Sul valore legale del titolo di studio universitario si sta consumando una battaglia ideologica che veicola spesso inesattezze e imprecisioni. A leggere i titoli dei giornali e gli appelli di molti opinionisti sembra che abolendo il valore legale d’incanto le università si metteranno a competere tra loro, in un meccanismo in cui magicamente (e forse subito) emergeranno le università migliori, che attrarranno immediatamente più finanziamenti e studenti, in un circolo virtuoso degno delle migliori teorie della perfetta autoregolamentazione dei sistemi di mercato. Dal momento che nel mondo reale il dogma dell’autoregolamentazione dei mercati non ha fornito prove brillanti, sono abbastanza scettico che tale modello possa funzionare nel mondo accademico. Credo valga la pena fornire alcuni punti fermi per stimolare un dibattito più costruttivo per l’università e per la società.

1)     Il significato del valore legale, in termini giuridici, significa che chi lo consegue è autorizzato a proseguire gli studi, può essere ammesso ad esami di stato finalizzati all’iscrizione negli ordini professionali, può partecipare a concorsi banditi dalle amministrazioni pubbliche che richiedano l’inquadramento in funzioni lavorative precise (e il voto di laurea non è automaticamente vincolante).

 

2)     Già ora nel settore privato di fatto il valore legale non c’è. Un soggetto privato è libero di assumere o promuovere persone indipendentemente dal titolo di studio o dall’università di provenienza. Spesso chi gestisce o possiede aziende (piccole o grosse che siano) non ha dato buona prova di saper scegliere i laureati migliori o più preparati.

 

3)     Anche se con modi e forme diverse, nei vari paesi Europei si riconosce che la laurea non è un pezzo di carta, ma la certificazione di competenze acquisite nel processo di formazione. Gli istituti che rilasciano questo “pezzo di carta” debbono comunque essere autorizzati a farlo da organismi statali. In nessun paese si ritiene questo passaggio l’ostacolo fondamentale alla crescita del paese stesso, perché mai dovrebbe esserlo in Italia?

 

4)     Abolire completamente (o quasi) il peso del voto di laurea per i concorsi in accesso alla pubblica amministrazione mi pare sbagliato. La conseguenza sarebbe infatti affidare al meccanismo dei concorsi il totale controllo delle capacità dei candidati: significa avere quanto meno una ingenua fiducia nella capacità delle varie commissioni di operare bene (e come si potrebbe fare per quei concorsi pubblici dove si presentano migliaia di candidati?). E siamo sicuri un laureato con 88 dell’università A sia automaticamente più bravo di più di un laureato con 110 e lode dell’università B, solo perché l’università A è più prestigiosa dell’università B? Perché se azzerassimo il significato del voto di laurea, inserendo invece un peso per le università più o meno prestigiose otterremmo questo risultato.

 

5)     Per contro laddove i concorsi pubblici danno un certo peso alla laurea e al suo voto, magari congiuntamente alla media degli esami e al voto di maturità, assieme a una rigida e seria prova selettiva, avviene più facilmente che un candidato meritevole (indipendentemente dal prestigio dell’ateneo da cui proviene) possa emergere ed è verosimile che il giudizio finale sia più equilibrato.

 

6)     Diverso è invece il discorso per le carriere interne in una amministrazione pubblica. In questo caso, in effetti, occorre valutare e pesare adeguatamente anche e sopratutto le competenze necessarie, l’esperienza e l’anzianità lavorativa.

 

7)     L’idea di creare graduatorie di università alle quali attribuire un coefficiente per valutare il peso effettivo della laurea è difficilmente applicabile. Provando a prenderla sul serio: dovrebbe valere il coefficiente dell’anno in cui uno si laurea? O quello dell’anno in corso? E se per esempio una università nell’arco di 15 anni migliora o peggiora il suo ipotetico ranking che cosa succede ai vecchi laureati? Si rivalutano o si svalutano?

 

8)     Attribuire all’ANVUR (come alcuni suggeriscono) il compito di creare una graduatoria di università è probabilmente un’idea sbagliata. L’ANVUR viene già caricata di molti compiti. Cominci a concludere quelli che deve fare ora: ad esempio la procedura per la doverosa valutazione dell’attività delle università/dipartimenti/singoli docenti è farraginosa e complessa.

 

9)     Costruire un sistema in cui le lauree o il voto di laurea non abbiano valore legale rischia inevitabilmente di favorire le famiglie più abbienti in grado di scegliere le università “supervalutate”, mentre chi ha meno risorse sarebbe relegato alle università di serie B o C.

 

10)  Paradossalmente togliere ogni valore legale alla laurea rischierebbe di favorire ancora di più il nefasto localismo: quale amministrazione locale rinuncerà a preferire i laureati asini purché provenienti dal proprio territorio?

 

11)  Gli scandali peggiori si verificano nell’accesso alle professioni. Ma il problema non è rappresentato tanto dalla laurea quanto dal periodo di tirocinio e dalle modalità dell’esame di stato. È inutile quindi intervenire sul valore legale del titolo di studio.

 

12)  Le tasse universitarie in Italia (corollario dell’abolizione del valore legale della laurea è infatti la possibilità di aumentare tasse e rette universitarie) sono già molto elevate rispetto alla media Europea. E il sistema di prestiti delle banche non è minimamente paragonabile a quello anglosassone (dove peraltro ci si chiede quanto sia opportuno immettere nel mondo del lavoro persone che hanno accumulato un pesante debito per potersi formare).

 

Se la parte critica è relativamente facile, più complessa è la parte propositiva. Per avviare una competizione sana e intelligente tra le università occorrerebbe però investire in direzioni diverse:

 

1)     Incentivare la mobilità studentesca e dei docenti, favorendo gli studenti fuori sede e la riaggregazione di università e dipartimenti secondo logiche di massa critica. Per questi risultati ci vogliono tempo e risorse adeguate, per incrementare la disponibilità degli alloggi studenteschi o per incentivare le riaggregazioni dei dipartimenti.

 

2)     Occorre introdurre criteri trasparenti e non continuamente mutevoli per la valutazione della qualità della didattica e della ricerca; sarebbe bene inoltre individuare con chiarezza i “diplomifici”: probabilmente una misura relativamente semplice sarebbe quella di obbligare le università a mostrare corso di laurea per corso di laurea i dati dei voti di laurea (ossia quanti 110 e lode, quanti 110, quanti 109 ecc. ecc.) ottenuti dai suoi studenti per ogni anno accademico. Istituti che regalano il diploma o il 110 e lode facile emergerebbero con facilità.

 

In conclusione ci vuole la consapevolezza che una cultura seria della valutazione della qualità della ricerca e della didattica richiede anni di educazione da parte delle istituzioni e delle famiglie. La politica stessa dovrebbe comprendere che non raccoglierà i risultati in una legislatura o due. Scorciatoie improvvisate non faranno altro che favorire atenei mediocri o dipartimenti inefficienti. Oppure, nella migliore delle ipotesi, cambierà tutto perché nulla cambi. Un risultato davvero triste.

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