1. Il documento sulla #buonauniversità si apre con un’affermazione che merita qualche breve considerazione. E’ questa: occorre “restituire autonomia agli Atenei con l’uscita dell’università dal campo di applicazione del diritto amministrativo (cioè dalla pubblica amministrazione)”. Un’affermazione forte, destinata inevitabilmente a suscitare dibattito: già in Roars si possono leggere alcune riflessioni sul punto.

Premetto sin dall’inizio di essere un amministrativista, una categoria giustamente criticata sia perché si occupa di qualcosa che non dovrebbe esistere in un mondo ideale (la burocrazia), sia perché lo fa applicando principi e regole di qualcosa che dovrebbe esistere ma non sempre lo fa (il diritto), sia perché (infine) si pone (o dovrebbe porsi) l’obiettivo paradossale di combinare le due cose, e di rendere l’amministrazione più giusta, efficiente, assicurare la cura dell’interesse pubblico ed altre cose improbabili.

Tutto sbagliato, tutto da rifare. La soluzione era stata davanti ai nostri occhi per anni, secoli, senza che ne accorgessimo: la fuga dalla pubblica amministrazione, e dal suo diritto (che è il diritto amministrativo, appunto).

Non “più regole”, non regole diverse, ma l’assenza di regole.

Senza diritto amministrativo, quindi senza i suoi orpelli. A partire da quelli costituzionali: nella pubblica amministrazione si entra mediante concorso (art. 97), l’amministrazione è organizzata in base alla legge in modo che ne sia assicurato il buon andamento e l’imparzialità (art. 97), contro gli atti della pubblica amministrazione è ammesso ricorso di fronte ad un giudice (art. 113). O forse i vincoli di bilancio dell’art. 81, il che penso farebbe piacere a molti: possiamo tornare ad indebitarci, fuori dai limiti che l’Europa richiede al settore pubblico.

Un po’ il regno del fai come ti pare.

  1. Questa cosa di fare a meno del diritto amministrativo, peraltro, non è nuova. Recente, forse, ma non nuova.

Ricorderete, o forse no ma alla fine è lo stesso, le “zone a burocrazia zero” previste in leggi di semplificazione (che hanno via via cercato di estenderle), o le mille soluzioni di fuga nel diritto privato (le fondazioni, le Spa). A un certo punto, poi, era del giudice amministrativo che si voleva fare a meno (ma il diritto amministrativo c’è anche nei paesi che non hanno un giudice amministrativo). Questa tensione richiama, ancora, in termini più generali, l’idea del modello-azienda come soluzione più efficiente, e quindi esportabile senza complicazioni anche nel contesto dei servizi e delle funzioni pubbliche: qui il discorso diventerebbe davvero lungo, ma val la pena segnalare che nel mondo fuori da qui questa sbornia di modelli aziendali è passata, ma qui siamo ancora al New public management vent’anni dopo.

Un’altra esperienza italiana di fuga dal diritto amministrativo merita di essere ricordata: quella dei regimi di “emergenza”, poi estesi alle “grandi opere”. La libertà di movimento data dalla possibilità di derogare a disposizioni di legge, in materia di assunzioni, appalti, trasparenza. Finché non arriva, come è arrivata, la procura della Repubblica, e conseguente perdita di charme di questo disegno.

Ha un suo fascino (sottile, ma perverso) il fatto che a sostenere “l’uscita dell’università dal campo di applicazione del diritto amministrativo”, quasi ad intendere un’idea radicale di autonomia come scioglimento dai vincoli della legge e, inevitabilmente, dal rapporto morboso con il ministero (ivi compreso quello del tesoro) che le università hanno stretto sempre più nell’ultimo ventennio, sia la stessa maggioranza che poi sostiene soluzioni come la mobilità obbligatoria di personale delle province nelle università. Soluzione che nega non tanto l’essere pubblica amministrazione, quanto piuttosto l’autonomia.

  1. La verità è che la fuga dal diritto amministrativo è una soluzione semplice, facile da capire, e sbagliata. Come spesso accade per le soluzioni semplici e facili da capire, ma questo l’aveva già spiegato Grossman.

Sbagliata per due motivi, tra gli altri.

Perché non è possibile fare a meno di regole, e se si è una pubblica amministrazioni queste regole diventano diritto amministrativo. Perché non si può smettere di essere una pubblica amministrazione, quando si svolgono funzioni pubbliche, si utilizzano risorse pubbliche, si è istituiti e disciplinati dalla legge. Poi se invece che pubblica amministrazione vogliamo chiamarla “#coleichesen’èandata” facciamolo, ma il risultato non cambia.

L’Unione europea, peraltro, ha un approccio sostanzialista, quindi riclassificare non aiuterebbe molto rispetto all’applicazione dei vincoli di bilancio, o dell’obbligo di ricorrere a gare per i contratti pubblici.

E’ vero che la scelta quasi biblica del legislatore, di modificare la realtà ri-nominando le cose, è anche questa una tendenza abbastanza in auge (pensiamo ai rifiuti trasformati in combustibile, tanto per dire). Della quale però bisogna non abusare.

Aldous Huxley nelle “porte della percezione” riprendeva il verso di Stein “una rosa è una rosa è una rosa” concludendo che (però) “queste gambe di sedia sono anche San Michele e tutti gli angeli”: un approccio indubbiamente originale, apprezzato, ma frutto dell’utilizzo della mescalina.

  1. Allora, al di là dell’enfasi, se è vero quanto sin qui detto (ma sono sempre l’amministrativista di prima, quindi da guardare con giusto sospetto), probabilmente occorre concludere che la fuga dal diritto amministrativo è sbagliata, forse impossibile, probabilmente inutile.

Il che non significa che tutte le regole che valgono per le altre amministrazioni debbano valere anche per le università. Ed in effetti il diritto amministrativo proprio così dovrebbe essere costruito, attraverso regole adeguate e diverse tenuto conto delle funzioni assegnate e quindi funzionali a quel “buon andamento” che deve sempre caratterizzare le amministrazioni pubbliche. E nessuno discute lo statuto “speciale” delle università, che sono enti autonomi, la cui organizzazione deve essere orientata a garantire le missioni tipiche: la ricerca e l’insegnamento, la loro libertà, l’istruzione degli studenti (specie se) capaci e meritevoli anche se privi di mezzi.

Di quali regole vorremmo fare a meno? Di quali regole dovremmo fare a meno? Quali regole dovrebbero essere adattate allo specifico dell’università? E’ nella risposta a queste domande che risiede la vera o auspicata fuga dal diritto amministrativo.

Se cominciamo a scendere nel dettaglio, dobbiamo distinguere.

In primo luogo, ciò che può desumersi dal documento #labuonauniversità: troppe regole nel reclutamento, quindi figure contrattuali uniche, sul modello “jobs act” (il che, per il personale docente potrebbe preludere anche ad una privatizzazione del rapporto di lavoro); forse anche possibilità di prescindere dai concorsi, ma il punto non è chiaro (per quanto si possano rinvenire dichiarazioni del ministro che vanno in questo senso, a favore delle chiamate dirette) e qui resta il vincolo costituzionale. Sicuramente una semplificazione delle regole sulle assunzioni. Probabilmente anche figure contrattuali uniche, che possono riferirsi al pre-ruolo, ma forse anche al ruolo (unico), ma tutto ciò non emerge con chiarezza dal documento: questo però non sposterebbe rispetto al fatto di essere, o meno, pubblica amministrazione.

Nel panorama recente delle prese di posizione di protagonisti, della politica e del mondo universitario, peraltro, è anche ad altre regole che si fa riferimento: il documento sulla #buonauniversità parla delle regole sugli incarichi esterni, ma in interventi della Crui anche quelle di trasparenza della legge anticorruzione sono state ritenute non applicabili alle università (mentre lo sono).

  1. Nella #buonauniversità si prevede, a ben vedere, in più passaggi l’idea non di fuga dal diritto amministrativo, ma più banalmente (e efficacemente, se ben fatto) di “meno” diritto amministrativo: vale a dire una semplificazione, normativa ed amministrativa. Qui, però, la cosa è tanto necessaria quanto paradossale, se pensiamo che l’esigenza di semplificazione si affianca a continui interventi di complicazione, ma la tensione è comunque da apprezzare.

Parlando di semplificazione, però, da persona coinvolta nei processi propri del sistema universitario (VQR, AVA e via andando, ma penso soprattutto alle schede SUA o ai punti organico), mi viene da dire che un pezzo importante dei problemi è specifico dell’università, tanto che verrebbe da dire a contrario che è proprio da ciò che ci distingue dalle altre pubbliche amministrazioni che dovremmo chiedere di essere difesi, tramite fuga (che è però di nuovo impossibile) o semplificazione.

Ma semplificare, eliminando le regole inutili e complicate, siano esse indebitamente proiettate sulle università mentre sono pensate per altri contesti (tipo la fattura elttronica per rimborsare la cena a un visiting professor), o inopinatamente pensate proprio per le stesse università ma avvertite come non funzionali (come la giungla dei vincoli per le assunzioni), è un lavoro complicato, e difficile da comunicare.

Meglio individuare una soluzione semplice e facile da capire. Ma ora mi sto ripetendo.

Della frase da cui ho preso l’avvio mi convince però molto il primo inciso, “restituire Autonomia agli atenei”: un’autonomia responsabile, controllata a distanza, guidata da regole chiare, stabili, e coerenti con gli obiettivi strategici che si affidano alle università. Forse è da qui, davvero, che occorre ripartire.

 

Print Friendly, PDF & Email

10 Commenti

  1. Scusate,
    proprio non vi capisco.

    Il Governo e il Parlamento non stanno facendo nulla per l’Università e voi state parlando come se ci fosse qualcosa.

    Stanno solo approvando una legge (e ci vorrà ancora tanto) sulla scuola.

    Vi ricordate che fine ha fatto il c.d. “Decreto merito” di Profumo?. Praticamente cestinato!
    ed era un decreto.
    Ecco le notizie del giugno 2012:

    http://www.partitodemocratico.it/doc/237459/rete-studenti-il-decreto-profumo-premia-i-privilegi-non-il-merito.htm

    http://www.repubblica.it/scuola/2012/06/03/news/riforma-36445008/

    Era il 2012, tanto rumore per nulla!!!!!!!1
    ed era un decreto (una bozza e basta), un qualcosa che stava per diventare legge.

    Vi rende conto che state parlando del “nulla”?

    Ciao
    anto

  2. La mia opinione personale è che se non si mettono risorse economiche
    potrebbero anche scrivere il Talmud l’università non potrà ne’ ripartire ne’ cambiare.
    Per quanto riguarda le regole sono stufo di vedere concorsi ineccepibili dal punto di vista del regolamento in cui si sa già il vincitore leggendo la lista dei candidati.
    Nelle facoltà c’è sempre la famosa frase questo è il concorso di tizio… questo è il concorso di caio…
    Almeno per gli assegni di ricerca (visto che non sono considerati un lavoro) potrebbero almeno rimuovere questa farsa.

  3. Mi pare che come al solito ci si schieri in fazioni tra chi vuole l’uscita dalla PA e chi decanta le virtù del privato. Ma ci chiediamo se l’università nella sua configurazione attuale funziona? Ci chiediamo se le regole generiche della PA, che possono funzionare per i ministeri e altri soggetti pubblici siano appropriate per le università, per la produzione di ricerca scientifica che, nolenti o volenti, si gioca su scala internazionale (con l’eccezione proprio delle materie giuridiche)? è accettabile che un contratto di inserimento dati di supporto ad un progetto di ricerca del valore di circa 700 euro sia sottoposto a bando competitivo e invio per controllo alla corte dei conti, procedura che comporta oltre un mese?
    E cari colleghi gli esempi potrebbero sprecarsi.
    Poiché trovo irragionevole l’attuale configurazione delle regole che sovraintendono al funzionamento dell’accademia, una difesa dello status quo mi appare altrettanto irragionevole.

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.