L’intervento del prof. Vincenzo Zeno Zencovich sulla possibile riforma dei corsi di laurea magistrale in Giurisprudenza, sul quale non posso intervenire perché non faccio parte di un dipartimento di Giurisprudenza, ha aperto la riflessione sul tema più generale degli studi delle Scienze sociali e umanistiche (come sono individuate nella classificazione ERC) e sull’adeguatezza delle partizioni disciplinari, delle aggregazioni dipartimentali, degli schemi essenziali degli ordinamenti didattici.
Ricordare che le antiche e gloriose Facoltà di Giurisprudenza hanno costituito (insieme alle Facoltà di Lettere) la struttura portante della formazione culturale del passato ha un suo indubbio valore di riconoscimento e di ammonimento rispetto ai rischi che si corrono con le eccessive specializzazioni e i tentativi di tecnicizzazione (ben diversi dai percorsi di acquisizione di competenze necessarie per lo sviluppo di abilità professionali).
La riflessione, tuttavia, deve andare avanti e affrontare le ragioni che hanno condotto al ripiegamento delle (ex)Facoltà di Giurisprudenza su percorsi tecnici, sempre meno attenti ai grandi profili culturali, e promosso la costituzione delle (ex) Facoltà di Scienze politiche.
È sulla vicenda di queste ultime che intendo soffermarmi.
Gli studi di scienze politiche nacquero, come quelli di scienze commerciali, al di fuori delle Facoltà di Giurisprudenza per preparare figure che dovevano conoscere il diritto per usarlo come strumento per le decisioni e per le scelte: diplomatici, prefetti, alti funzionari dello Stato.
Il fascismo promosse l’introduzione degli studi di scienze politiche nel sistema universitario, costituì la Facoltà fascista di Scienze politiche alla Sapienza e disciplinò l’ordinamento dei corsi di laurea che si sarebbero costituiti nell’ambito delle Facoltà di Giurisprudenza nelle altre università.
Il percorso che si delineava, nonostante le ordinarie resistenze dell’accademia consolidata, era quello di cercare spazi culturali che dessero forma alla progressiva perdita di rilevanza delle concezioni giuridiche tradizionali, in direzione di nuovi processi istituzionali (si pensi alla novità della magistratura del lavoro o allo spazio accordato alla risoluzione amministrativa del conflitto fra il cittadino e lo Stato).
Il processo fu chiaro fin dall’inizio. Nonostante i tradizionali spazi per le scienze sociali nelle Facoltà di Giurisprudenza (come emergeva dalla legge Casati), lo studio delle scienze delle scelte e delle decisioni tendeva a differenziarsi da quelli giuridici in senso stretto, sempre più orientati (a loro volta) alla tecnica forense e all’assorbimento della formazione notarile (prima autonoma).
Alla fine degli anni Sessanta del secolo scorso, l’evoluzione specifica delle scienze politiche e sociali determinò il completamento del percorso di autonomia delle Scienze politiche e l’avvio dell’ulteriore specificazione dei percorsi di Sociologia (Trento). Nonostante non fosse andata in porto la tentata riforma legislativa degli studi politico-sociali, si ottenne comunque una riforma sostanziale dell’ordinamento di Scienze politiche e l’istituzione di una serie di Facoltà autonome da quelle di Giurisprudenza.
La riforma degli ordinamenti didattici del 1999 sancì la disarticolazione della (ex)Facoltà di Scienze politiche (già organizzata per indirizzi) in una serie di ordinamenti di Corsi di primo e secondo livello che traevano ispirazione dalla cessata facoltà pur differenziandosene profondamente per la perdita della sostanziale unitarietà scientifica garantita dall’unicità del biennio introduttivo. Così, alla tradizionale unitarietà di impostazione metodologica conformata sulla conoscenza delle scienze sociologiche, politologiche, storiche, economiche, giuridiche si sostituivano molteplici percorsi, potenzialmente privi di una o più delle aree di studio del sistema precedente. Era la crisi (non necessariamente negativa) del progetto originario.
Non credo che l’evoluzione propria di ciascuna delle scienze che concorrevano al vecchio modello di Scienze politiche sia giunta al punto di poter evitare che la formazione specifica possa fare a meno della contaminazione delle altre scienze dell’area. Non posso fare a meno di rilevare, tuttavia, che esistono tendenze, significativamente recepite dagli ordinamenti, che lasciano intendere che la curvatura di una specifica area disciplinare in relazione agli oggetti delle altre aree sia sufficiente a garantire la conoscenza dei problemi dei quali non si conoscono i profili disciplinari. Per utilizzare un esempio che non incide sulle discipline considerate, si potrebbe dire (come pure è stato detto) che la geografia contiene (e quindi non esige lo studio specifico de) la storia (o viceversa).
Il dramma che avverto in questo momento discende proprio da quanto detto.
Le (ex) Facoltà di Giurisprudenza si orientano all’esasperazione della tecnicità forense (più che giuridica) e perdono progressivamente (come ha ben sottolineato Zeno-Zencovich) il respiro culturale generale che, in passato, le ha fatte sede elettiva di formazione per le scienze sociali.
Le (ex) Facoltà di Scienze politiche esplodono in una serie di percorsi sezionali e perdono l’ispirazione originaria di luoghi di formazione alla scienza delle decisioni e delle scelte che non può accantonare nessuna delle conoscenze settoriali (diritto, storia, economia, filosofia) dalle quali deve saper trarre le competenze necessarie, dal metodo della comparazione interna a ciascuna area disciplinare, dalla irrinunciabile contaminazione fra le varie aree, dal superamento di ogni provincialismo.
Questa breve riflessione non può prescindere dal riscontro con due ordini di problemi di sicura attualità.
• Da un lato, è necessario confrontare l’esperienza italiana con l’evoluzione del quadro europeo del sistema delle scienze sociali e umanistiche, per rendersi conto del fatto che gli schemi disciplinari del nostro ordinamento rispendono più spesso ad esigenze accademiche che non a modelli epistemologici condivisi a livello internazionale.
• Dall’altro, è necessario rendersi conto che la constatazione di Zeno-Zencovich sugli esiti professionali di Giurisprudenza è il sintomo di una domanda di conoscenze e competenze alla quale si può rispondere solo con una nuova capacità di riorganizzare conoscenze di base ben più larghe rispetto a quelle acquisibili nell’ambito di ciascuno (e solo) degli specifici settori disciplinari.
La misura del provincialismo di certe partizioni (spesso incomprensibili agli stessi addetti ai lavori) si ricava dalla considerazione che l’area delle Scienze sociali e umanistiche (SH) in ambito internazionale si articola in sottoaree che sembrano più adeguate alla contemporanea organizzazione dei saperi (vedi il quadro allegato). Mi chiedo se non sia opportuno riflettere sulla necessità di rivedere le strutture istituzionali all’interno delle quali viviamo alla luce delle suggestioni e delle intersezioni che si possono ricavare da questa semplice mappa europea dell’organizzazione dei saperi. Ovviamente, è necessaria la consapevolezza che tale mappa sembra essere una rappresentazione della storia dell’evoluzione delle scienze umane e sociali (mi permetterei dire delle filosofie) che si sono sviluppate nella cultura europea nel corso (almeno) del secondo millennio e che dovrebbe indurre tutti ad una certa prudenza nell’immaginare l’esaustività della propria scienza.
Ancor più mi convince la riflessione di Zeno-Zencovich se si passa dal livello della fondazione epistemologica delle partizioni organizzative dell’accademia a quello delle prospettive professionalizzanti degli studi e della didattica.
L’errore grave commesso nella prima fase di applicazione della riforma Berlinguer fu certamente quello di inseguire la formazione
delle professionalità sul terreno dell’immediata spendibilità delle competenze. Si dimenticò così, in primo luogo, che le competenze devono essere il risultato di conoscenze di base essenziali e di capacità di correlazione e utilizzazione delle stesse conoscenze di base. Nessuno può più immaginare (non lo sarebbe stato neppure in passato) di insegnare tutto quello che è necessario per una professione. Si può solo trasmettere la capacità di utilizzare gli strumenti essenziali di ciascuna disciplina, il metodo e le competenze utili per partecipare all’aggiornamento permanente.
Si seguì, in secondo luogo, lo stimolo narcisistico di vedere la propria disciplina impartita sin dal primo triennio (e magari inutilmente ripetuta al biennio). Le Facoltà di Giurisprudenza reagirono ottenendo il percorso a ciclo unico e perdendo l’occasione di riconoscere un titolo intermedio agli studenti che non erano in grado (per varie ragioni) di conseguire il titolo quinquennale. Le (ex) Facoltà di Scienze politiche che, pure, provenivano da una consolidata esperienza di differenziazione interna in due cicli biennali (DPR 1187 del 1968), finirono, invece, per polverizzare la propria offerta in trienni inutilmente specialistici e in bienni (spesso) ripetitivi.
Se una larga percentuale dei laureati in Giurisprudenza scelgono professioni non forensi (per le quali oltre al diritto sarebbero necessarie ben altre conoscenze) e se i laureati nei Corsi che provengono dall’(ex) Facoltà di Scienze politiche sono poi costretti a misurarsi con professioni nelle quali il diritto è essenziale (dal Commissario di Pubblica Sicurezza al Funzionario amministrativo; dall’Assistente Sociale al Diplomatico convenzionale o non convenzionale), forse sarebbe necessario rivedere tutto il quadro formativo di primo, secondo e (necessariamente) di terzo livello, in modo da affrontare con strumenti adeguati la domanda di professionalità come possesso delle conoscenze di base e delle necessarie capacità per trasformarle in competenze.
Ovviamente, non si può fare a meno di segnalare la necessità di cogliere le innovazioni e i processi in corso. Possiamo avere ancora la convinzione che la conflittualità si debba risolvere tutta in sede giurisdizionale e dimenticare l’esistenza di tecniche alternative di mediazione? Possiamo immaginare ancora che i problemi di prevenzione e contrasto alle devianze individuali o alla criminalità organizzata come antistato si possano risolvere con il processo e con il carcere?