferimento il commissario che ai candidati poi abilitati ha distribuito i propri voti negativi nel modo seguente:
- a candidati “cattolici”, di area Sociologia per la persona (l’appartenenza è frutto di mie informazioni personali e/o desunta dalla sede di lavoro – Milano Cattolica, Verona, Bologna Scienze politiche e Genova – e/o dai nomi dei cofirmatari delle pubblicazioni),
- a candidati di AIS3 (provenienti da Pisa e Roma La Sapienza e dei quali ho controllato i nomi dei co-firmatari nelle pubblicazioni), e
- a candidati del Centro-Sud? Secondo indovinello: a quale componente appartiene il commissario che ha concentrato i propri numerosi voti negativi a candidati poi abilitati (essendo invece stato con i non abilitati molto più generoso degli altri commissari italiani) su candidati tutti di estrazione MiTo (altra cerchia accademica, per quanto meno strutturata delle precedenti, radicata prevalentemente, anche se non esclusivamente, al Nord, come dice il suo stesso nome), da me individuati in base ai criteri prima indicati, soprattutto appartenenti alle grandi università del Nord?
Anche chi non sia riuscito a rispondere con facilità agli indovinelli proposti, in virtù della strutturazione dei voti potrà ipotizzare (o sospettare) che, contrariamente a quanto affermato con apodittica e non-discutibile sicurezza da tutti coloro che sono intervenuti in difesa della commissione in questione, pratiche particolaristiche di gruppo abbiano avuto ampio spazio anche nell’ASN, sebbene quanto abbiano pesato sugli esiti non sia possibile asserire senza ulteriori approfondimenti. Qualcuno potrebbe addirittura pensare che a queste scelte particolaristiche siano connesse le tante anomale concentrazioni di abilitati, per esempio, in certi grandi atenei del Nord sedi attuali o passate di alcuni commissari, o fra redattori e autori di certe riviste, sempre legate a certi commissari. Si tratta di un non detto pubblico, tuttavia basta parlarne in privato con i colleghi in giro per il paese per constatare che una buona parte di loro è assolutamente convinta di quale gravità abbia assunto il fenomeno per la stessa sopravvivenza della disciplina.
In conclusione di questa disamina, mi sento di affermare che i principi del rigore, del merito e dell’adeguamento agli standard internazionali nel caso della sociologia italiana vengono usati da alcuni come strumenti puramente ideologici in una guerra tutta politica, di stampo neo-liberista, estranea alle finalità etiche sbandierate e messa in campo da una cerchia accademica con pretese di egemonia assoluta, in virtù di una superiorità auto-proclamata, ora dimostratasi platealmente lontana dall’evidenza dei dati. In molti ritengono che questo nuovo gruppo, radicato in alcune grandi università del Nord, abbia una concezione della scienza avversa al pluralismo e in modo spregiudicato si mostri incline al particolarismo né più né meno (e forse addirittura peggio) di quelli del passato, che in tanti deprechiamo.
Nella situazione attuale, per fortuna, ci sono anche delle opportunità. Il nuovo assetto normativo e l’abilitazione nazionale a numero aperto, fatta venir meno l’utilità delle politiche spartitorie delle vecchie cordate accademiche, rendono ora inevitabili nuove strategie. Nella prima applicazione della VQR e dell’ASN, come ho cercato di mostrare, nell’area sociologica si è affermata una perniciosa lotta ad excludendum, che ha lasciato molti cadaveri sul campo e nessun vincitore: tutti, chi più chi meno, hanno avuto punteggi mediocri, quasi ovunque la disciplina, svalutata dalla VQR e priva di abilitati, sarà progressivamente emarginata, mentre gli abilitati, da parte loro, tutti concentrati in pochissimi dipartimenti, non troveranno facile collocazione, assolutamente privi come sono, in questo clima, della indispensabile collaborazione di altri atenei. Come uscirne? Sicuramente vanno cambiate regole sciagurate dell’abilitazione e criteri della VQR, inventati dalla Gelmini per imporre finalmente la meritocrazia ai baroni universitari (come se tutte le regole che si sono succedute nel passato non avessero sempre richiesto di scegliere meritocraticamente i migliori!). Tuttavia, come ha confermato anche l’esperienza dell’ASN e della VQR, nessuna regola può imporre responsabilità ed etica professionale a commissari e valutatori. Il fatto è che nel nostro sistema universitario è saltata qualunque forma di contratto sociale fra uno stato che pretende di imporre dall’alto, in modo burocratico e punitivo, unilaterali obiettivi di eccellenza sempre più elevati e l’università allo stremo, per il taglio progressivo dei fondi e la continua delegittimazione. Una contraddizione che rivela chiaramente il carattere ideologico se non bassamente strumentale di quella pretesa. Senza raggiungere una coscienza collettiva dei processi politici in atto la crescente sproporzione fra mete autoritariamente imposte e risorse concesse è destinata a scatenare durissime lotte per la sopravvivenza, favorendo ogni forma di devianza sia nei mezzi sia nei fini, come ci ha insegnato un nostro maestro di nome Robert K. Merton. Chi ne soffrirà le drammatiche conseguenze saranno l’università e quel diritto allo studio che i Padri costituenti vollero invece garantito.
Cara Bianco,
buona la tua analisi, ma incompleta. Alla luce anche dei risultati della seconda tornata, si potrebbero dire anche molte altre cose. Mi permetto di scriverle in modo paradossale.
Nel Gruppo Facebook “Tutto quello che vorreste sapere sull’ANS. Il racconto dei sociologi” è stata documentata la composizione delle commissioni delle due prime tornate delle Abilitazioni Scientifiche Nazionali (ANS) nelle discipline sociologiche, le “appartenenze” accademiche dei candidati abilitati e la straordinaria coincidenza di un’alta percentuale di commissari e di candidati abilitati con i componenti dei comitati di certe riviste (in particolare quelle del Mulino, tutte tempestivamente collocate in classe A ai fini concorsuali, compresa la più recente, solo telematica).
Nel clima gioioso delle feste di fine anno (a proposito: auguri a tutti) ho ripreso il tema. Ricordate il godibilissimo articolo in cui nel 1979 Umberto Eco aveva immaginato dei concorsi universitari in cui Dante Alighieri veniva bocciato per aver pubblicato in settori affini a quello per cui aveva presentato domanda e Socrate non veniva nemmeno preso in considerazione in Filosofia morale per carenza di pubblicazioni? Nello stesso spirito ho immaginato che cosa sarebbe accaduto nelle recenti abilitazioni a Franco Ferrarotti (fondatore e direttore dal 1967 della “Critica Sociologica”, che l’apposita commissione aveva incredibilmente e vergognosamente collocato in classe B, in contrasto con tutte le riviste del Mulino e con quelle dirette dai referenti di tutte le “componenti”). Certamente Ferrarotti non sarebbe stato abilitato, e con quattro o cinque voti negativi su cinque (l’unico voto favorevole, ma non in tutte le commissioni, glielo avrebbe forse dato il commissario straniero, per la sua “discreta internazionalizzazione”, dimostrata dall’aver pubblicato anche in lingua inglese e dall’aver insegnato, “per qualche tempo”, alla EHESS di Parigi e alla School of Social Research di Nuova York). Ecco il giudizio collettivo (quasi tutte le frasi, compresa la prima, per quanto incredibile, ricalcano quelle effettivamente presenti in certi giudizi dell’ASN):
«Il candidato non è scemo, ma non ha un dottorato nel macrosettore e neppure una laurea in sociologia. Ha molti interessi che vanno in tante direzioni (troppe!) e molte pubblicazioni (troppe!), ma negli ultimi cinque anni non ha pubblicato in riviste di classe A. Scrive anche di metodologia, ma non rispecchia nei suoi lavori gli stili di ricerca auspicabili nel settore. Non giovano al candidato le critiche irriverenti, anche se argute, rivolte a certi autorevoli colleghi, come, ad esempio, i promotori di un convegno di sociologia della religione, in un articolo intitolato la Morte di Dio in alberghi di lusso; Achille Ardigò, il primo Presidente dell’AIS su cui nessuno dovrebbe scherzare (“Solo chi non ha una famiglia ne può parlare con tanto trasporto”); Francesco Alberoni (sorridere della sua brillante definizione dell’amore come un “movimento collettivo a due” suscita indegni sospetti sui movimenti cui si riferiva il noto studiose, altro ex Presidente dell’AIS); e Sabino Samele Acquaviva (non accettabile, neanche come battuta, la definizione di “sociologia degli scimpanzé” per un suo brillante saggio apparso presso una primaria casa editrice per cui hanno pubblicato anche alcuni commissari). Il candidato dovrebbe essere molto più umile e rispettoso, ma sembra non ricuperabile. Inoltre, nonostante l’attenta ricognizione compiuta, non appare riconducibile ad alcuna delle “componenti” riconosciute, dalle quali non è del resto pervenuta alcuna segnalazione per la sua abilitazione. Per di più non appare fra i membri né dell’Associazione Il Mulino, né del suo Istituto Cattaneo, né di alcun comitato delle loro pur numerose riviste. Non abilitato».
Mi correggo: le due ultime frasi del giudizio i commissari non le avrebbero scritte, ma solo pensate.
Sul gruppo del Mulino, che ha offerto alle Abilitazioni Scientifiche Nazionali nei macrosettori della sociologia, ben 2 presidenti di commissione su 3 e il segretario della terza commissione, nonché altri influenti commissari, fra cui un ministro in carica (restato in commissione, forse per timore che il sorteggio di un subentrante alterasse la maggioranza, nonostante la dubbia compatibilità su cui ha dovuto rispondere in Parlamento), si veda il recente articolo di Ernesto Galli Della Loggia (membro dell’Associazione “Il Mulino” e quindi non sospettabile di prevenzioni), “Il Mulino, la crisi di un’élite che si è trasformata in oligarchia”,in “Corriere della Sera”, 22 dicembre 2014, p. 37. Vi si legge fra l’altro:
“Nato come un luogo d’incontro di culture politiche diverse, un laboratorio di discussioni, si è pietrificato in un’arcigna fortezza ideologica del centrosinistra, in un custode di tutti i suoi fragili miti: mentre ormai non si contano i suoi soci che a vario titolo ne infoltiscono i quadri istituzionali come sindaci, ministri, presidenti del Consiglio, presidenti di tutto. Così il Mulino si trova a rappresentare per un verso l’opposizione più chiusa, per l’altro il potere più consolidato: una schizofrenia micidiale che ne segna la progressiva paralisi intellettuale. Lo testimonia la cooptazione autoreferenziale dei soci: i nuovi, salvo qualche autorevole membro dell’establishment, sono pressoché esclusivamente membri delle cordate accademiche o similari che fanno capo a quelli anziani. In complesso l’Università di Bologna ne conta suppergiù un terzo; l’età media è oltre i sessanta; pochissime le donne; nessun socio da Roma in giù. Il Mulino, insomma, è diventato la perfetta fotografia di un Paese vecchio, diviso, corporativizzato, immobile”.
“Tirare l’acqua al proprio mulino” significa “fare i propri interessi, in genere senza tener conto degli altri oppure anche a loro danno” (Dizionario dei modi di dire, Hoepli, Milano, 2011). Dopo le Abilitazioni Scientifiche Nazionali in sociologia andrebbe inserito anche nel Dizionario dei modi di fare…
Di fronte all’arroganza di chi giudica ma non vuole essere giudicato, in contrasto con il monito evangelico (Matteo, 7, 1), ricordo che la corazzata Potëmkin del gruppo del Mulino, la “Rassegna italiana di sociologia”, diretta o già diretta da due presidenti delle commissioni dell’ANS (e prima ancora da un autorevole esponente dell’AIS che si è rifiutato di esprimersi sulle abilitazioni, esternando la sua simpatia per Ponzio Pilato), nel suo sito vanta senza imbarazzo di essere stata “fondata da Camillo Pellizzi”, così come l’Unità vantava di essere stata “fondata da Antonio Gramsci”. Peccato che il Pellizzi non avesse mai vinto un concorso di sociologia. Aveva invece vinto nel 1938 (l’anno delle leggi razziali e della visita di Hitler a Roma) una cattedra di “Storia e Dottrina del Fascismo”, trasformata nel dopoguerra nella prima cattedra di Sociologia in Italia, quando, dopo l’inevitabile epurazione, il Pellizzi fu riassunto in servizio. Come non ricordare sulla Corazzata Potëmkin l’ineffabile giudizio del ragionier Fantozzi?
Umberto Melotti