Che agli alunni sfugga la natura della difficoltà della versione mi appare evidente: appena consegnato il testo da tradurre, i candidati si precipitano a cercare i significati delle parole sul vocabolario. I risultati sono univoci: per la maggior parte le versioni consistono in una assurda sequenza di frasi quasi tutte senza senso. Lo studio delle lingue classiche finisce per suggerire agli studenti che la frase sgrammaticata e informe, il discorso insensato e privo di contenuto siano espressioni linguistiche accettabili. Per noi il periodo complesso, la ricchezza lessicale, l’etimologia e il senso storico sono i vantaggi più evidenti dello studio delle lingue classiche. Anche nel mondo tedesco a cavallo tra Settecento e Ottocento sembrava che la cultura moderna dovesse rendersi autonoma e che lo studio delle opere antiche si perdesse in un’erudizione oziosa. A questa contestazione Hegel replicava innanzitutto dal lato del contenuto. A chi sosteneva che l’attività didattica si può esercitare su qualunque materia, Hegel rispondeva che l’esercizio non è indifferente alla materia: solo un contenuto valido e significativo corrobora la mente, le procura contegno, saggezza, presenza di spirito, senza le quali essa non acquisisce la versatilità. “Chi non ha conosciuto le opere degli antichi ha vissuto senza conoscere la bellezza”. Il nutrimento offerto dalle opere antiche non è però soltanto nel loro contenuto; non meno importante è la forma in cui è realizzato. Il rigoroso studio grammaticale delle lingue classiche si raccomanda così – questa la conclusione di Hegel – come uno dei mezzi didattici più nobili e universali. Se la didattica gentiliana era guastata da intenzioni classiste; l’attuale scuola pubblica non fa meglio sotto il profilo sociale: disprezzando gli obiettivi didattici, essa mantiene ignorante chi la frequenta.
1.
Osservando[1] una volta il corso di recupero di latino di un mio collega che con meravigliosa finezza filologica estraeva davanti agli alunni morfologia, semantica ed etimologia da ogni parola, mi sono chiesto se gli amorevoli indugi di quel recupero non comportassero la rinuncia ai vantaggi della quantità: è almeno probabile che la traduzione di cinquanta frasi permetta di memorizzare più parole e più regole sintattiche, permetta di acquisire più familiarità con lo spirito della lingua, di quanto possa fare lo scrutinio dei misteri di tre frasi. Il mio collega procedeva secondo il suo apprendistato nel liceo gentiliano che, sicuro del lavoro della scuola media e incurante se non desideroso di future perdite di alunni, si dedicava di preferenza all’approfondimento filologico.
L’eredità dell’impostazione gentiliana e la fine dello studio del latino e della grammatica italiana alle medie hanno generato la convinzione diffusa della difficoltà enorme, addirittura insormontabile della versione. Eppure la traduzione di testi scritti richiede una competenza meno elevata di quella richiesta da una lingua straniera – infatti è già meno agevole capire chi la parla, e parlarla e redigervi testi scritti è ancora più difficile. Non solo, tra il lessico italiano e quello latino (un po’ meno quello greco) si presenta una forte somiglianza. Risulta dunque un’unica vera difficoltà di traduzione, quella per cui le lingue classiche si differenziano dall’inglese e dal francese, ma sono simili al tedesco: l’ordine tipico delle loro frasi non è quello a cui siamo abituati dalla nostra lingua: soggetto – predicato – complementi, ma uno diverso: soggetto – complementi – predicato.
Che agli alunni sfugga la natura della difficoltà della versione mi appare evidente durante la sorveglianza agli esami di Stato. Appena consegnato e letto il testo da tradurre, si apre la fase ventilata dello sfogliare il vocabolario: i candidati si precipitano a cercare i significati delle parole. Ma iniziare così la versione è il modo migliore per fallirla: le parole hanno più significati e la loro ambiguità si accentua a scuola, che propone non le lingue usate in un unico momento storico, ma sviluppate in una lunghissima diacronia. I risultati rilevati in fase di correzione sono univoci: per la maggior parte le versioni non tanto contengono errori gravi di comprensione, quanto consistono in una assurda sequenza di frasi quasi tutte senza senso. Questo fallimento generale non è rilevato dai commissari che, in esecuzione del principio ‘inclusivo’ della scuola attuale, accettano tutto e trasformano la valutazione da atto del riconoscere il valore ad atto del dare un valore. Che alunni con simili abilità di traduzione siano stati ammessi all’esame di Stato dimostra peraltro che l’atteggiamento valorizzante dei commissari è stato già proprio dei docenti nei precedenti anni di liceo.
La conclusione non può che essere questa: attualmente lo studio delle lingue classiche suggerisce agli studenti che la frase sgrammaticata e informe, il discorso insensato e privo di contenuto siano espressioni linguistiche accettabili, che gli autori classici, pur essendo i creatori del nostro linguaggio e della nostra cultura, ci abbiano lasciato testi adeguatamente traducibili in modo assurdo. In altri termini: lo studio delle lingue classiche, che nella scuola gentiliana era la palestra delle competenze più raffinate, è diventato nella nuova scuola la zona oscura in cui cessa di valere la logica e si regredisce alla libera associazione.
Tutto ciò sembra non costituire un danno evidente perché il liceo classico attrae scarse iscrizioni e soltanto i pochi diplomati che sceglieranno gli studi letterari sentiranno (c’è almeno da sperarlo) la sofferenza per la loro impreparazione. Ma non soffrire non significa essere in salute. Anche nel caso meno grave che la convinzione di poter scrivere impunemente assurdità sia arginata entro l’ambito nel quale ci si è abituati a farlo e non esondi su tutta l’intelligenza, resta tuttavia il danno della mancata acquisizione delle conoscenze e delle competenze che nascono dallo studio delle lettere classiche.
Queste hanno la particolarità di essere studiate su testi che il tempo ha selezionato in modo drastico, spesso crudele; per questa selezione esse sono lingue dotte, lingue non funzionali ai bisogni quotidiani, per i quali spesso sarebbe sufficiente la gestualità e l’espressione linguistica si aggiunge per cortesia, ma dirette all’argomentazione – filosofica, storica, retorica – e alla forma artistica. Esse non sono lingue morte (è morto il tronco da cui si diparte il ramo?), come si sente spesso, ma sono il fondamento della cultura, perché nella maggioranza delle attuali lingue europee le forme sintattiche sono debitrici della sintassi latina e i termini astratti derivano dal greco attraverso la mediazione del latino. Lo studio delle lingue classiche permette dunque di acquisire la padronanza del periodo complesso, di tesaurizzare le parole astratte indispensabili a ogni discorso teorico e di connetterle ai gesti a cui in definitiva risalgono. A questo proposito si pensi, per esempio, alla parola ‘concetto’ la cui etimologia riconduce alla presa riuscita dell’oggetto (da cui anche il tedesco ‘Begriff’). L’etimologia non può sostituire la semantica e la sintattica; assicurando però la connessione del termine astratto al gesto, è uno strumento indispensabile per afferrarne il contenuto, dunque per impedire che le catene argomentative si risolvano in un calcolo, che i termini diventino pure convenzioni esterne e quindi più sorgenti di perplessità che elementi di scienza.
Che la complessità sintattica, il lessico astratto e l’etimologia siano appresi direttamente dalle opere classiche ha un ulteriore significato: confutare la convinzione ingenua che il mondo sia appena venuto fuori dal nulla, che tutto sia possibile e dipenda dalla nostra spontanea creatività, che dunque ci si dia alla creatività prima di avere imparato. Le lingue classiche sono l’ostacolo più importante alla presunzione e al dilettantismo.
2.
Per noi il periodo complesso, la ricchezza lessicale, l’etimologia e il senso storico sono i vantaggi più evidenti dello studio delle lingue classiche. Altrove e in passato non è stato così. Nel mondo tedesco a cavallo tra Settecento e Ottocento il periodo complesso non era ancora stato emarginato dal giornalismo, le lingue classiche non costituivano il passato della lingua in uso e quindi non offrivano approfondimenti etimologici, l’ignoranza non era così fitta da comportare il disprezzo del passato. A quel tempo era possibile scorgere altri motivi per lo studio delle lingue classiche. Quelli più decisivi sono indicati in uno dei discorsi ginnasiali di Hegel[2].
In accordo con lo spirito della sua filosofia, a differenza dell’intelletto, che è la capacità di scoprire le costanti generali che regolano l’inquietudine della realtà, ragione è la facoltà superiore che dapprima, come dialettica, scopre le antinomie nel generale, poi, come speculazione, le risolve, così da pervenire a conoscere l’essenza della realtà. In pedagogia la dialettica si mostra come esigenza di estraniarsi da sé del soggetto, come esigenza di cercarsi nel lontano; la speculazione è invece un ritrovarsi nel lontano, quindi il conciliare la sua estraneità e ritornarvi a sé. Il sistema filosofico hegeliano contiene dunque una critica profonda di ogni pedagogia che presupponga uno sviluppo individuale secondo un progresso rettilineo dall’incompetenza alla competenza e si arrovelli per bruciarne le tappe: contrariamente a un pregiudizio molto diffuso, la filosofia hegeliana non è dominata dall’idea di progresso, ma la coniuga con la circolarità; così che lo sviluppo non è indeterminato, ma ha come fine il ritorno all’inizio, e la sua fecondità è condizionata dalla capacità di consegnarsi al lontano.
Ripercorriamo in breve le argomentazioni del discorso di Hegel. Egli osserva che in passato l’apprendimento del latino era a tal punto la parte più essenziale dello studio teorico, che alle altre discipline si riconosceva utilità pratica, non dignità formativa. In seguito la giusta esigenza che un popolo esprima nella propria lingua i tesori della conoscenza scientifica, i metodi meccanici o erronei adottati nello studio del latino e la preoccupazione per il ritardo con cui si acquisivano molte importanti conoscenze e abilità misero in crisi la certezza che il latino fosse il mezzo formativo principale se non unico. Dalla crisi è emerso un sistema scolastico distinto su tre livelli: quello che insegna nozioni e abilità pratiche, quello che offre competenze superiori senza la letteratura antica, quello che ha conservato lo studio delle lingue classiche come base dello studio teorico.
Si contestò tuttavia, e lo si fa ancora oggi, che gli studi classici dovessero conservare questa funzione: sembrava che la cultura moderna dovesse rendersi autonoma e che lo studio delle opere antiche si perdesse in un’erudizione oziosa.
A questa contestazione Hegel risponde innanzitutto dal lato del contenuto. La letteratura greca, e poi quella latina, rappresentano l’eccellenza da cui occorre partire nell’azione didattica: “Chi non ha conosciuto le opere degli antichi ha vissuto senza conoscere la bellezza”. A chi ribatte che l’attività didattica si può esercitare su qualunque materia, Hegel risponde che l’esercizio non è indifferente alla materia, che questa è un nutrimento per la mente che vi si esercita: solo un contenuto valido e significativo corrobora la mente, le procura contegno, saggezza, presenza di spirito, senza le quali essa non acquisisce la versatilità.
Il nutrimento offerto dalle opere antiche non è però soltanto nel loro contenuto; non meno importante è la forma in cui è realizzato. Poiché la forma va perduta nelle traduzioni, occorre imparare le lingue classiche. Lo sforzo richiesto per imparare il latino e il greco appare un indugio nel progresso dell’apprendimento; ma questo indugio è un bisogno essenziale della mente. Perché siano oggetti conosciuti, la natura e la mente devono prima essere oggetti, devono cioè essere estranei alla mente; la cultura teorica non può dunque che iniziare dal non-immediato, dallo straniero, da ciò che esiste soltanto nel ricordo. L’esigenza di separazione è così necessaria da mostrarsi come istinto, come forza di attrazione esercitata dal lontano. Cercare la profondità nella lontananza potrebbe sembrare un inganno, ma è un inganno necessario, perché la forza della mente si misura dall’ampiezza del suo scostamento dal centro in cui era immersa e in cui aspira a ritornare. L’opportunità di portare la mente dei giovani in un mondo lontano e straniero poggia sull’impulso centrifugo che la domina.
Il muro del mondo antico e della sua lingua, che separa da sé stessi, contiene d’altra parte anche i fili del ritorno a sé: la meccanicità nell’apprendimento delle lingue classiche è qualcosa di più di un male necessario per arrivare ai contenuti eccellenti; proprio essa è l’estraneo che la mente assimila per tornare a sé stessa. Alla meccanicità si connette infatti lo studio della grammatica, che non può essere mai abbastanza celebrato perché è l’inizio dell’educazione logica: la grammatica procura il primo incontro con le categorie, cioè con i prodotti propri dell’intelligenza. Per la loro semplicità esse sono quanto di più comprensibile, adatte dunque a essere apprese da menti giovani non ancora capaci di assimilare il molteplice nella sua ricchezza; per loro tramite l’intelligenza inizia a comprendere sé stessa; i nomi con cui la grammatica le indica permettono infatti di distinguerle, e possedere queste differenze è il primo passo per acquisire la capacità di muoversi tra le astrazioni, presupposta dallo studio della logica. La grammatica, contrariamente a un’opinione comune, è dunque il fine, non il mezzo, dell’apprendere.
Mentre infine l’abitudine irriflessa guida la comprensione della lingua madre, la comprensione delle lingue classiche dipende dalla conoscenza e dall’applicazione delle loro regole; il lavoro sulle lingue classiche genera dunque l’abitudine a sussumere il particolare sotto il generale e a particolarizzare il generale; propriamente in questa abitudine a superare il contrasto tra particolare e generale consiste la ragione. Il rigoroso studio grammaticale delle lingue classiche si raccomanda così – questa la conclusione di Hegel – come uno dei mezzi didattici più nobili e universali.
3.
L’inquietudine per la decadenza della cultura liceale in Italia mi induce a espormi al rimprovero di dilettantismo e a divulgare un procedimento il cui uso mi facilita notevolmente la traduzione dei testi. Esso presuppone la padronanza della logica della frase e del periodo: occorre saper distinguere la principale dalle secondarie, il predicato e il soggetto; presuppone quindi la conoscenza delle congiunzioni, dei pronomi relativi e dei participi. La successione dei passi, da osservare rigidamente, è la seguente:
- Prima di leggere, segnare con una doppia sbarra “||” il più vicino segno forte di punteggiatura (il punto, il punto e virgola, il due punti e i segni corrispondenti nel greco), in modo da concentrare l’attenzione al periodo da tradurre.
- Leggere e rileggere fino alla doppia sbarra in modo da eliminare errori.
- Individuare gli incisi e metterli tra parentesi “(…)” per posticiparne la traduzione.
- Per lo stesso motivo, cercando le congiunzioni subordinanti, i pronomi relativi e i participi, individuare le secondarie e metterle tra parentesi.
- Individuare la principale.
- Individuarne il predicato (in latino è particolarmente facile perché le sue terze persone, a differenza di quasi tutte le altre parole, finiscono con la lettera ‘t’) e sottolinearlo “___”(elegantemente, se possibile); isolare la principale con una sbarra “|” da eventuali coordinate; osservando la persona e il numero del predicato, individuare il soggetto e segnarlo con un cerchio (elegantemente, se possibile); se il verbo è transitivo, individuare il complemento oggetto.
- Solo a questo punto precisare, con l’aiuto del vocabolario se occorre, il significato delle parole della principale e tradurla. Memorizzare la traduzione prima di procedere.
- Tradurre gli incisi.
- Tradurre le coordinate usando lo stesso metodo.
- Individuare i predicati delle secondarie e mediante persona e numero risalire ai loro soggetti che devono essere segnati (elegantemente, se possibile) con una “x” sopra la prima sillaba.
- Controllare la nitidezza della traduzione e applicare lo stesso metodo ai periodi successivi.
Come si vede, questo procedimento, oltre al vantaggio di affrontare innanzitutto la difficoltà più grave, quella del diverso ordine delle parole nelle frasi, e di individuare gli elementi centrali del periodo, consente il ricorso al vocabolario soltanto dopo che l’emersione del contesto aiuta a selezionare il giusto significato dei singoli termini.
L’altezza degli obiettivi della didattica gentiliana era guastata da intenzioni classiste; tuttavia l’attuale scuola pubblica, assoggettata all’imperativo irrazionale della “vera inclusività”, rinuncia a insegnare, né fa meglio di quella gentiliana sotto il profilo sociale: disprezzando gli obiettivi didattici, essa mantiene ignorante chi la frequenta e lo rallenta rispetto a chi frequenta la scuola a pagamento. Nel suo contesto la preoccupazione di rimodulare il primo approccio alle lingue classiche può soltanto far sorridere. Questo tentativo valga almeno come augurio di tempi migliori.
[1] Ringrazio il prof. Fausto Di Biase per i preziosi consigli durante la stesura di queste riflessioni.
[2] Una nostra traduzione del discorso menzionato è disponibile al seguente indirizzo: http://www.badiale-tringali.it/2016/08/un-discorso-di-hegel.html
Ho letto e sorriso: quante volte ho fatto l’esperienza che il collega racconta! Quante volte ho ideato strumenti e strategie per far sì che gli studenti ragionassero logicamente ed in ciò avessero piacere.
Non posso che essere favorevole allo studio delle lingue classiche, e, in generale, allo studio del passato.
“Mentre ….. l’abitudine irriflessa guida la comprensione della lingua madre….” Mi sembra che la riflessione metalinguistica novecentesca abbia un tantino problematizzato ed arricchito cosa s’intende per competenza linguistica nella prima (alias “materna”) lingua e nelle altre, successive o anche parallele, e come si acquisiscono e si sviluppano tali competenze assai complesse. Passando ad un altro argomento , un “rigoroso studio grammaticale” si può compiere in e per una qualsiasi lingua: russo o ungherese o giapponese o basco o quel che si vuole, la scelta è ampia. Esiste persino l’italiano.
Sono anche io convinto del vantaggio notevole fornito dal liceo classico rispetto a tutti gli altri studi superiori. E questo soprattutto per chi poi fara’ lo scienziato o l’ingegnere.
Questo per almeno 3 motivi:
1) meglio imparare bene matematica, fisica, chimica, statistica all’universita’, partendo da zero, che arrivarci con la testa piena di concetti imparati male al liceo.
2) Una persona che studia solo materie tecnico scientifiche non ha gli strumenti per fare scelte di tipo etico, ambientale o antropologico, e dunque rischia di non avere la visione necessaria ad usare la scienza a fin di bene.
3) Al liceo classico si riesce a campare studiando poco e ragionando molto, e quindi resta un sacco di tempo per fare cose piu’ utili che i compiti del giorno dopo: musica, sport, coltivare relazioni umane, sesso, viaggi, etc…
“Al liceo classico si riesce a campare studiando poco e ragionando molto”
____________
Ho ricordi un po’ diversi, ma si vede che i tempi cambiano.
“Al liceo classico si riesce a campare studiando poco e ragionando molto”
———-
Se legge ‘sta cosa mio figlio gli viene uno sturbo.
Non so se vi sia ironia… Voglio sperare, sia per i matematici sia per i classicisti…
Comunque, vari studi hanno posto in evidenza come le abilità sviluppate e competenze logiche acquisite sono le stesse per le lingue (classiche, ma anche moderne) e la matematica…
Questo punto è importante.
Ma io vorrei che lo studio del passato rimanesse di per se stesso, per motivi che riguardano l’identità culturale, per capire molto più il presente, che poco dice di nuovo, e molto amalgama, prende in prestito, ragiona per contrasti ed opposizioni…
A Mariam: “vari studi ecc.” Ad esempio?
Sine ira et studio.
“1) meglio imparare bene matematica, fisica, chimica, statistica all’universita’, partendo da zero, che arrivarci con la testa piena di concetti imparati male al liceo.”
Lo confesso: misteriose mi appaiono le ragioni in base alle quali al liceo i concetti si debbano “imparare male” e all’università invece si “imparano bene” (nel rispetto e riconoscimento – ovvi – delle differenti possibilità di approfondimento tecnico delle questioni).
“2) Una persona che studia solo materie tecnico scientifiche non ha gli strumenti per fare scelte di tipo etico, ambientale o antropologico, e dunque rischia di non avere la visione necessaria ad usare la scienza a fin di bene.”
Limitatamente ad un confronto “classico-scientifico”: allo scientifico il monte orario di discipline “umanistiche” è decisamente superiore a quello delle discipline “tecnico-scientifiche” (le quali però vengono insegnate a livelli di approfondimento ben superiori a quanto si faccia al classico). Ma non voglio certo buttarla in un insensato derby di stampo calcistico.
In ordine alla possibilità di “effettuare scelte ecc.”: che la perfetta conoscenza della guerra del Peloponneso o dei lirici greci sia in sé garanzia di retta condotta morale mi pare inferenza definibile come minimo un poco frettolosa. Sulla questione di “usare la scienza a fin di bene”, poi, spalanchiamo pure le porte dell’inferno, dovendosi per lo meno sapere che cosa sia il “bene” (questione su cui la riflessione filosofica si arrovella da 25 secoli…)
“3) Al liceo classico si riesce a campare studiando poco e ragionando molto, e quindi resta un sacco di tempo per fare cose piu’ utili che i compiti del giorno dopo: musica, sport, coltivare relazioni umane, sesso, viaggi, etc…”
Mi sono noti, purtroppo, molti controesempi che mostrano come – oggi – al classico in alcuni casi si campi studiando molto e ragionando poco. Concordo invece assolutamente sui vantaggi offerti dalla disponibilità di tempo libero: l’idea (geniale) che al classico, di pomeriggio, al posto degli inutili compiti si ha tempo per fare sesso (eh, beata gioventù!) dovrebbe essere adeguatamente sottolineata negli “open day”. Potrebbe essere un’ottima strategia per far esplodere le iscrizioni…
A me sembra come minimo strano che una persona laureatasi e anche forse addottoratasi in tempi recenti in materie letterarie , classiche o meno , non mostri di avere familiarita con la linguistica generale e che , per quanto riguarda le lingue classiche, non accenni minimamente al fatto che il sistema interpuntivo che noi usiamo non esisteva nell’Antichita, quando la segnalazione grafica , sempre che ci fosse, delle varie ‘pause’ del/nel testo dipendeva soprattutto dalla lettura ad alta voce. Dettagli e approfondimenti utili , come si suol dire, a http://www.treccani.it/enciclopedia/punteggiatura_(Enciclopedia-dell'Italiano)/ e bibliografia. Come la mettiamo con un testo anfibologico? Reginam occidere nolite timere bonum est si omnes consentiunt ego non contradico.
PS. Chiedo scusa. Si tratta di una famosa frase di un vescovo ungherese (inizi XIII s.), entrato nella manualistica della retorica medievale.
Ho alcuni commenti sulla scelta di dare molta enfasi al contributo di Gentile.
Per prima cosa, non nego che ci fossero aspetti classisti in quel progetto didattico, c’erano di sicuro e a mio personale avviso ci sono ancora e sono ben visibili. Ma sostenere che i limiti della didattica gentiliana siano solo le intenzioni classiste mi sembra un po’ parziale. Il vero problema erano gli aspetti totalizzanti, ovvero, l’idea di schiacciare l’individuo a favore del stato. Su un’impostazione del genere non era del tutto d’accordo neppure Croce, il che e’ tutto dire.
Sempre a proposito, bisognerebbe ricordare che in Italia il liceo esisteva 16 anni prima che Gentile nascesse e funzionava come oggi; non saprei quali siano i suoi meriti a proposito. So invece di alcuni suoi contributi nei riguardi del liceo italiano: aboli’ il liceo moderno, indeboli’ il liceo scientifico (che era nato nel 1911, sul calco della sezione fisico-matematica dell’Istituto tecnico) e creo’ il liceo femminile dove di scienza non si parlava neppure.A mio sentire, non fu tanto una difesa della cultura classica quella di Gentile, quanto piuttosto di un attacco ben riuscito alla cultura non umanistica. A testimonianza di questo stato di cose sarebbe bene rileggere “Il sistema periodico” di Primo Levi. I Lincei sottolinearono immediatamente i problemi educativi a cui avrebbe condotto la legge Gentile, ma dei loro dubbi non si tenne affatto conto, non tanto perche’ le idee gentiliane erano convincenti o migliori ma perche’ lui era il ministro del governo Mussolini, e perche’ il punto principale di quella riforma non era l’educazione.
Per evitare equivoci, sono completamente a favore che si studi e pratichi la cultura classica, specie se uno e’ interessato a farlo e magari ricordandosi del motto dell’Accademia di Atene, dell’esistenza di Euclide, di Archimede, di Pitagora, di Erofilo, di Aristarco, ecc ecc Approfitto per segnalare un bel libro di Lucio Russo a proposito, https://www.amazon.it/Perché-cultura-classica-risposta-classicista/dp/8804687150
PS Raccomanderei agli interessati di leggere l’intervento di Lucio Russo sull’ultimo numero di Anticitera, https://anticitera.org/2019/09/01/cosa-succede-su-anticitera-01-09-2019/
Ho guardato i link. Al primo, il documento e’ firmato anche dalla Gelmini. Per me , da cestinare subito; quando poi sento parlare di costi-benefici per l’istruzione e l’educazione, vedo rosso. Nell’apprendimento umano c’e necessariamente spreco e non faccio troppi esempi, che’ tutti li hanno sotto gli occhi. Lho appreso se non altro da mio figlio quando aveva 5 anni, quanta carta ha sprecato per imparare a disegnare , con buoni risultati. Se non avesse avuto carta, l’avrebbe fatto e rifatto e rifatto su sabbia o terra. Non mi interessa il libro di E. Galli della Loggia, tanto meno mi interessano i suoi recensori. Quel suo articolo su De Mauro, insieme con la risposta di un linguista allievo di De Mauro in cui si enumeravano gli sbagli sintattici o simili commessi da E.G.d.L, fanno parte di una polemica pluriennale precedente di molto la scomparsa di D.M., sulla cd democratizzazione linguistica della scuola, polemica che poi è scoppiata inopportunamente dopo la morte di D.M., nella lettera dei 600. Ma non credo che i 600 si fossero ritrovati in 600 nel giro di 48 ore. In generale, isolare la scuola dal suo contesto storico-politico-sociale non serve, se non altro perché e’ la politica che finanzia e indirizza, dunque si abbia il coraggio di polemizzare direttamente con la politica , le sue direttive e le sue emanazioni istituzionali. Vale anche per l’istruzione classica. Cosa si puo pretendere dai ragazzi se la politica prescrive e raccomanda espressamente lo ‘scuolicchiamento’.
Scusate gli errroi di battitura.
Cara Marinella, grazie per avere guardato ai tre links che Lucio Russo ha aggiunto (cito da Anticitera) “Per fornire al lettore ugualmente poco esperto un piccolo saggio del metodo e del tipo di linguaggio usato dagli esperti [di pedagogia]”. Temo tu sia incorsa in un equivoco. Essi non avevano come scopo la propaganda di quelle idee. Servivano per permettere anche a chi non avesse seguito quelle discussioni di recuperare delle informazioni utili per giudicare. Offrire informazioni per potere poi intavolare un ragionamento mi sembra molto piu’ nobile che sbattere la tesi in faccia a chi legge, o ragionare per partito preso, che e’ un metodo troppo spesso usato nei dibattiti pubblici.
Dubito che tu abbia il minimo bisogno di quelle informazioni!
Pero’, anche se credo di condividere buona parte delle cose che dici, credo comunque che il libro in questione avrà un qualche impatto sulla discussione. Le annotazioni di Lucio Russo mi sembrano un tentativo di correggere la rotta (e di eliminare alcune inaccuratezze di quel libro), specie per quanto riguarda il punto – che personalmente ritengo cruciale – dell’istruzione scientifica. Un punto che mi sembra in completa consonanza con le cose che dicevo poco sopra (cito nuovamente da Anticitera)
“Nel libro si accetta però l’identificazione della riforma Gentile con l’istituzione del liceo classico (che in realtà continuava essenzialmente la tradizione del liceo precedente) tacendo sulla novità essenziale introdotta da Gentile: la soppressione della benemerita sezione fisico-matematica dell’istituto tecnico e l’istituzione del liceo scientifico: innovazioni che non riscossero il plauso unanime di <> (come invece si afferma a p. 93)”
(L’unica mia sottolineatura sulla sottolineatura e’ che il liceo scientifico era stato istituito dalla legge Daneo-Credaro nel 1911, Gentile si limito’ a rovinarlo, vedi https://www.slideshare.net/FrancescoVissani/sulleducazione-scientifica-nella-scuola-superiore-dallunita-ditalia-in-poi-di-francesco-vissani-136334162 :)
Sul presunto attacco di Gentile alla “cultura scientifica”: “l’attualismo non solo non ha nulla da dire contro le scienze e la scienza, ma le esalta tutte e le celebra come gagliarde organizzazioni del pensiero che realizza il suo mondo, il mondo della libertà” (Sistema di logica come teoria del conoscere)
Grazie Ivan per la precisazione. Sperando di non risultare noioso, preciso anche io cosi’ evito equivoci, e correggo qualche inesattezza che ho detto sopra.
La scuola che garantiva l’educazione scientifica nell’Italia unitaria era la sezione fisico-matematica dell’Istituto tecnico. Questo non era particolarmente gradito ai politici, si voleva che l’educazione superiore fosse prerogativa del liceo. Allora all’inizio del secolo una Commissione incaricata dal re (Commissione reale) propose che ci fossero tre licei invece che uno, dovevano essere “classico, moderno, scientifico”. I programmi dello scientifico erano vicini a quelli della sezione fisico-matematica dell’Istituto tecnico. La legge Credaro recepì solo il moderno e non modifico’ la sezione fisico-matematica dell’Istituto tecnico che continuava a funzionare bene come prima.
Gentile cancello’ il liceo moderno, cancello’ la sezione fisico-matematica dell’Istituto tecnico e istitui’ lo scientifico, che pero’ non aveva niente a che fare ne’ con la proposta della Commissione reale ne’ con l’ottima sezione fisico-matematica dell’Istituto tecnico. Prima di tutto passo’ da 5 anni a 4. Poi indebolì l’offerta scientifica. Accorpo’ una serie di materie disparate (per esempio, scienze naturali chimica e geografia dentro “scienze”). Diede enfasi a latino e filosofia, che non c’erano. In questo senso sostengo (e non sono il solo) che l’educazione scientifica in Italia fu danneggiata dalla riforma Gentile.
Naturalmente secondo le idee di Gentile e secondo la sua filosofia, l’attualismo, egli fece del suo meglio. Che poi una condivida o meno le valutazioni, resta il fatto che le modifiche furono radicali e anche che i Lincei (come ho ricordato) sopra criticarono la riforma Gentile, senza beninteso ottenere nulla. O magari possiamo dire al netto delle valutazioni che l’educazione scientifica fu manomessa da Gentile.
Caro Francesco, devo anzituttto scusarmi per due cose. La prima e’ tecnica: uso IPad, la tastiera e molto delicata, il testo e piccolo, e il tutto affatica l’attenzione. La seconda riguarda la lunga recensione di Russo, che ho poi letto nonostante le iniziali reticenze. Avrei dovuto farlo prima. Ma ora l’ho letta , con calma, e anche riletta. Non mi invoglia certo a leggere anche il libro di EGDL. Credo che Russo abbia ragione, anche se dal punto di vista della mia formazione (compiuta in Romania) e dell’esperienza scolastica di mio figlio (liceo classico a Cagliari, uno dei due esistenti), quello che Gentile avrebbe e non avrebbe fatto e detto è poco rilevante rispetto al (mis)funzionamento della scuola in generale , per lo meno di quella italiana, nel XXI s. e anche nei decenni precedenti. Impostazioni classiste o meno, di un secolo fa, sminuimento o meno degli studi scientifici (ma non solo della matematica-fisica) non giustifica ne’ spiega la deriva della scuola. Infatti, anche Russo la spiega entro la storia sociale e politica degli ultimi 50 anni cca. Il liceo classico e’ solo una parte del fenomeno. Ci sono , inoltre, altri aspetti per me sorprendenti. La distinzione netta, ad es., tra il fare e il sapere, tra il fare (abilita) e la sua consapevolezza durante il suo apprendimento (acquisizione di conoscenze) e, successivamente, la sua esecuzione. Certo, conoscere la storia non si traduce immediatamente in azioni, magari non si traduce mai, ma molte volte si. Conoscere il latino ,o altre lingue, si dimostra attraverso un fare: parlare, scrivere, TRADURRE, o queste non sono abilita e azioni, imparate con una crescente consapevolezza? Essere amichevoli, collaborativi o meno, avere grinta o meno , non implica apprendimento, riflessivita, conoscenza? Forse si dovrebbe partire dalla definizione di certi termini e non usarli come concetti primitivi. Per quanto riguarda invece il recensore in questione, mi ha stupita molto quando scrive ,con una ingenuita stupefacente, appunto, che solo all’universita , entrando in un laboratorio, ha fatto della mano un uso diverso dallo scrivere. E’, da un lato, non vero: si sara grattato qualche volta la punta del naso, da bambino. Avra usato il cucchiaio e il coltello, avra girato la chiave nella serratura. Sapra guidare, oppure andare in bicicletta? Non dico, essendo uomo, forse non ha mai attaccato un bottone in vita sua, se non in senso figurato. Forse non sa suonare il piano. O tirare coll’arco. O togliere lo scalpo al nemico. Ma dovrebbe saper sfogliare un po’ di Leroi-Gourhan.
Piccola divagazione grammaticale su “élite”: dal francese , sost. femminile, il cui plurale è “élites” con la -s finale, anche in italiano. Altrimenti non mettiamoci nemmeno l’accento acuto. Ma soprattutto, per come ho notato anche recentemente in un articolo scritto da linguisti che si sciolgono di piacere usando anglismi inutili, non usiamolo male e con incoerenze, non alterniamo nello stesso testo il plurale con o senza -s, l’uso o meno dell’accento grafico.
“Eppure la traduzione di testi scritti richiede una competenza meno elevata di quella richiesta da una lingua straniera – infatti è già meno agevole capire chi la parla, e parlarla e redigervi testi scritti è ancora più difficile.” Peccherò di presunzione, ma affermazioni ingenue e confuse di questo tipo non le farei nemmeno davanti a studenti matricole. Tanto per fare un esempio.
Ultimamente mi sono tormentata come una dannata per due settimane per tradurre una poesia concepita e scritta in romeno moderno, lingua che non mi presenta nessun problema di comprensione. E certamente non ho iniziato dai segni di interpunzione. Di che traduzione stiamo dunque parlando?
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