Non passa settimana in cui non appaiano, in rete o sui quotidiani, almeno un paio di articoli che si propongono di ovviare alle disgrazie (reali e presunte) dell’università italiana imponendo una ricetta vecchia almeno quanto Adam Smith: liberarle dalla burocrazia e dal protezionismo dello Stato per rimetterla alla miracolosa Mano invisibile del mercato. Tra i promotori di questa campagna stampa troviamo in prima fila Andrea Ichino e Daniele Terlizzese, alfieri peraltro di una macchinosa proposta di prestiti d’onore per studenti e di liberalizzazione (ossia via libera agli aumenti) delle rette universitarie.

Agli autori si potrebbe quasi riconoscere il merito della tenacia, non foss’altro che i loro articoli non fanno altro che ripetere ossessivamente alcune formule magiche (“merito!”, “concorrenza!”) senza mai entrare come si deve nel merito della questione.

In particolare questi autori propongono di riprodurre certi meccanismi tipici del mercato (che, la crisi ci fa pensare, sono tutt’altro che perfetti) nell’ambito del sistema di istruzione superiore e di ricerca. Sarebbe scontato invitarli a tenere bene presente che tipo particolare di istituzione è quella universitaria, quale ruolo debba giocare nella politica di sviluppo di un paese, come si inquadri nel sistema dei diritti dei cittadini; forse se tenessero presenti alcuni di questi fattori capirebbero come l’applicazione di modelli elaborati per gestire merci, imprese e clienti ad un settore che tratta di conoscenza, istituzioni e studenti sia ad essere gentili poco pertinente.

Ma vogliamo stare al gioco e sfidarli sul loro stesso terreno per mostrare come i loro mantra mal celino delle gravi contraddizioni.

Ancora il 12 febbraio, ancora sul Sole 24 ore (che per una volta decide finalmente di dare voce ad una critica ragionevole di Ceruti e Paleari) Ichino e Terlizzese scrivono un articolo in favore della loro proposta, titolando niente poco di meno che “Più concorrenza tra gli atenei”. Il modello di concorrenza qui invocato (e che purtroppo sembra animare anche l’azione legislativa di Profumo) ricorda paurosamente la “concorrenza” dei giochi gladiatorii, dove il vincitore deve prevalere sterminando gli avversari. Un appassionato di Antica Roma potrebbe però obiettare che se non altro i gladiatori venivano di norma dotati di un equipaggiamento equilibrato, mentre spesso gli atenei sono messi in competizione (ma diciamo pure in lotta) con una dotazione iniziale squilibrata: quelli già ricchi godono di maggiori finanziamenti, quelli più poveri (spesso al Sud Italia) soffrono di ulteriori penalizzazioni proprio in virtù della loro situazione disagiata.

Si tratta dell’esacerbazione di quello che i sociologi chiamano “effetto San Matteo”, per cui “a chiunque ha sarà dato e sarà nell’abbondanza; ma a chi non ha sarà tolto anche quello che ha” (Matteo 25,29). Se questo è il tipo di concorrenza che vogliamo promuovere tra gli atenei, allora ci sono due effetti possibili: primo, che a fronte di questo processo di darwinismo artificiale alcuni atenei chiudano i battenti: poco auspicabile in uno dei paesi col minor tasso di laureati di tutto il mondo industrializzato. Secondo, che si formi un gruppo di atenei c.d. “di eccellenza” dove si possa accedere solo a fronte di tasse salate (cause e conseguenze dell’eccellenza stessa), di contro ad atenei “di serie b” destinati agli studenti meno dotati (si sottintende: di patrimonio).

La concorrenza, se intesa come strumento per stimolare a migliorare le prestazioni degli atenei e non come camuffamento di tagli al sistema universitario (primo scenario) o di disincentivi all’ascensore sociale (secondo scenario), dovrebbe esercitarsi in un contesto di partenza equilibrato tra i vari atenei: una più equa distribuzione dei fondi, tasse universitarie uniformate.

Allo stesso modo, quando si parla di meritocrazia bisognerebbe smettere di pensare che gli studenti più meritevoli vadano “premiati” perché hanno conseguito migliori successi formativi: una buona formazione è essa stessa un premio, ed i buoni voti dovrebbero valere come credenziale per il mondo del lavoro (al contrario di quanto prevede il decreto semplificazioni): gli studenti più in gamba non hanno bisogno di mance perché sono stati bravi.

Molto più importante sarebbe invece, al fine di valorizzare il merito, permettere a tutti l’accesso degli studi (che non significa dare a tutti la laurea!): è nell’interesse di tutti che più studenti possibili siano il più formati possibile, e, se vogliamo parlare di concorrenza, è statisticamente più probabile che “i migliori” che possono emergere da una base di centinaia di giovani cui è garantito il diritto allo studio siano dei “migliori migliori” di quelli che emergerebbero da una cerchia di poche centinaia di privilegiati.

E non ci si venga a dire che un sistema di prestiti d’onore costituirebbe una soluzione per gli studenti: in un mondo del lavoro come quello italiano, incapace di assorbire il (già poco) capitale umano con un’alta formazione, avremo una generazione di indebitati cronici ed una bolla finanziaria degna di quella che ha generato la crisi in cui stiamo vivendo. Servono invece investimenti coraggiosi nel diritto allo studio e nel mondo dell’istruzione e della ricerca, e disegni economici che puntino sulla valorizzazione delle intelligenze, troppo spesso costrette a migrare all’estero, anziché sull’addomesticamento di manodopera precaria e a basso costo.

Ci pare troppo sperare che i promotori della campagna “colonizziamo l’università con le regole del mercato” si ravvedano e capiscano che stanno applicando nel contesto sbagliato i loro modelli (che probabilmente sono sbagliati anch’essi); ci auguriamo però che le redazioni dei giornali diano più spazio a voci critiche e dissonanti, e che i lettori ed i politici non si lascino ammaliare dalla nenia ossessiva delle formule magiche ma ne soppesino criticamente le implicazioni.

 

Marco Viola è studente del corso di laurea magistrale di filosofia all’Università di Torino, dove è anche Senatore Accademico. Interessatosi all’università italiana a partire dal 2008, aderisce al sindacato LINK – Coordinamento Universitario. Nel 2011 è autore di un capitolo del libro “Senti che bel rumore”, a cura di Bruno Maida, sulle proteste di studenti e ricercatori nel 2010.

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1 commento

  1. Com´è possibile che oggi ci possano essere degli attacchi così forti a una delle conquiste sociali indice di maggiore civiltà cioè: LA POSSIBLITÀ PER TUTTI I GIOVANI CITTADINI ITALIANI DI BENEFICIARE DELL`ISTRUZIONE PIÙ PROGREDITA.
    Bisogna INDIGNARSI difronte a queste proposte INDECENTI di organizzazione che subordinano gli interessi generali agli interessi economici e particolari.

    Il potere dei soldi non è mai stato così forte, non è mai stato così ARROGANTTE, EGOISTA capace di trascinare con sé nella follia i suoi stessi servitori. La corsa al denaro, alla competizione portata ai limiti estremi, non solo distrugge la dignità dell´UOMO, ma viene incoraggiata e proposta in ambiti come quello della scuola i cui principi fondatori sono: garantire il diritto allo studio, promuovere lo sviluppo della cultura, la ricerca scientifica e la tecnica, (Art. 9 della Costituzione italiana) nonché La Repubblica tutela il paesaggio e il patrimonio storico a artistico della Nazione.
    SEMBRA QUASI UNA FAVOLA RACCONTATA centinaia di anni fa e inventata da degli idealisti preistorici.

    http://www.youtube.com/watch?v=i-j3xITvYQY

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