Per gentile concessione della Redazione di UniNews24, ripubblichiamo qui di seguito la lettera di un loro lettore che ha formulato una “modesta proposta” al problema della fuga dei cervelli. Il succo della proposta è molto semplice: onde evitare che i dottori di ricerca formati a spese della nostra nazione vadano a contribuire alla ricchezza di altre nazioni, semplicemente smettiamo di formarne.
Gentile redazione,
sono anni ormai che, periodicamente, i media e l’intero nostro Paese si accorgono dell’annoso problema della fuga dei cervelli: giovani ricercatrici e ricercatori che hanno ricevuto da questo paese una formazione eccellente e che tuttavia, al termine o addiruttira durante il così detto “dottorato di ricerca”, finiscono per esercitare la loro professione all’estero. Come contribuente, trovo la cosa ignomignosa: penso infatti che gli spropositati costi che il nostro paese deve sostenere la loro formazione (prevalentemente con fondi pubblici!) sia un regalo immeritato ai paesi stranieri in cui questi ricercatori migreranno. Un regalo che, purtroppo, non è ricambiato quasi mai con dei flussi migratori in entrata: i ricercatori stranieri che operano in Italia si possono, per così dire, contare sulle dita di una mano.
Già solo per pagare la sua borsa di studio, la formazione di un dottorando ci costa circa 40.000€ (in tre anni); per non parlare dei costi operativi (per legge, una cifra pari ad almeno il 10% della sua borsa dovrebbe essere destinato a un apposito ‘budget di ricerca’) o del costo-opportunità rappresentato dal tempo in cui i nostri ricercatori sprecano a formare capitale umano che andrà arricchire spesso e volentieri la ricerca degli altri paesi, invece di passare il loro tempo a pubblicare per scalare le classifiche mondiali.
Per giunta, leggendo il vostro giornale ho constatato come dottorandi e dottori di ricerca siano una categoria particolarmente polemica. Assurda infatti la pretesa, avanzata a più riprese da ADI e dalla FLC CGIL, di essere riconosciuti lavoratori e di ricevere un sussidio di disoccupazione come se fossero dei lavoratori solo perché versano dei contributi all’INPS. Dice bene il Ministro Poletti: la loro è formazione, per giunta pagata dal nostro Paese (cioè da noi contribuenti!), e spesso e volentieri impiegata per arrecare prestigio ad altri stati. Dovrebbero ringraziarci, altro che indennizzo!
A ogni buon conto, vorrei evitare di cadere nel brutto vizio di lagnarsi senza proporre una soluzione. Se potessi contare sul fatto che i ricercatori e le ricercatrii fossero dei Veri Italiani, mi appellerei al loro senso di patriottismo; direi loro: “amate la Patria! Non accettate di abbandonare il suolo italico per arricchire le altrui nazioni!”. Purtroppo, l’esperienza mi insegna che troppo spesso i ricercatori e le ricercatrici sviluppano una cultura individualistica, poco attenta al senso della comunità: una cultura che li porta ad arrendersi di fronte alla disoccupazione che purtroppo affligge l’Italia invece di insistere e lottare, preferendo piuttosto diventare mercenari al soldo di altre nazioni.
Pertanto, occorre una soluzione più pragmatica: abolire tutti i dottorati di ricerca in Italia. In questo modo, tutti i nuovi ricercatori e professori italiani saranno stati necessariamente formati Oltralpe, ovvero, a spese di altri paesi. In gergo economistico, smetteremmo di regalare esternalità posiive alle nazioni concorrenti e cominceremmo invece godere dello status di free rider – un attore economico che, in parole povere, ‘mangia a spese degli altri’. Certo, una riforma di questo tipo andrebbe implementata per bene; ad esmepio, con una parte dei risparmi derivanti dall’abolizione dei dottorati si potrebbero finanziare delle apposite borse di studio per far studiare all’estero i migliori alcuni laureati – selezionati attraverso test a crocette assolutamente oggettivi e rigorosamente meritocratici. Meglio ancora, per evitare che la cultura individualistica ed egoista del mondo della ricerca li induca a prendere la borsa di studio e scappare, si potrebbero prevedere per loro degli sgravi fiscali dopo il ritorno in patria.
Questa proposta mi sembra talmente buona da essere tentato di estenderla persino alle lauree: dopotutto, perché non mandare i nostri giovani fuori dal Paese già dopo la maturità, così da fare esperienze internazionali (“conosci il tuo nemico”) prima di tornare in Patria? Ma la prudenza mi suggerisce di fare un passo alla volta, e cominciare a sperimentare questa riforma per il solo livello dei dottorandi. Considerate che, oltre ai vantaggi in termini economici, ci sarebbero anche dei vantaggi sociali: oltre che l’individualismo, infatti, i ricercatori sviluppano anche uno spirito sovversivo, che nella giovane età a cui svolgono il dottorato li porta a trastullarsi nei movimenti para-terroristici più abietti (si veda per esempio il caso del dottorando No-TAV che si lamenta di non riuscire a frequentare il proprio laboratorio a causa delle misure cautelari comminategli a seguito del processo svolto dalla Questura: ben gli sta, così impara ad intralciare le onestissime aziende private che tentano di arricchirsi con fondi pubblici!).
Certo, i nemici della Patria potrebbero obiettare che questa manovra sia ingiusta, perché porterebbe all’Italia un eccessivo vantaggio competitivo rispetto alle altre nazioni nella guerra dei talenti. A questi obiettori di coscienza buonisti io rispondo: l’Italia ha già regalato troppo; ora è giusto che riscuota la sua parte.
bella lettera e, purtroppo, amaramente vera. Nella situazione attuale io stesso ho qualche difficoltà ad assumere la responsabilità di nuovi “dottorandi “. Il titolo di dottore di ricerca, che attesta la capacità di svolgere ricerca in autonomia, è molto valutato all’estero dove un’industria interessata alla ricerca innovativa contende all’accademia i migliori talenti. In Italia l’industria innovativa semplicemente non esiste, il titolo di dottore di ricerca non costituisce un vantaggio significativo dal punto di vista professionale, né costituisce un titolo didattico da preferire ad anni di supplenza nella scuola. Per loro rimane solo l’Università, che però è bloccata dalla cancellazione del ruolo dei ricercatori a tempo determinato e dalla necessità di sostenere la progressione in carriera degli attuali ricercatori. Alla fine l’unica funzione dei dottorandi sembra essere quella di coltivare l’io ipertrofico del proprio docente guida, sostenendo la crescita dei suoi parametri bibliometrici, in primo luogo l’H index. Magro bottino !! vale veramente la pena sacrificare ad un obbiettivo così modesto tanti anni di lavoro? Giovani che hanno gustato il sapore seducente della scoperta finiscono per sbattersi senza una meta come farfalle impazzite, cui un bambino sadico ha spezzato le ali. Questo è il dottorato di ricerca in Italia.
Caro Nicola, a me sembra che la lettera, oltre che bella, sia amaramente ironica, piuttosto che vera. Tra l’altro, da ricercatore a tempo indeterminato munito di abilitazione scientifica non vedo tutta questa urgenza da parte delle istituzioni di “sostenere la progressione in carriera degli attuali ricercatori”. Tutt’altro, temo che il destino mio e di molti altri come me sarà di rimanere a oltranza in questa situazione, anche perchè ci è (a mio avviso in modo fortemente discriminatorio, ma non ho mai sentito nessuno lamentarsene, quindi sarà una mia personalissima distorsione della realtà) preculsa per legge la possibilità di partecipare a concorsi da Ricercatore Determinato di tipo B.
Caro lousydoc, credo anch’io che non si veda tutta questa attivita’ nel favorire le progressioni in carriera, ma questo non vuol dire che non ci sia l’esigenza.
Io ne avrei una ancora più modesta: recuperare e analizzare esperienze di “spin-off”, specie quelli che all’estero ci sono andati, spontaneamente, prima che esistesse Erasmus, per poi tornare “in patria”, a mettere la loro esperienza a disposizione di un’Industra che faceva ricerca in modo totalmente scollegato dall’Università.
Vorrebbe dire fare il “trace-back” delle possibili cause di un “hang-up” di sistema [sociale].
Troppo modesta, come proposta, vero?
Direi piuttosto che fu l’Università, che si mantenne scollegata dall’uso che l’Industria avrebbe potuto fare dei Ricercatori indotti a lasciare [fuori da ogni accordo di “cooperazione”] il “pubblico” per il “privato” quindi … spin-off[ati] … appunto.
Non si tratta di cercare “chi” sia stato responsabile di una scelta di percorso, diagnosticabile come “errata” solo “a posteriori”.
Ci sono errori “di sistema” [gli informatici mi corregano se sbaglio] che si manifestano solo con un blocco [system hang] privo di diagnostico.
Vedere https://en.wikipedia.org/wiki/Hang_%28computing%29 e notare [a me sembra significativo] l’assenza della versione in italiano].
Si tratterebbe piuttosto, infatti, di “riportare alla luce” il tipo di cultura che permette di affrontare, rendendo accessibili e fruibili gli strumenti necessari, la realtà di una situazione, descritta nell’approfondimento di che-fare.com “Cultura per una nuova cittadinanza” con la frase ….
‘‘C’è domanda di futuro, ma l’Università non è in grado di rispondere’’.
Per la cultura dominante “esprimere una domanda di futuro” vuol dire fare del “wishful thinking“.
La cultura dominante, alla domanda di futuro del “wishful thinker”, risponde con la domanda “where is the beef?“.
Eppure, all’inizio dei tempi del “computing”, la cultura universitaria seppe rispondere in modo adeguato alla domanda di futuro dei “wishful thinkers”!
Erano i tempi, per il “computing”, del “make versus buy“.
Ci vorrebbe una campagna di scavi nella discarica della memoria del “computing”, per ridare all’università la capacità di rispondere a una “domanda di futuro” , magari di un Wishful Thinking [WT] “territoriale”.
O mi sbaglio?
non passa giorno che non si parli della fuga:
http://www.lastampa.it/2016/02/26/blogs/lavori-in-corso/non-siamo-un-paese-per-ricercatori-ne-perdiamo-mila-allanno-4AQMjfucoeGGCFXtLcCzqN/pagina.html
LA FUGA
e’ PREOCCUPAZIONE anche di Bruxelles, Europa, Junker, guardate qui, ultime 11 RIGHE
http://www.huffingtonpost.it/2016/02/26/contry-report-ue_n_9327186.html?1456502264&utm_hp_ref=italy