L’Italian Journal of Library, Archives, and Information Science, rivista ad accesso aperto che si fregia sia del DOAJ Seal of Approval for Open Access Journals, sia della classe A amministrativamente conferita dall’ANVUR, ha pubblicato nel suo ultimo numero un articolo di Andrea Angiolini, direttore editoriale di “Il Mulino”, dal titolo ”Open to whom. The Open science in the quest for readers”, che propone una versione a sua volta editoriale del concetto di Open Access.
Mentre l’Open Access tradizionale intende, come recita la definizione di Peter Suber, la letteratura ad accesso aperto come digitale online, gratuita, e libera da buona parte delle restrizioni dovute a licenze e copyright, Angiolini ne elabora un concetto culturale e sostanziale, vale a dire “la possibilità di comprendere effettivamente il senso, accedere compiutamente al significato di un testo”. Un testo liberamente accessibile sul web, ma scritto da studiosi per l’uso degli studiosi e del pubblico di lettori, non è sostanzialmente ad accesso aperto: perché lo sia è indispensabile il valore aggiunto dell’editore, che, cercando di offrire “una proposta culturalmente riconoscibile ed economicamente profittevole o almeno sostenibile”, lo confeziona ed elabora per l’uso di un pubblico più ampio.
Questo, sostiene Angiolini, vale però anche quando la comunicazione scientifica deve giocoforza “essere formalizzata, rivelandosi così anche molto ardua da capire perché si rivolge a specialisti e ha destinatari in grado di comprenderla e discuterla”. Anche qui la mediazione editoriale rimane essenziale: “il ruolo dell’editore è soprattutto quello di garante della qualità e di facilitatore del massimo impatto dei testi. Ancora più oggi in epoca di abbondanza di fonti, un filtro rigoroso di validazione – attendibilità scientifica, verificabilità, confronto con la comunità di riferimento, approccio critico/empirico e non dogmatico, tra gli altri – è componente essenziale dell’apporto editoriale. Infatti non si può fare buona scienza aperta se si consente di avvelenare i pozzi che anche l’opinione pubblica può utilizzare.”
Angiolini non dice esplicitamente in che rapporto si ponga il suo Open Access sostanziale con l’ideale dell’abbattimento delle barriere e dei monopoli economici per i lettori – se cioè il primo abbia bisogno del secondo o, contrapponendoglisi, ne possa fare a meno. È chiaro però che, se solo l’editore può fungere da mediatore fra la scienza e il pubblico, occorre assicurarne la sopravvivenza o, ancor meglio, il profitto, eventualmente anche a dispetto delle pedestri intenzioni di chi si preoccupa invece delle restrizioni imposte da prezzi e da monopoli ormai spropositatamente lunghi.
La distinzione di Angiolini ha almeno un precedente illustre, risalente a un’epoca in cui, per dei limiti tecnologici, la stampa presso un editore serviva effettivamente a pubblicare i testi. Quando Kant ricevette da Federico Guglielmo II il noto rescritto che lo rimproverava di aver aggirato la censura (preventiva) prussiana per far pubblicare i suoi scritti sulla religione, si difese, obliquamente, sostenendo che i suoi testi erano talmente incomprensibili che anche se stampati il popolo non li avrebbe capiti.
Kant però, quando non si rivolgeva a Federico Guglielmo II, conosceva benissimo la differenza fra un testo chiuso perché inaccessibile – un testo che non si può leggere – e un testo chiuso perché incomprensibile – un testo che non si sa leggere. Infatti non si era limitato a distribuire i suoi manoscritti sulla religione ai pochi studiosi in grado di capirli, ma si era dato da fare per averli stampati a dispetto della censura prussiana, attirandosi il rimprovero del monarca. E chi conosce il suo saggio sull’Illuminismo si rende conto che proprio la libertà dell’uso pubblico della ragione, fatto da studiosi eventualmente difficili come lui, aiuta tutti gli altri a imparare a pensare da sé. Lo studioso, a differenza dell’editore angioliniano, non è infatti un tutore paternalista che si preoccupa dell’impatto su destinatari minorenni e li imbecca a piccoli bocconi, ma uno che, pensando da sé e parlando in pubblico, incoraggia gli altri a fare lo stesso, così da non aver più bisogno di tutori.
L’idea di scienza aperta come divulgazione che rende la scienza comprensibile a tutti, facendole superare l’esoterismo di quella riservata agli scienziati, è molto diversa da quella comunemente condivisa, (vedi il testo della Budapest Open Access Initiative) che possiamo ritrovare, per esempio, nella definizione di Foster:
Open Science represents a new approach to the scientific process based on cooperative work and new ways of diffusing knowledge by using digital technologies and new collaborative tools.
Open Science is about extending the principles of openness to the whole research cycle.
La pubblicità, qui, non è un’esteriore elaborazione editoriale di studi altrimenti esoterici: è il modo in cui opera la ricerca stessa. La possibilità di leggere i testi scientifici e di accedere ai dati sperimentali rende il sapere verificabile e replicabile e fornisce alle comunità disciplinari la possibilità di sviluppare e far evolvere l’indagine anche in direzioni che l’autore originario non aveva immaginato. La scienza, intesa in questo senso, non è un’alchimia che solo in seconda battuta ed esteriormente si pone il problema dell’informazione per i profani, ma è nativamente pubblica, perché solo la pubblicità può controllarla, migliorarla e accelerarne lo sviluppo, come abbiamo avuto di modo di imparare, ancorché parzialmente, nel corso dell’attuale pandemia. Per dirla con Robert K. Merton, la pubblicità della scienza è come la pubblicità degli atti dei sistemi politici democratici: è un prerequisito dello scetticismo organizzato, del controllo diffuso animato dallo spirito critico.
Angiolini stesso, d’altra parte, riconosce che la comunicazione fra scienziati, che a suo dire deve “essere formalizzata” non può ridursi a divulgazione, ma è parte del processo della ricerca. Ma pure qui e in questo senso gli editori avrebbero un ruolo indispensabile: fornire la garanzia di qualità che distinguerebbe la letteratura scientifica seria, con mediazione editoriale, da quella diffusa dai cosiddetti predatory publishers che si limitano a stampare quello che ricevono.
E però sono gli scienziati, e non gli editori, a validare i contenuti di un articolo di fisica teorica, di una monografia di filologia classica o di un modello econometrico, verificandone l’attendibilità, la robustezza, la replicabilità, la correttezza metodologica. Proprio perché questa validazione è compiuta da scienziati e non da editori, i sostenitori della scienza aperta vorrebbero rendere anche questo processo pubblico, anziché concentrarlo nelle stanze private delle case editrici commerciali.
E, in ogni caso. perché mai gli editori per garantire l’accessibilità – intesa come comprensibilità, previa selezione editoriale della qualità – dovrebbero aver bisogno di barriere giuridiche (il diritto d’autore, o meglio il privilegio dell’editore), economiche (il prezzo di copertina) e tecnologiche (le misure antiaccesso e anticopia) imposte al tanto amato e trascurato “lettore”? Invero, molti editori accademici praticano ormai da anni l’accesso aperto basandosi su modelli commerciali diversi da quelli che presuppongono le barriere imposte al lettore: perché mai l’accesso aperto “sostanziale”, a differenza di quello “formale”, dovrebbe essere chiuso?
Nel proporre la sua accezione eccentrica di “apertura”, Angiolini sembra implicitamente suggerire che l’editoria scientifica ad accesso chiuso ovvero basata su barriere giuridiche, economiche e tecnologiche sia qualitativamente superiore a quella ad accesso aperto che quelle barriere non prevede. Da questo argomento ne discende, altrettanto implicitamente, un altro: il diritto di esclusiva degli editori va difeso sul piano della legge sul diritto d’autore.
In altre parole, la legge sul diritto d’autore non deve lasciare spazio alle pratiche dell’accesso aperto, quali quella basata sul diritto inalienabile dell’autore di poter ripubblicare in Open Access quanto già pubblicato ad accesso chiuso con editori scientifici. Non possiamo infatti dimenticare che gli autori, nell’editoria scientifica, sono anche i principali lettori dei testi pubblicati.
Questo diritto, che avrebbe allineato l’Italia ai principali paesi europei, era previsto dalla proposta di legge Gallo (DDL 1146 Modifiche all’articolo 4 del decreto-legge 8 agosto 2013, n. 91, convertito, con modificazioni, dalla legge 7 ottobre 2013, n. 112, nonché introduzione dell’articolo 42-bis della legge 22 aprile 1941, n. 633, in materia di accesso aperto all’informazione scientifica). La proposta è stata fortemente osteggiata dall’Associazione Italiana Editori e giace, dal novembre del 2019, in un cassetto del Senato della Repubblica.
Il movimento dell’Open Science, d’altra parte, non vuole affatto fare a meno degli editori: vuole invece che i lettori godano della libertà di poter accedere ai contenuti scegliendo quello che ritengono meritevole di essere letto e studiato.
In un ecosistema di pubblicazione scientifica in cui i testi vengono da fonti differenti e plurali il lettore può scegliere autonomamente quanto gli pare più autorevole ed affidabile. Nel mondo della scienza aperta un testo può provenire dalla pagina personale della istituzione del ricercatore, dal suo blog, da un archivio disciplinare o istituzionale ad accesso aperto, da una piattaforma Open access, da una rivista o da un libro di un editore ad accesso aperto.
Se l’editore (ad accesso aperto o chiuso) sarà in grado di aggiungere valore alla sua selezione e crearsi una reputazione, il lettore maggiorenne gliene renderà merito, se la mediazione editoriale avrà effettivamente aggiunto qualcosa di più all’esposizione di ricerche che come cittadino ha già contribuito a finanziare con le sue imposte e a cui ha costituzionalmente diritto.
Esiste certamente una esigenza di volgarizzazione controllata, che allarghi il numero dei lettori mantenendo il grado di semplificazione dei testi entro limiti accettabili. Si tratta di uno spazio quasi completamente libero nell’editoria italiana. Gli editori italiani o sono “accademici” – e quindi pubblicano testi che nemmeno leggono, spesso pagati in anticipo grazie a finanziamenti pubblici – oppure sono “commerciali” – e quindi stanno sul mercato e cercano di vendere il maggior numero possibile di copie, ma rifuggono dalla saggistica seria. Sono pochissimi gli editori che si pongono a metà fra queste due categorie, mettendo sul mercato libri e riviste confezionati per rendere i contenuti scientifici accessibili a un numero ampio di lettori. Sono pochi, riteniamo, perché il lavoro di dare forma divulgativa a testi scritti per lettori specialisti è molto difficile e richiede investimenti che non permetterebbero di ricavare gli utili marginali che gli editori sono abituati a collegare all’editoria accademica. Un editore che volesse veramente occuparsi dei lettori dovrebbe pagare ottimi redattori, magari giovani, e dovrebbe acquistare i diritti dagli autori dei testi accademici, retribuendo anche il loro lavoro di collaborazione con i redattori per pervenire a testi rigorosi ma leggibili. Insomma dovrebbe investire, rischiare, e andare sul mercato.
Chi, però, reclama la commodification senza limiti dell’autorialità in nome del mercato preferisce spesso rifugiarsi in nicchie così protette che è davvero difficile definirle “mercati”: organi di controllo stabiliscono quanto e dove pubblicare, agenzie centrali contrattano abbonamenti su scala nazionale, la valutazione a tutti i livelli è affidata a personale a carico delle università, che per far carriera presta gratuitamente il suo qualificatissimo lavoro. Questo non è un mercato, ma una struttura di privilegio, di sfruttamento e di monopolio legale, che come tale produce utili anche per l’imprenditore che non investe, ma si limita a godere della propria posizione di vantaggio.
I nemici degli editori indipendenti, quelli che esplorano strade diverse dal trar lucro da monopoli e rendite di posizione, non sono i sostenitori dell’Open Science, bensì i terminali della concentrazione del potere di intermediazione commerciale e di analisi dei dati connessa agli oligopoli del platform capitalism, di pari passo con le politiche della valutazione basate sulla bibliometria (e la presenza nelle banche dati a pagamento proprietà degli stessi editori SCOPUS e Web Of Science) o sui marchi di qualità (le fasce A) attribuiti amministrativamente e autoritariamente dallo Stato.
Siamo davvero sicuri che abbarbicarsi a un copyright perfino più aspro e restrittivo di quello dei paesi del nucleo storico dell’Unione Europea e confidare in un presunto ruolo di tutori non faccia il gioco degli altri e più potenti tutori ai quali, grazie all’adozione della bibliometria, la valutazione di stato ha già consegnato buona parte della scienza italiana?