Nell’ultimo decennio in tutto il mondo si discute dei modelli formativi delle facoltà di giurisprudenza. In taluni paesi lo si fa sulla spinta di pressanti esigenze economiche, in altri (e sono la maggioranza) tale dibattito va alla radice della funzione del giurista nelle società contemporanee e dunque del laureato in giurisprudenza.

In Italia la riflessione è stata mossa da sollecitazioni di modifiche, anche regolamentari, nate in istituzioni pubbliche, oltre che dalla constatazione del crescente e vistoso calo degli iscritti ai corsi di laurea di giurisprudenza. In tale processo sono stati coinvolti i Dipartimenti cui afferiscono i corsi di laurea in giurisprudenza, le associazioni e società scientifiche dell’area giuridica, singoli studiosi, ma finora senza sfociare in risultati concreti.

Vorrei in queste pagine proporre una diversa idea del corso di laurea in giurisprudenza, diversa non certamente nel senso di “strana” ma perché essa non risulta essere esplicitata nei vari documenti circolati. Forse è ad essi sottesa, ma proprio per questo richiede di essere esposta.

Partiamo da un dato storico e da una realtà contemporanea:

  1. Da sempre i corsi di laurea in giurisprudenza attraggono una molteplicità di persone, le quali successivamente non svolgeranno le tipiche professioni forensi ed utilizzeranno le conoscenze acquisite in campi diversi e anche molto diversi: da Pierre Corneille all’abate Spallanzani, da Leibniz a Nicolò Machiavelli, da Kandinsky a von Hayek, da Robert Schumann a Carlo Goldoni (quest’ultimo l’unico ad aver attivamente praticato la professione in Pisa), tutti erano laureati in giurisprudenza. Così è stato nel passato, così sarà – e si vorrebbe che fosse – anche nel futuro.
  2. Dei nostri laureati in giurisprudenza solo una percentuale modesta (fra il 15% e il 20%) si indirizza verso le classiche professioni forensi (avvocatura, magistratura, notariato). La maggior parte lavora nelle amministrazioni pubbliche, nelle imprese, in enti non lucrativi. Ben lungi dall’essere uno ‘spreco’ di impegno personale e di risorse pubbliche si tratta di una intrinseca ricchezza dei corsi di giurisprudenza, capaci di fornire le basi per una molteplicità di sbocchi, di impegni, di visioni. Per questo motivo sono frutto di un drammatico provincialismo taluni confronti con le pur importantissime e vivacissime ‘law schools’ statunitensi la cui vocazione da ben più di un secolo è quella, quasi esclusiva, di preparare avvocati. E rende miope la idea di una facoltà di giurisprudenza italiana “professionalizzante”, tagliata sulle esigenze – pur meritevoli della massima attenzione – delle professioni forensi, le quali peraltro trovano specifici momenti formativi post-laurea (si veda la recentissima proposta del Ministero della Giustizia (“Disciplina dei corsi di formazione per la professione forense).

Vorrei qui prospettare alcuni obiettivi sui quali attirare la riflessione, perché questa possa tradursi in una coerente regolamentazione dei corsi di laurea in giurisprudenza.

  1. Una facoltà per la formazione del cittadino. Questo compito, che è di tutta la scuola (dall’infanzia a quella superiore), diventa moltiplicato e specifico nelle facoltà di giurisprudenza. Conoscere il diritto, le sue gerarchie, la sua storia e le idee ad esso sottese, i principi fondativi e gli strumenti di tutela rende lo studente ed il laureato più consapevole dei suoi diritti e dei suoi doveri. Capace di intervenire con cognizione di causa, con razionalità, con rispetto verso gli altri. Penso che soprattutto in società laiche e pluraliste i valori che il diritto esprime debbano essere costantemente riaffermati. Si tratta, oltretutto, di valori il cui riconoscimento è costato sacrifici durati secoli, e la cui violazione ha portato a pagine orrificanti che mai vorremmo si ripetessero. Il “saper essere” del giurista è una conoscenza che le facoltà di giurisprudenza non devono mai perdere di vista e devono sforzarsi di trasmettere.
  2. La dimensione culturale nella formazione del giurista. Il diritto è anche cultura. I giuristi da sempre sono parte integrante dei movimenti culturali del nostro (e non solo) Paese. Al tempo stesso la cultura – filosofica, religiosa, letteraria, artistica, scientifica, delle scienze sociali – influenza il modo di pensare dei giuristi. L’università è stata e sarà anche nel futuro per moltissimi studenti la principale occasione di incontro con questa dimensione, che per le nostre millenarie tradizioni è assolutamente irrinunciabile. Se c’è un primato che questo Paese deve tenere ben saldo è il legame fra la storia dei fenomeni istituzionali e giuridici e tutti gli altri fenomeni politici, economici, sociali e la ricchezza della vita e produzione intellettuale. Questo non significa affatto costruire un corso di laurea di giurisprudenza su una torre d’avorio, avulso dalle realtà e dalle sfide del presente. Al contrario proprio la consapevolezza delle radici consente di evitare di  inseguire mode passeggere e fornisce, al contrario, le chiavi di lettura che possono accompagnare il giurista per tutta la sua vita.
  3. Un giurista italiano per un mondo globale. La consapevolezza della dimensione storica e culturale del diritto in Italia e del suo insegnamento universitario da quasi mille anni, consente di confrontare, senza enfasi parrocchiali ma anche senza ingiustificati sensi di inferiorità, la formazione del giurista italiano con quella di altri Paesi, anche di grande tradizione e a noi vicini. E sottolineare i punti di forza: l’abbandono di approcci dogmatici; l’apertura alle esperienze straniere (non solo nei corsi a ciò naturalmente vocati, come il diritto internazionale, comunitario e comparato); la presenza obbligata di corsi che portano lo studente a riflettere su altre dimensioni (la filosofia del diritto, la economia politica) ed un florilegio di corsi di variegata attivazione che lo espongono a fruttuose contaminazioni (dalla medicina legale alla contabilità societaria e di stato; dalla sociologia alla storia dei trattati; dalla informatica giuridica alla criminologia). Quel che occorre è dare una curvatura globale a tale impostazione facendo comprendere allo studente che in ogni branca del diritto – anche quelle che appaiono più caratterizzate dal normativismo – sono inarrestabili le spinte verso il superamento di concezioni ‘westfaliane’, verso la ibridazione dei modelli, verso la creazione di ordinamenti giuridici, formali o fattuali, che assumono come territorio l’intero globo o sue parti importanti: dalla moltiplicazione dei livelli di produzione di norme alla lex mercatoria, dai diritti umani ai sempre più vistosi fenomeni migratori. In questo contesto le competenze linguistiche non costituiscono un lusso o una bizzarria, ma una fondamentale esigenza che consente ai nostri laureati di competere con quelli di altri Paesi, in particolare dell’Unione europea. La consapevolezza che ormai l’inglese è diventata la lingua franca mondiale (come in passato lo furono il latino, l’italiano e il francese) non deve far perdere di vista l’opportunità, soprattutto in taluni contesti universitari, che si acquisiscano competenze anche in “lingue terze” (il tedesco, lo spagnolo – soprattutto per l’America Latina – , le lingue slave, l’arabo o il cinese) le quali costituiscono, il più delle volte, il vero passaporto per il mondo del lavoro.
  4. Ogni giorno, insegnare a imparare, ogni giorno. A fronte di una straordinaria ricchezza della ricerca dei giuristi italiani e la ampiezza della offerta formativa, colpisce la insignificante riflessione e la modestissima prassi sulla didattica del diritto. Da decenni, in altri Paesi esistono riviste dedicate esclusivamente all’insegnamento del diritto, sulle quali si confrontano giuristi, pedagoghi, psicologi, tecnologi. Nelle nostre facoltà di giurisprudenza le cose non sono cambiate di molto rispetto a 80 anni fa quando le metodologie dell’insegnamento caddero sotto la sferzante ironia di Piero Calamandrei. In questo campo vi è davvero tantissimo da innovare. Il punto di partenza, però, deve essere che nella società dell’informazione, dell’anything, anytime, anywhere, non ha proprio senso uno studio del diritto di tipo nozionistico, considerato l’elevato tasso di deperibilità di moltissimi dei dati di diritto positivo che cambiano profondamente già durante il percorso di studi. Il diritto positivo, visto olim come fattore di stabilità della società e dei suoi rapporti, è ormai caratterizzato da una, spesso espressa, caducità. Il discorso didattico deve dunque spostarsi da un inutile enciclopedismo ad addestramento alla scelta delle fonte serie ed attendibili di informazione giuridica (la legislazione, la giurisprudenza, gli atti interpretativi), rifuggendo da dilettantesche rappresentazioni on-line. Ed inculcando l’idea che il diritto si rinnova ogni giorno e che il giurista ogni giorno deve imparare qualcosa di nuovo, e se si ferma la sua conoscenza diventa obsoleta e scarsamente utile ed utilizzabile.  La innovazione didattica deve includere anche significativi momenti di “imparare facendo” di cui esistono molteplici esempi di buone prassi: dalle ‘cliniche legali’ alla predisposizione di atti, dalla partecipazione a ‘moot courts’ internazionali agli stage presso uffici giudiziari. Accanto a questo appare fondamentale trasmettere agli studenti quelle capacità che sono essenziali nel lavoro del giurista, ovunque si trovi: non solo la avversarietà, ma anche il lavoro di gruppo, la negoziazione, la mediazione.
  5. Unitarietà del fenomeno giuridico e interdisciplinarità. La proposta che qui si prospetta si fonda, anche, sulla consapevolezza che il diritto è un fenomeno unitario e dunque della natura convenzionale delle partizioni disciplinari; queste servono per una efficace organizzazione didattica, ma non possono essere vissute come giardini chiusi, dall’osservazione verso dall’esterno, e da questo all’interno. Sarebbe, al contrario, necessario che la organizzazione dei corsi – soprattutto quando si svolgono nello stesso semestre – fosse volutamente coordinata in modo, per un verso, di evitare duplicazioni, ma al tempo stesso far comprendere le costanti interconnessioni che esistono fra materie apparentemente ben distinte e distanti. Al tempo stesso deve essere sempre sottolineato l’indispensabile dialogo che il giurista contemporaneo, ancor più se impegnato nelle professioni, deve avere con esperti di discipline non giuridiche, economiche, tecniche, biomediche
  6. Pluralità delle sedi universitarie e pluralismo nella offerta dei percorsi formativi. Infine, pare rispondente a sorpassate logiche di pianificazione burocratica prospettare un “modello unico” di corso di laurea in giurisprudenza. Tale approccio  non tiene conto di una delle conseguenze ovvie di una società pluralista, e cioè che i docenti sono diversi per interessi, competenze, prospettive. Gli studenti sono diversi per vocazione, capacità, carattere. Diversi sono i territori che, in primo luogo, le università mirano a servire. Solo riconoscendo – e dunque dando valore a – queste differenze si possono prospettare fra gli Atenei italiani e all’interno di ciascun Dipartimento di giurisprudenza quelle caratterizzazioni e specializzazioni che possono da un lato rafforzare la missione degli studi di giurisprudenza, dall’altro favorire la mobilità degli studenti, anche durante il loro percorso formativo. Il modello che dunque si vuole proporre è che partendo da una solidissima base (corrispondente al primo triennio) di insegnamenti fondamentali che non possono in alcun modo mancare alla formazione del giurista, anche per consentirgli, ove lo desideri, di accedere alle professioni forensi, vi sia la possibilità di una offerta di un biennio costruito attorno ad obiettivi chiari, coerenti e distintivi lasciato alla vocazione e alle capacità delle singole sedi.

*  *  *  *

Da queste premesse nasce la proposta di costituzione di un “Dipartimento di studi giuridici transnazionali e interdisciplinari”. Si tratta di un esercizio – è il caso di dire – accademico, nel senso che simula la non pre-esistenza di un Dipartimento di giurisprudenza, come se ci si trovasse di fronte ad una tabula rasa. Lo si fa per proporre un modello operativo che tenga conto del vigente quadro normativo e regolamentare. Tale modello potrà però essere agevolmente adattato alle specifiche competenze e vocazioni dei proponenti. Qui si prospetta un Dipartimento orientato verso la transnazionalità; ma è facile costruire una proposta che si incentri sul mondo dell’impresa (e dunque sulla ibridazione delle competenze giuridiche, economiche e aziendali); oppure vocata alla ricchissima filiera agro-alimentare (e dunque con precipua attenzione alle scienze agrarie, alla bio-chimica, ai processi di produzione); e via discorrendo. Peraltro, gran parte delle proposte illustrate possono anche essere prese singolarmente per arricchire i corsi di laurea e i dipartimenti esistenti.

 

PROPOSTA DI COSTITUZIONE DI UN DIPARTIMENTO DI

STUDI GIURIDICI TRANSNAZIONALI E INTERDISCIPLINARI

La proposta di istituzione di un Dipartimento di studi giuridici transnazionali e inter-disciplinari si fonda su una innovativa visione della ricerca e della didattica in ambito giuridico ed ha i seguenti obiettivi principali:

  1. Formare giovani consapevoli della millenaria tradizione giuridica italiana ma al tempo stesso preparati ad affrontare le questioni poste dal contemporaneo mondo globalizzato.
  2. Proporre modelli e metodi di ricerca e di didattica interdisciplinare, sia all’interno delle materie giuridiche con altre scienze e saperi.
  3. Proporre nuovi modelli didattici basati sul pieno coinvolgimento degli studenti durante il corso di studi, integrandolo, in particolare, con le metodologie di “imparare facendo”, nelle loro molteplici espressioni.
  4. In conformità dei precisi programmi dell’UE, formare studenti con una forte competenza linguistica giuridica in almeno una, seconda, lingua europea e, ove possibile, in una lingua terza.
  5. Attrarre nel biennio finale studenti da altri paesi, dove abbiano già conseguito un titolo triennale.

I punti di riferimento normativo sono:

  • Il programma per “Un’Europa aperta e sicura al servizio e a tutela dei cittadini” allegato alla Dichiarazione finale del Consiglio Europeo del 10/11 dicembre 2009 (c.d. Programma di Stoccolma) il quale, nel campo della formazione giuridica, richiede che si muova verso la creazione di una comune cultura giuridica europea, anche attraverso specifiche competenze multi-linguistiche indicate dalla Risoluzione del Parlamento Europeo del 17 giugno 2010 e dalla Comunicazione della Commissione Europea del 13 settembre 2011;
  • L’articolo 17, comma 95, della legge 15 maggio 1997, n. 127 in forza del quale alle Università è affidato il compito di assicurare il rispetto della normativa  comunitaria  vigente  in  materia, fra cui spicca la  Raccomandazione del Parlamento europeo e del Consiglio, del 23 aprile 2008, sulla costituzione del quadro europeo delle qualifiche per l’apprendimento permanente (European Qualifications Framework,  EQF);
  • L’art. 4, comma 2, del D.MIUR 22.10.2004, n. 270 ove è previsto che “Modifiche o istituzioni di singole classi [di laurea] possono essere adottate, anche su proposta delle università, con decreto del Ministro, sentito il CUN, unitamente alle connesse disposizioni in materia di obiettivi formativi qualificanti e di conseguenti attività formative”;
  • Le Conclusioni del Consiglio dell’Unione Europea dell’11 dicembre 2014, il quale ha invitato la Commissione e gli Stati Membri ad intensificare la formazione in materia di diritto dell’UE e di competenze linguistiche straniere nel settore giuridico.

 

 

 

IL PROGETTO DIDATTICO

La didattica che verrà impartita nel Dipartimento si caratterizzerà per:

  1. Frequenza obbligatoria dei corsi: poiché la didattica vedrà una costante partecipazione degli studenti, la frequenza dei corsi sarà obbligatoria, con una tolleranza massima di assenze calcolata in un quarto delle attività.
  2. Dimensioni ridotte delle classi: al fine di consentire l’esplicazione della didattica interattiva le classi non dovranno superare, a seconda delle tipologie, un numero variabile fra i 25 e i 35 studenti.
  3. Coordinamento dei corsi: come evidenziato dallo schema di seguito riportato, i corsi dovranno essere collocati in maniera coordinata nei diversi semestri, seguendo una coerenza tematica: Nel primo anno le terne diritto privato/diritto pubblico/diritto europeo; filosofia del diritto/diritto romano/storia del diritto (opp. sistemi giuridici comparati). Nel secondo anno: diritto privato/economia politica/diritto processuale civile; diritto commerciale/diritto del lavoro/diritto tributario. Nel terzo anno: i seguenti abbinamenti: diritto penale/diritto processuale penale; diritto internazionale/sistemi giuridici comparati; diritto costituzionale/diritto amministrativo. Sarà chiesto ai docenti di coordinare i programmi svolti nello stesso semestre al fine di sfruttare le sinergie cognitive ed eliminare le duplicazioni.
  4. Valutazione costante in itinere: la valutazione dei livelli di apprendimento degli studenti avverrà durante tutto il corso secondo un modello che, in sintesi, attribuisca un terzo di importanza alla partecipazione attiva durante le lezioni; un terzo alle presentazioni o alle altre attività che saranno assegnate in itinere allo studente; un terzo ad un esame finale.
  5. Unicità dell’appello d’esame: La struttura partecipativa dei corsi richiede che la eventuale prova d’esame avvenga nella immediatezza della conclusione del corso. Potrà essere prevista una sessione di recupero in casi particolari (malattia, soggiorno all’estero ecc.)
  6. Regolarità degli studi: azzeramento della dispersione studentesca.

Uno dei principali obbiettivi della struttura didattica è quello di assicurare che gli studenti siano tutti in regola con il percorso di studi e portare all’azzeramento tendenziale della dispersione accademica che in genere colpisce circa un terzo degli studenti (di cui un quarto nel primo biennio). Ciò verrà fatto attraverso l’introduzione di modelli cooperativi di tutorato sia all’interno di ciascuna classe, che fra coorti diverse, come forma di “solidarietà sociale”, che sarà assunta dagli studenti più impegnati e capaci. A tale attività verranno riconosciuti specifici crediti formativi. I docenti e gli studenti sono quindi responsabilizzati per il successo di tutti. Si tratta del primo, e fondamentale, punto di partenza per la creazione di quelle reti di contatti così importanti per l’ingresso nel mondo del lavoro e per un duraturo rapporto con l’alma mater.

  1. Metodologie didattiche. Accanto alle tradizionali forme di didattica frontale, si farà ricorso a forme innovative ormai collaudate (cliniche legali, moot-court competitions, stage formativi) e si avvarrà di tutte le tecnologie che rafforzino l’apprendimento e la trasmissione di conoscenze. Tale modello innovativo si estenderà anche alla tesi di laurea che potrà essere sostituita, su indicazione e sotto il controllo del relatore, in attività equipollenti (partecipazione a gruppi di ricerca, ricerche quantitative e sul campo, attività redazionale collegata alla produzione scientifica del dipartimento su cui v. infra).
  2. Rigidità del triennio, flessibilità del biennio. La struttura del corso, i suoi obiettivi di forte impegno e speditezza impongono che il primo triennio sia organizzato senza possibilità di deroghe onde garantire che lo studente abbia acquisito alla fine del terzo anno 180 CFU nelle materie fondamentali (18 esami), anche per l’accesso alle professioni legali. Nel biennio finale gli studenti potranno godere di una maggiore flessibilità di scelta fra gli insegnamenti (9) e le attività, tutte in lingua, fermo restando taluni percorsi guidati che assicurino il conseguimento degli obiettivi formativi.

 

IL PROGETTO SCIENTIFICO

Anche dal punto di vista della attività di ricerca l’attività del Dipartimento presenta caratteri di marcata innovatività.

  • Il superamento degli steccati disciplinari. Il Dipartimento intende perseguire attivamente il superamento, in primo luogo culturale, della ripartizione dei settori scientifici disciplinari (SSD) che ormai è produttiva, in larga misura di parcellizzazione dei saperi giuridici, logiche proprietarie sugli ambiti di conoscenza, immobilismo e ostilità verso qualsiasi significativa innovazione a livello sia didattico, che scientifico che di reclutamento. In questo senso il Dipartimento intende muoversi per allineare la grande tradizione giuridica italiana ai filoni del sapere giuridico mondiale, cui sono totalmente sconosciute le micro-articolazioni italiane. Ferma restando la necessità per ciascuno studioso di specializzarsi in un determinato ambito, il Dipartimento intende favorire le ricerche che richiedano più di una competenza, affidate a due o più docenti, in modo da stimolare processi di ibridazione creativa.

Inoltre verrà richiesto a ciascun docente di impartire, d’intesa con lo specialista della materia, un corso in un ambito diverso da quello dal proprio SSD, nella consapevolezza che l’esperienza didattica costituisce un importantissimo fattore di aggiornamento e ampliamento delle conoscenze, e della loro sistematizzazione.

Il Dipartimento oltre a prevedere l’afferenza dei docenti a tutta l’area 12, mira ad attirare docenti di altre aeree (economica, storico-letteraria, socio-politica, scientifiche) i quali condividano il progetto di costante interscambio fra discipline diverse.

  • L’insegnamento del diritto come oggetto di ricerca

Il Dipartimento non intende limitarsi a mettere in atto modelli didattici innovativi nella loro organizzazione, nei loro contenuti, e nella loro fruizione, ma mira ad avviare sulla tematica dell’insegnamento del diritto – sulla quale l’Italia è in grave ritardo – appropriati filoni di ricerca, in raccordo con istituti e dipartimenti che, soprattutto nell’Europa continentale (con la quale condivide il modello educativo) abbiano analoghi obbiettivi.

  • La più ampia diffusione del sapere giuridico

Il Dipartimento è espressamente orientato verso l’accesso aperto (o “open access”) della sua produzione scientifica. Costituisce prioritario obbligo degli studiosi, la cui ricerca è finanziata con fondi pubblici, disseminare al più vasto pubblico i prodotti delle loro ricerche. Ciò comporta necessariamente la disintermediazione nella circolazione e l’affrancamento del modello, oggi paradossale, dello studioso che cede – solitamente gratuitamente o con ritorni modestissimi – i diritti d’autore ad un editore il quale rivende, dietro sostanzioso corrispettivo, quegli stessi risultati alla università che li ha finanziati. Il Dipartimento intende quindi promuovere o utilizzare piattaforme telematiche per la fruizione gratuita dei prodotti della ricerca, organizzati secondo le ormai consolidate forme delle collane o delle riviste referate, ovvero nei più agili “working papers”.

Con riguardo alle riviste e alle altre attività editoriali si intende coinvolgere, in quanto importante esperienza formativa soprattutto nella ricerca e nella verifica delle fonti, gli studenti, ai quali verranno riconosciuti appropriati crediti formativi. In questo modo, poi, si viene a rafforzare quella “comunità” fra docenti e discenti che fin dal Medioevo costituisce la cifra e la forza dell’Università.  Anche con riferimento ai libri di testo destinati agli studenti e di cui siano autori appartenenti al Dipartimento  si intende operare verso la libera utilizzazione degli stessi in cambio di un corrispettivo, riconosciuto dal Dipartimento all’autore, in proporzione al numero dei fruitori.

  • Il rifiuto del reclutamento “autoctono”

L’attuale sistema di reclutamento, in larga misura per contingenze economiche, è basato su un esasperato localismo nel processo di selezione degli studiosi e dei docenti. Attualmente è ben possibile che un giovane laureatosi in una università percorra presso tale sede tutte le tappe (dottorato di ricerca, assegno di ricerca, ricercatore, professore associato, professore ordinario) finendo emerito senza mai aver messo un piede fuori da quell’Ateneo. Ciò comporta – e comporterà ancor più in futuro – un drammatico impoverimento della cultura accademica italiana, sempre più ristretta in piccoli ambiti provinciali, e perdita di quella straordinaria ricchezza che per secoli è stata rappresentata dalla distribuzione, quasi casuale, in tutto il paese, presso le sedi periferiche, di giovani studiosi i quali formandosi e dimostrando il proprio valore si sono progressivamente mossi verso le sedi più prestigiose.  Per contrastare questo decadimento il Dipartimento intende il più possibile utilizzare lo strumento offerto dall’art. 18, comma 4, L.230/10 per il reclutamento di docenti che non abbiano prestato servizio nell’Ateneo. Peraltro, il Dipartimento intende sviluppare legami di collaborazione con altri Dipartimenti italiani e stranieri che condividono la stessa visione, per favore una forte e motivata circolazione di studiosi, i quali si formeranno dunque in una pluralità di sedi.

 

 

MODELLO DI ORDINE DEGLI STUDI

I ANNO

Primo semestre 

Istituzioni di diritto pubblico (10 CFU)

Istituzioni di diritto privato (10 CFU)

Diritto dell’Unione Europea (10 CFU)

 Secondo semestre

Filosofia del diritto (10 CFU)

Storia del diritto romano (10 CFU)

Storia del diritto italiano (10 CFU)

II ANNO

Primo semestre

Istituzioni di diritto privato II (10 CFU)

Economia politica (10 CFU)

Diritto processuale civile (10 CFU)

Secondo semestre

Diritto commerciale (10 CFU)

Diritto del lavoro (10 CFU)

Diritto tributario (10 CFU)

III ANNO

Primo semestre

Diritto costituzionale (10 CFU)

Diritto amministrativo (10 CFU)

Diritto internazionale (10 CFU)

Secondo semestre

Diritto penale (10 CFU)

Diritto processuale penale (10 CFU)

Sistemi giuridici comparati (10 CFU)

Totale del triennio: 180 CFU

 

IV ANNO

Primo semestre

Un esame (10 CFU) nell’ambito delle istituzioni internazionali (e.g. International organizations, Global administrative law)

Un esame (10 CFU) nell’ambito del governo dell’economia internazionale (e.g. International business contracts, International arbitration, International taxation)

Un esame (10 CFU) nell’ambito culturale (e.g. Law & Humanities, Law & Religion, Law & Gender)

 

Secondo semestre

Un esame (10 CFU) nell’ambito sanzionatorio (e.g. International criminal law, EU criminal law and procedure)

Un esame (10 CFU) nell’ambito della tutela dei diritti (e.g. Human rights, International and regional courts)

Un esame (10 CFU) nell’ambito socio-economico (e.g. International economy, International relations and policies)

 

V ANNO

Primo semestre

Tre esami (totale 30 CFU) a scelta fra quelli non sostenuti nel IV anno

 

Secondo semestre

Prova finale, stages, moot court competitions, cliniche legali, ricerche ed altre attività formative (totale 30 CFU)

 

Totale del biennio: 120 CFU

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16 Commenti

  1. “Attualmente è ben possibile che un giovane laureatosi in una università percorra presso tale sede tutte le tappe (dottorato di ricerca, assegno di ricerca, ricercatore, professore associato, professore ordinario”,

    capisco il senso e la bontà dell’affermazione e la condivido, ma purtroppo è sbagliato scrivere “attualmente è ben possibile”, ATTUALMENTE NON E’ POSSIBILE NULLA, PERCHE’ DOPO L’ASSEGNO DI RICERCA C’E IL NULLA, siete d’accordo?

  2. la mia idea è questa:

    1) laureato in giurisprudenza equivale a DISOCCUPATO

    2) laureato in economia equivale ad OCCUPATO.

    Allora che fare?
    Semplice, dare valore alla laurea, ma ancora di più al DOTTORATO NEI CONCORSI PUBBLICI (DOTTORATO DI GIURISPRUDENZA O DI ALTRE DISCIPLINE)
    Se nel bando della PA, viene scritto che il dottorato (CHE PER LA LEGGE ITALIANA E’ il GRADO/TITOLO universitario di TERZO CICLOIL TERZO, IL Più IMPORTANTE) conta tanto, allora si verrà creato quel ponte tra Universita’ e mondo del lavoro che ora manca.
    E’ inutile fare riforme di corsi di laurea, se poi l’accesso al mondo del lavoro è sbarrato.
    Nel mondo civilizzato, non si accede alla PA con le prove scritte ed orali, ma con il Curriculum, qui in Italia si devono fare tante prove scritte ed orali e se un ha il dottorato, ah, questo non importa, che “caxxo è il dottorato?” ti chiedono quando ti informi se vale qualcosa nei concorsi della PA.
    CHE SENSO HA L’UNIVERSITA’ SE L’ESPRESSIONE PIU ALTA DEL GRADO DI ISTRUZIONE UNIVERSITARIA (IL DOTTORATO) NON CONTA UN CAXXO?

  3. Caro Anto,
    a prescindere dalla (francamente discutibile) automatica correlazione tra occupazione/disoccupazione e laurea in economia (e perché non anche in lettere e filosofia, visto il trend attuale?)/giurisprudenza, mi sembra di averti più volte detto che il dottorato non ha nessun legame col mondo del lavoro extra accademico: come ricorderai, è stato più volte sottolineato che esso serve a creare contatti/rapporti mentre si beneficia di una borsa di studio (quando è con borsa) ed a verificare se si è portati nell’attività di ricerca, studio e scrittura, ai fini dell’auspicata (ma per nulla scontata) progressione all’interno dell’università. Gli “alti studi” non hanno necessariamente una sicura ricaduta occupazionale: anzi, in certi casi, costituiscono un vero e proprio ostacolo all’ingresso nel mondo del lavoro, in particolare quello privato, il quale, per quanto asfittico in questo periodo, è comunque ispirato ad un dinamismo assolutamente sconosciuto all’ambiente accademico. In quanto al settore pubblico, anche in questo caso il “saper fare” richiesto in quella sede non coincide affatto con la formazione (altamente specialistica ed ipersettoriale) conseguita all’esito del dottorato, anche se mi pare che in certi concorsi il possesso del titolo comporti l’attribuzione di una manciata di punti in sede di formazione della graduatoria.

    • ho come il ricordo di un intervento, in un altro thread, ma con la stessa tesi: “l’inutilità formativa del dottorato, ad di fuori della prospettiva accademica”.

      quindi forse perdo tempo, a replicare nuovamente che quella tesi è certamente falsa in qualche ambito e quindi non affermabile nella generalità con cui viene affermata, perché l’autore non sembra disponibile a cambiare il suo racconto.

      provo un’altra volta perché sono un convinto fannullone ed invece che scrivere articoli scientifici (da sottoporre alla prossima vqr) preferisco ribattere nei commenti di un thread su un blog: non è una cosa seria fare affermazioni assolute ed all’indicativo presente come quella che lei ha fatto sulla inutilità del dottorato in ambito aziendale.

      ci sono ambiti in cui le aziende italiane cercano dottori di ricerca, ed è giusto che facciano così perché la formazione che gli studenti ottengono dopo la laurea magistrale non può essere adeguata.

  4. MAFFoodandbeverage:

    Mettiamo che io abbia conseguito un dottorato in diritto tributario, e per l’ammissione abbia superato prova scritta ed orale; supponiamo che io abbia discusso la tesi di dottorato in diritto TRIBUTARIO e che questa sia diventato un libro

    Supponiamo che io voglia fare un concorso all’AGENZIA DELLE ENTRATE, dove la materia tributaria dovrebbe avere un grosso peso, PERCHE’ DOVREI RIPETERE QUESTA MATERIA con il rischio di saperne di più di chi mi interroga?

    Il mondo avanti, L’Italia rimane ferma
    SVEGLIA!!!!!!!!!!!!!!!!

  5. 1) La prova scritta e orale di ammissione al dottorato in diritto tributario è strutturalmente differente da quella del concorso in Agenzia delle Entrate, e per entrare in AE la legge prevede il superamento delle prove previste nello specifico concorso;
    2) La tesi di dottorato in diritto tributario, poi diventata libro, è strutturalmente differente dall’abilità espositiva richiesta per il superamento del concorso in Agenzia delle Entrate;
    3) Incombe su di te l’onere di dimostrare di saperne di più di chi ti interroga (in realtà, l’esperienza insegna che basterebbe saperne quasi tanto quanto chi ti interroga) in sede di concorso ai fini del suo superamento, e, visti i pregressi alti studi (il dottorato!), dovrebbe trattarsi di un gioco da ragazzi. Visto che così non è (in altre parole: visto che il dottorato si dimostra intrinsecamente inidoneo a fornirti la preparazione per superare un concorso pubblico), tu chiedi una sorta di sconto “ope legis” su tutte le prove concorsuali o almeno su parte di esse: il che è evidentemente illegittimo e lesivo della parità di trattamento tra candidati (principio, quest’ultimo, che converrai essere di elementare civiltà giuridica).

  6. se, nell’esempio, chiedo lo sconto è perché, sempre nell’esempio, mi sono spaccato la schiena per essere migliore degli altri e se i risultati lo dimostrano, allora mi viene in soccorso la Costituzione italiana che premia il merito all’art. 34

    SECONDO COMMA DELL’ART. 34:
    “I capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi”.

    Questo si applica al CURRICULUM DI TUTTI, anche di chi PARTECIPA AD UN CONCORSO PUBBLICO.

    Infatti,
    infatti, il valore del MERITO, a detta di tutti i giuristi italiani, si evince proprio da questa disposizione, che assume carattere generale.

    Non tenere mai conto del CURRICULUM significa una PALESE violazione dell’art. 34 COST.
    IL MERITO LO SI VEDE ANCHE DAL CURRICULUM (soprattutto in Italia, dove uno studio tantissimo (laurea, master, dottorato, pubblicazione di libri) per poi fare il BENZIANIO.
    SVEGLIA!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!

  7. “Hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi” recita l’art. 34, comma 2, Cost., ma non aggiunge “e ad una conseguente rendita vitalizia o all’accesso facilitato ai concorsi pubblici”.

  8. e’ l’articolo della Costituzione chi introduce il MERITO.

    non ci si può fermare ad una mera interpretazione letterale.

    Se uno ha titoli, deve poterli fare valere!

    Altrimenti siamo in uno Stato SOTTOSVILUPPATO, tanto ciò vero che i cervelli sono in fuga, i giovani sono in fuga, i pensionati sono in fuga……………….

    non si può sempre iniziare da capo, BASTA!!!!!!!!!!!!!!!!!!1!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!

  9. Caro Anto,
    hai una strana idea del merito e degli effetti ad esso correlati. Sulla base dei tuoi ragionamenti bisognerebbe allora gridare allo scandalo per il fatto che un dottorato in diritto comparato non sia titolo idoneo per partecipare in pole position ad una missione nello spazio: chi, meglio di un comparatista, potrebbe fare ricerca sul campo? …che so, magari lavorando ad un progetto di “Diritto Interstellare” o “Dei Paesi delle Galassie”?

  10. MAFFoodandbeverage:

    RISPONDO IN 4 PUNTI:

    1)L’articolo pubblicato su questa pagina di Roars.it parla di una proposta per una ridefinizione del corso di laurea in giurisprudenza: evidentemente così come è ora non soddisfa: non soddisfa i laureati, non soddisfa il mondo del lavoro ecc….altrimenti sarebbe rimasto inalterato, come lo è stato dagli anni 50 sino al 3 più 2 del 2002 circa …
    Su questo concordi?

    2) Il mio tentativo è quello di attribuire un valore (anche a livello di punteggio, o considerazione effettiva nel mondo del lavoro) al dottorato, che esiste sin dal 1984 (se non da prima) e non ha mai ricevuto un’adeguata tutela.
    Siccome per fare il Dottorato bisogna attenersi alle regole della Pubblica Amministrazione (bando, finanziamento, borse, prova scritta, prova orale, numeri chiusi, esame finale, regole varie, composizione commissione, ricorsi al tar ecc..)
    allora, SICCOME DOTTORATO E’ PUBBLICA AMMINISTRAZIONE, il mio contributo consiste nel provare a dare al DOTTORATO un valore, uno status, un punteggio, un significato ANCHE ALL’INTERNO DELLA PUBBLICA AMMINISTRAZIONE.

    3) QUESTO E’ IL MIO CONTRIBUTO PER DARE UN SENSO ALLA LAUREA ED AL POST LAUREAM IN GIURISPRUDENZA.

    4)Qual è IL TUO CONTRIBUTO?

    • Caro Anto:
      1) Il 3+2 è stato uno scempio, e pensare di ritornare ad un nuovo 3+2 significa rinnovare (senza la scusante dell’inesperienza) uno scempio. Qui soddisfazione e mercato del lavoro non c’entrano.
      Più che soddisfare, peraltro, un corso di studi dovrebbe formare: i tanti progetti di riforma sino ad ora succedutisi avrebbero dovuto contribuire a decidere come formare, ed entro quali àmbiti, ma gli esiti sono stati quelli che sappiamo. Si può pertanto affermare che, ormai da diversi decenni, la sfida della formazione per i giuristi “in action” (laureati in giurisprudenza che desiderano fare l’avvocato, il magistrato – anche amministrativo -, il notaio o il funzionario dell’Agenzia delle Entrate o di altro ente) è stata vinta dagli organizzatori dei corsi privati di preparazione ai vari concorsi, diffusi in tutta Italia, e spesso meno costosi dell’università pubblica. In alcuni casi, si sono creati veri e propri monopòli radicatisi a sèguito della intrinseca inidoneità dell’università ad offrire questo tipo di formazione: i dati parlano chiaro, deponendo con evidenza in questo senso.
      2) Parli, accostandoli con una certa superficialità, di “valore” e “tutela”: sono concetti estremamente diversi. Il “valore” di un qualunque oggetto si misura nella sua idoneità a soddisfare un bisogno: tanto più è idoneo, tanto più il suo valore sarà alto. Da quello che scrivi, lasci intendere con chiarezza che il dottorato ha un valore bassissimo, se non addirittura nullo. Diventa a questo punto difficile immaginare la predisposizione di una “tutela” per uno strumento di così poco valore!
      Per aderire meglio alle tue istanze, si dovrebbe forse parlare della “tutela” degli interessi di coloro i quali hanno ingenuamente fatto affidamento sulla spendibilità extra accademica del titolo di dottore di ricerca (peraltro in materie giuridiche!!!): purtroppo non esiste una simile tutela, così come non esiste la tutela di chi fa consapevolmente un investimento, quando questo investimento si rivela fallimentare.
      Da questo punto di vista, penso che tu possa metterti l’animo in pace: se in università ti è ormai precluso ogni accesso, e a questo punto vuoi entrare in una pubblica amministrazione, fai l’estremo sacrificio di investire in un corso privato di preparazione al concorso che vuoi sostenere. Sono sicuro che ne otterrai enormi benefici.
      3) Diventa un po’ più preoccupante la tua esposizione quando illustri le motivazioni di fondo e gli asseriti presupposti logici del tuo “contributo”. Non sono un amministrativista, ma ti assicuro che i termini del tuo strano sillogismo riportato al punto 2) del tuo intervento mi hanno fatto venire i brividi, anche al netto della “foga sindacalizzante” che, per una frazione di secondo, ho voluto concedere alla tua prosa.
      4) Qual è il mio contributo? Dici che aiutare ad aprire gli occhi non è abbastanza?

  11. @MAFFoodandbeverage:

    per sdrammatizzare direi che amo mettere i brividi… cmq…

    1) Se riconosci la superiorità dei corsi privati, che funzione ha l’università e che senso hanno i titoli che essa conferisce? e perché allora non la chiudiamo?
    2)Quando parlavo di tutela e valore, intendevo il valore legale: se la laurea lo possiede, perché non dovrebbe possederlo anche il dottorato? (vedi punto 3 seguente)
    Per quanto riguarda i concetti a cui fai riferimento, non sono ignorante, conosco il significato dell’interesse, del valore, del principio, del bilanciamento dei principi e della gerarchia dei valori, della tutela degli interessi, del bilanciamento degli interessi, della meritevolezza di tutela, della ragionevolezza, della proporzionalità, dell’adeguatezza.
    3)Non opero nessun sillogismo, ma come nei concorsi della PA è apprezzata la laurea, non vedo perché non debba essere apprezzato il Dottorato, entrambi presenti nel Decreto 22/10/04, n. 270 (riguardante anche i titoli rilasciati delle università).
    4) Io sto solo cercando di capire come l’istruzione universitaria possa interagire con il mondo del lavoro (privato e pubblico), in maniera più diretta, considerando il fenomeno nel suo complesso, non a compartimenti stagni.
    5) Quando uno fa tante esperienze come me (avvocato, dottore di ricerca, autore di 3 libri e di vari articoli, docente a contratto, docente di master, docente in summer schools ecc.), crede, in buona fede, ma con molta convinzione (giustificata), di poter dare di più alla Pubblica Amministrazione rispetto ad un neolaureato che ad es, martedì prossimo, siederà accanto a me come candidato (senza alcuna esperienza ulteriore nel mondo della cultura e della istruzione). Tu non credi?
    6)Dobbiamo per forza dire di essere tutti uguali, di fronte al concorso pubblica amministrazione anche se sappiamo che ciò non è vero (nel senso di maggiori competenze)?

  12. @MAFFoodandbeverage:

    per sdrammatizzare direi che amo mettere i brividi… cmq…

    1) Se riconosci la superiorità dei corsi privati, che funzione ha l’università e che senso hanno i titoli che essa conferisce? e perché allora non la chiudiamo?
    2)Quando parlavo di tutela e valore, intendevo il valore legale: se la laurea lo possiede, perché non dovrebbe possederlo anche il dottorato? (vedi punto 3 seguente)
    Per quanto riguarda i concetti a cui fai riferimento, non sono ignorante, conosco il significato dell’interesse, del valore, del principio, del bilanciamento dei principi e della gerarchia dei valori, della tutela degli interessi, del bilanciamento degli interessi, della meritevolezza di tutela, della ragionevolezza, della proporzionalità, dell’adeguatezza.
    3)Non opero nessun sillogismo, ma come nei concorsi della PA è apprezzata la laurea, non vedo perché non debba essere apprezzato il Dottorato, entrambi presenti nel Decreto 22/10/04, n. 270 (riguardante anche i titoli rilasciati delle università).
    4) Io sto solo cercando di capire come l’istruzione universitaria possa interagire con il mondo del lavoro (privato e pubblico), in maniera più diretta, considerando il fenomeno nel suo complesso, non a compartimenti stagni.
    5) Quando uno fa tante esperienze come me (avvocato, dottore di ricerca, autore di 3 libri e di vari articoli, docente a contratto, docente di master, docente in summer schools ecc.), crede, in buona fede, ma con molta convinzione (giustificata), di poter dare di più alla Pubblica Amministrazione rispetto ad un neolaureato che ad es, martedì prossimo, siederà accanto a me come candidato (senza alcuna esperienza ulteriore nel mondo della cultura e della istruzione). Tu non credi?
    6)Dobbiamo per forza dire di essere tutti uguali, di fronte al concorso pubblica amministrazione anche se sappiamo che ciò non è vero (nel senso di maggiori competenze)?

  13. […] L’intervento del prof. Vincenzo Zeno Zencovich sulla possibile riforma dei corsi di laurea magistrale in Giurisprudenza, sul quale non posso intervenire perché non faccio parte di un dipartimento di Giurisprudenza, ha aperto la riflessione sul tema più generale degli studi delle Scienze sociali e umanistiche (come sono individuate nella classificazione ERC) e sull’adeguatezza delle partizioni disciplinari, delle aggregazioni dipartimentali, degli schemi essenziali degli ordinamenti didattici. […]

  14. […] L’intervento del prof. Vincenzo Zeno Zencovich sulla possibile riforma dei corsi di laurea magistrale in Giurisprudenza, sul quale non posso intervenire perché non faccio parte di un dipartimento di Giurisprudenza, ha aperto la riflessione sul tema più generale degli studi delle Scienze sociali e umanistiche (come sono individuate nella classificazione ERC) e sull’adeguatezza delle partizioni disciplinari, delle aggregazioni dipartimentali, degli schemi essenziali degli ordinamenti didattici. […]

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