
Nel settembre del 1965, il columnist Henry Fairlie scrisse un pezzo per The Spectator in cui denunciava il tentativo, da parte di persone influenti e ben connesse socialmente, di impedire che la stampa investigasse la vita e l’ambiente familiare di Guy Burgess e Donald MacLean, due funzionari del Foreign Office che avevano tradito il proprio paese, accettando di lavorare per l’Unione Sovietica. Oggi sappiamo che Burgess e MacLean erano parte di un gruppo ben più ampio – cui spesso si allude con l’espressione “Cambridge Spies” – di simpatizzanti comunisti che per alcuni anni avevano passato informazioni riservate al KGB. La posizione sociale di queste persone, e la natura informale dei legami di amicizia e solidarietà che avevano con diversi esponenti di spicco della società britannica, colpirono l’immaginazione di Fairlie. Per questo, egli decise di adoperare un’espressione specifica per alludere ai network informali che avevano un ruolo così importante nella politica britannica, e che a suo avviso potevano spiegare le complicità di cui avevano goduto Burgess e MacLean nelle loro attività di spionaggio. “The Establishment” – il titolo del pezzo di Fairlie – sarebbe divenuto un termine di uso comune sia sui giornali sia nei lavori accademici.
Fairlie spiegava la propria idea di questo modo: “per establishment, non intendo soltanto i centri del potere ufficiale – anche se essi ne sono certamente parte – ma piuttosto l’intera matrice di relazioni ufficiali e sociali all’interno delle quali il potere è esercitato. L’esercizio del potere in Gran Bretagna (più specificamente, in Inghilterra) non può essere compreso se non si riconosce che esso viene esercitato socialmente”. Non c’è dubbio che si tratta di una ricostruzione accurata di un fenomeno che caratterizza la politica inglese per buona parte del ventesimo secolo, e che conserva tuttora una sua rilevanza niente affatto trascurabile nel modo di funzionare della democrazia britannica. Ma chi sono i membri dell’establishment? Come si entra a far parte di questo gruppo? Ovviamente non c’è una membership formale, anche se ci sono associazioni – per esempio certi Clubs – di cui si entra a far parte solo se si è già nell’establishment. L’estrazione sociale conta molto, e contava ancora di più quando le grandi famiglie dell’aristocrazia avevano ancora una considerevole capacità di influenzare “dietro le quinte” le politiche del paese. All’establishment appartenevano sia gli Astor – che nella loro tenuta di Cliveden ricevevano i gerarchi nazisti tentando di porre le premesse di un’alleanza tra l’Impero Britannico e la Germania di Hitler – sia Wiston Churchill, che a quel progetto si sarebbe opposto con tutte le sue forze. Tuttavia, ancor più della nascita, è l’educazione che plasma i legami di solidarietà di chi appartiene all’establishment. Di pari passo con il declino politico dell’aristocrazia, emerge un ceto formato nelle due grandi università di Cambridge e Oxford – ma soprattutto nella seconda – composto di persone selezionate e addestrate per essere la classe dirigente dell’Impero, i “Philosophers Kings” immaginati da Benjamin Jowett, traduttore di Platone e artefice della riforma del sistema degli studi a Oxford alla fine dell’ottocento. La necessità di questa classe dirigente di intellettuali educati a governare – che si affiancasse all’aristocrazia ereditaria, talvolta fondendosi con essa – si impone quando il sistema di reclutamento dei funzionari pubblici basato sul “patronage” viene sostituito da una selezione competitiva fondata sul merito. Con questo cambiamento nella natura e nella composizione sociale del “civil service” la scuola e l’università diventano il luogo in cui si coltiva la classe dirigente del paese, un compito che hanno conservato fino a oggi.
Ricostruire la storia politica del Regno Unito nel ventesimo secolo è impossibile senza tener conto di questo network di influenza che, dalle Senior Common Room dei college di Oxford e Cambridge arriva fino alle riunioni di gabinetto del governo e alle redazioni dei grandi giornali. La denuncia di Fairlie era dunque ben fondata. Ciò nonostante, vista in prospettiva, l’emersione dell’establishment di cui parlava il giornalista britannico è qualcosa su cui vale la pena di riflettere perché offre una lezione interessante per la situazione italiana. Nessun regime politico, nemmeno una democrazia, può sopravvivere a lungo se non si pone il problema di come selezionare la propria classe dirigente. L’establishment contro cui si scagliava Fairlie era la soluzione che il Regno Unito ha dato a questo problema, una risposta che ha funzionato egregiamente per più di un secolo. Certo, tutte le elite finiscono per generare il tipo di distorsioni contro le quali si scagliava il giornalista britannico nel suo pezzo per The Spectator. Ma è questa non è una buona ragione per ignorare il problema, illudendosi che la buona volontà o la fantasia di cui spesso tessono le lodi i nostri politici sostituiscano la coltivata sensibilità alle esigenze del governo che è necessaria a una classe dirigente.
Pubblicato su Il Riformista il 18 agosto 2009
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