Qualche (seria) perplessità sui tentativi di estendere l’accesso al concorso in magistratura ai tirocinanti in tribunale
Al riparo del clamore provocato dai mille dubbi evocati dai concorsi di abilitazione, appena ai margini del campo battaglia, si sta consumando un altro piccolo combattimento, di nicchia, se si vuole, ma certamente degno di nota, per il valore simbolico (e non solo). Concerne il ruolo della magistratura, quello dell’università, e il sempre più angusto tema della formazione in Italia.
Ma prima di entrare nel merito, il lettore permetta una ‘dichiarazione spontanea’ (si affrontano pur sempre argomenti di diritto). Chi scrive è un giurista, strutturato in università, ma senza alcun coinvolgimento nella formazione per le professioni legali (perché specialista di diritto internazionale pubblico: materia ben poco frequentata – non senza equivoci – dalle professioni nostrane).
La questione concerne le condizioni per accedere al concorso in magistratura, comprensibilmente tra i più ambiti. E il ragionamento che segue si articola in tre punti: 1) chi può partecipare, oggi, a questo concorso? 2) in quale modo si sta cercando di ridefinire le regole di accesso? e 3) per quali ragione tali cambiamenti appaiono del tutto inopportuni?
Cominciando dal primo punto, possono accedere, oggi, al concorso per divenire magistrati ordinari, innanzitutto quanti abbiano conseguito il titolo di Avvocato, di Dottore di ricerca o siano in possesso del Diploma di una Scuola di specializzazione per le professioni legali (oltre ad altre figure, più marginali). Lo scopo appare duplice: permettere una pre-selezione che impedisca i numeri-monstre che ingolfano il sistema concorsuale; e garantire una scelta tra i candidati di più alto livello, anche in considerazione dell’importanza del ruolo.
Passando al secondo punto, nel recente decreto legge 90 del 24 giugno 2014 (adottato dal Governo Renzi e intitolato: Misure urgenti per la semplificazione e la trasparenza amministrativa e per l’efficienza degli uffici giudiziari) si introduce una norma ‘pro-magistrati’ che, in deroga a quanto appena riportato, consente l’accesso diretto al concorso anche a quanti si trovino in possesso di una laurea conseguita con un voto finale di almeno 105/110 e voti medio-alti (almeno 27/30) in alcuni esami-base, e specialmente che abbiano svolto, con esito positivo, un tirocinio presso un tribunale. In realtà, si assiste ad un ‘tentativo reiterato’, giacché già all’interno del decreto legge cd. Fare (adottato dal precedente Governo Letta: d.l. n. 69 del 21 giugno 2013: «Disposizioni urgenti per il rilancio dell’economia») si introducevano identiche soluzioni. In quest’ultimo caso, grazie anche ad una risoluta levata di scudi del mondo accademico, il progetto di modifica non superò la prova della conversione in legge (al termine della quale fu eliminata la possibilità per lo stagista di accedere direttamente al concorso, pur facendo salva la possibilità di svolgere un tirocinio presso i tribunali che stabilissero accordi in tal senso). Ma più che di un autentico arresto del progetto, si è trattato di un inabissamento. Infatti, la proposta è carsicamente riemersa nella recente iniziativa di Governo, ed è stata riproposta verbatim o – se si preferisce – copia/incolla, nel nuovo decreto (si confrontino, al riguardo, le variazioni apportate dal d.l. n. 90/2014 all’articolo 73 del decreto-legge 21 giugno 2013, n. 69, convertito, con modificazioni, dalla legge 9 agosto 2013, n. 98, con il testo originario dello stesso art. 73: in sintesi il nuovo comma 11-bis dell’art. 73, con l’originario comma 12).
Concentrando l’attenzione su tale proposta – si giunge così al terzo punto – essa appare ingiustificata tanto sul metodo quanto sul contenuto.
Cominciando dal metodo, va subito rilevato che una simile soluzione sarebbe all’origine di un’inammissibile sperequazione: su quali basi è possibile ritenere equivalenti coloro che hanno superato delle selezioni e coloro che hanno semplicemente compiuto un tirocinio presso «un magistrato o un avvocato dello Stato, con esito positivo attestato da quest’ultimo»? Né vale obiettare come, per tali stage, saranno preferiti quanti avranno ottenuto una certa media negli esami e/o un certo punteggio di laurea. Semmai, quest’ultimo rappresenta un solido argomento a contrario. Giacché esistono sintomatiche differenze nelle politiche di valutazione adottate nelle diverse facoltà di giurisprudenza… attribuire un maggiore valore a medie e/o voto di laurea potrebbe fatalmente tradursi in un’incentivazione al ribasso (secondo una non sporadica equazione per la quale quanto minore è il rigore… tanto più i alti saranno i voti d’esame e di laurea). In definitiva, appare chiaro che se il lavoro di selezione che accompagna il conseguimento del titolo di Avvocato, di Dottore di ricerca o il Diploma di una Scuola di specializzazione è costruito – quanto meno astrattamente – intorno al generale interesse di formare qualcuno, un periodo di tirocinio corrisponde innanzitutto alle esigenze… degli uffici giudiziari.
Inoltre, passando al merito della questione, va da sé che un periodo di specializzazione in una Scuola di formazione è in grado di fornire un approfondimento completo, tanto sulle diverse materie, quanto sui diversi momenti – processuali e non solo – nei quali si articola la vita del diritto. Questo non accade nel caso di un tirocinio, giacché lo stagista risponde solo al magistrato che si è precedentemente dichiarato disponibile ad esercitare il ruolo di ‘affidatario’ (ragione per cui se, per ipotesi, quest’ultimo si occupa di questioni fallimentari o di locazioni… la formazione concernerà esclusivamente quella specifica materia).
Da ultimo, non può passare inosservata la circostanza per cui detti tirocini – pur non rappresentando in alcun modo dei rapporti di lavoro subordinato – sono coperti finanziariamente attraverso un sistema di partenariati, in primo luogo con fondazioni e Camere di commercio (è così, ad esempio, nel caso del progetto Ufficio del Giudice presso il Tribunale di Milano, che per l’anno 2014-2015 ha bandito 19 stage remunerati con 8000 euro cadauno, a favore di chi, inter alia, «sia iscritto al registro dei praticanti dell’Ordine degli Avvocati di Milano»). Anche da questa angolo prospettico s’intravede, in filigrana, un legittimo interrogativo: attribuire un valore preferenziale a tali tirocini non significa esporsi al rischio di privilegiare quelle realtà che godono di condizioni economiche più favorevoli? La domanda non è capziosa. Al di là di alcune perplessità sulla munificenza delle Camere di commercio nel meridione d’Italia, il rilievo assume ancora più valore in relazione alle fondazioni, dal momento che – a certe latitudini – queste ultime sono estremamente rare (e quando esistono non dispongono di ingenti risorse economiche).
In definitiva, seppure immaginate con le migliori intenzioni (alleggerire il carico degli uffici giudiziari e parallelamente avvicinare al mondo del lavoro generazioni sempre più lontane da quest’ultimo), dette politiche sembrano più improntate a logiche corporative che ad uno Stato di diritto. Per tacere dello ‘stato del diritto’: una formazione carente si traduce ben presto in una giurisprudenza inadeguata.