L’Università in Turchia ai tempi di Erdoğan. Tania Groppi ce ne offre uno spaccato assai vivido, mettendo a fuoco la figura del prof. Ibrahim Kaboğlu, professore di diritto costituzionale nell’Università di Marmara, licenziato il 7 febbraio 2017 assieme ad altri 329 colleghi, docenti universitari di ogni disciplina, con un decreto firmato in via d’urgenza da Erdoğan, che nel complesso ha colpito 4464 dipendenti della pubblica amministrazione turca. La lettura di questo resoconto sollecita le coscienze a riflettere su uno stato dell’arte di cui i media italiani non parlano abbastanza e su cui la nostra comunità accademica, in uno con quella europea e mondiale, dovrebbe continuare a riflettere e mobilitarsi.
Sono coordinatore di un programma Erasmus che prevede ogni anno lo scambio di tre studenti con l’Università di Marmara, a Istanbul, in Turchia. Una bella, antica università sul Bosforo, ospitata in un grande edificio sulla sponda asiatica, visibile da ogni dove e assai caratteristico, progettato da un architetto italiano alla fine dell’Ottocento, con ampie finestre, vasti corridoi, un odore di legno antico e gentili inservienti che portano il tè.
Il coordinatore turco è (dovrei dire era, come spiegherò tra poco) il professor Ibrahim Kaboğlu, un uomo mite, dai capelli candidi e la voce calma, amatissimo dai suoi studenti, che lo fermano in ogni angolo dell’immenso edificio, lo baciano, lo toccano, lo seguono. Sì, perché il professor Kaboğlu oltre (oltre?) ad essere un professore di diritto costituzionale assai noto, in patria e all’estero (insegna regolarmente in diverse università francesi) e ad aver pubblicato decine di libri in bella mostra nella sezione “Anayasa Hukuku” di ogni libreria turca, è uno strenuo combattente per lo Stato di diritto, molto esposto sui mass media. Perseguitato da sempre, secondo il destino dei veri democratici in Turchia. Prima dai governi dei militari, poi degli islamisti.
Ricordo ancora la giornata trascorsa, il 10 aprile del 2006, nel Tribunale di Ankara, insieme ad altri colleghi europei e a una delegazione di parlamentari svedesi, per assistere al processo penale in cui Ibrahim e un altro professore, Baskin Oran, dell’Università di Ankara, erano accusati di aver denigrato l’identità turca, soltanto perché autori di un rapporto, governativo tra l’altro, sulle minoranze etniche in Turchia.
Ricordo la sua voce calma ma ferma, lo sguardo determinato nei suoi occhi azzurri, denunciando, al Meeting di Rimini nel 2015, davanti a una platea vastissima, l’involuzione autoritaria del regime e, soprattutto, il suo tentativo, ormai in dirittura d’arrivo, di mettere definitivamente le grinfie sulla costituzione, smantellando quel fragile Stato di diritto che, anche attraverso la condizionalità europea, si è andato costruendo nel post-1989 in Turchia.
Ebbene, il nome di Ibrahim fa la sua comparsa in una delle ultime pagine (p. 109 su 111) del lunghissimo allegato all’ennesimo decreto di emergenza, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale del 7 febbraio 2017. Tale elenco comprende i nominativi dei pubblici dipendenti licenziati nella più recente delle “purghe” che si sono succedute dopo il fallito colpo di Stato del luglio 2016.
Questa volta si tratta di 4464 nomi. Tra essi, gli accademici sono 330 (Ibrahim è il n. 261). E’ stato eliminato anche il loro diritto alla pensione e sono stati ritirati loro i passaporti, come lo stesso Ibrahim dice in una intervista pubblicata sul più importante giornale dell’opposizione turca, lo storico Cumhuriyet, esso stesso peraltro pesantemente colpito dalla repressione in questi anni.
La domanda che, dopo aver descritto brevemente la situazione turca per chi non l’avesse seguita finora, intendo porre è la seguente: come accademici italiani, e specialmente come costituzionalisti, e ancor più coloro che, come me, hanno consolidati rapporti con le università turche, possiamo stare a guardare? E, in caso contrario, che cosa possiamo fare?
Prima di tutto alcuni dati. Le informazioni sul numero degli accademici licenziati in tronco con decreti del governo dopo il fallito colpo di Stato del luglio 2016 non sono univoche: alcune fonti parlano di un totale di 4811 docenti, altre addirittura di 7316. Si tratta, comunque, di un numero ben superiore (di venti volte, anche a stare al dato minimo) a quello dei docenti universitari licenziati dopo i colpi di Stato del 1960, 1971 e 1980.
Quel che è evidente è che, con il pretesto di combattere i seguaci di Fetullah Gülen, accusato di essere all’origine del tentativo di colpo di Stato, in realtà il governo di Erdoğan si sta sbarazzando di tutti i suoi oppositori, tra i giudici, nelle università, nei ministeri, nell’esercito, nella stampa e negli altri mezzi di comunicazione.
L’accanimento contro i docenti universitari è particolarmente forte ed è paragonabile solo a quello nei confronti dei giornalisti. Non si tratta certo di una novità: che la libertà di espressione sia in grave pericolo in Turchia è risaputo da tempo, come mostrano i rapporti di molteplici organizzazioni internazionali e le innumerevoli condanne da parte della Corte europea dei diritti dell’uomo, ma si è deteriorata specialmente negli anni più recenti, nei quali i governi dell’AKP (al potere dal 2002) sono andati assumendo tratti sempre più autoritari.
Anche la libertà di insegnamento incontra da decenni difficoltà in Turchia e le università sono state oggetto di ripetute “purghe” a seguito dei colpi di Stato militari.
In particolare, nel 1981 fu posta fine a ogni, pur debole, autonomia universitaria attraverso la creazione di un Consiglio universitario nazionale (YOK) con il compito specifico di controllare le università. Inizialmente, appena giunto al potere, Erdoğan aveva promesso di democratizzare le università, ma in breve ha preferito assumere il controllo del Consiglio e delle università stesse, attraverso una politica finalizzata alla creazione di accademici fedeli al regime. A tale scopo, da un lato sono state istituite numerose nuove università (ben 92 in 10 anni), dall’altro i docenti che hanno mostrato un atteggiamento critico verso il governo sono stati sottoposti a inchieste e provvedimenti disciplinari. A tutto ciò si aggiunga il tentativo dell’AKP di esercitare un controllo sulle linee di ricerca e sulle opinioni espresse dagli studiosi attraverso strumenti più subdoli, come l’uso strumentale dei fondi di ricerca, delle progressioni di carriera, la supervisione sui temi di ricerca e sui curricula.
E’ facile comprendere perché tra i dipartimenti più colpiti dal provvedimento del 7 febbraio ci siano le Facoltà di Scienze politiche e di Scienze delle comunicazioni di Ankara, voci tra le più critiche e attente. Si pensi che a seguito dei licenziamenti, si trovano nella impossibilità di essere portati avanti 38 insegnamenti in corsi di laurea, 5 insegnamenti nei corsi di laurea magistrale e 50 tesi nella Facoltà di Scienze politiche, 40 insegnamenti nei corsi di laurea, 29 nei corsi di laurea magistrale e 99 tesi, in quella di Scienze delle comunicazioni.
Il nuovo provvedimento ha provocato un movimento di protesta in tutta la Turchia e le testimonianze dei docenti licenziati, molti dei quali eminenti studiosi, ne rendono evidente il carattere politico. Riporto qui di seguito alcune testimonianze rese ai giornali turchi.
“This is a political expulsion. I’m honest and my conscience is clear. I will never bow down,” Professor Yüksel Taşkın from Marmara University said. “This is a great shame for Turkey’s universities and Ankara University. Today, the last teaching staff were expelled with a state of emergency decree just for demanding peace,” Professor Funda Başaran, a professor expelled from Ankara University, said in reference to the Academics for Peace signatories. “Places like the Political Science Faculty, Communications Faculty and the Language and Geography Faculty, which had a high number of signatories, are just four walls now … But we don’t need [empty buildings] to produce knowledge. We will again gather with our students. We will continue to produce knowledge and change the world with the knowledge that we produce. That’s why we don’t give a damn about the decrees.”
Che si tratti di un provvedimento volto a colpire le voci critiche e che non abbia niente a che vedere col tentato colpo di Stato (che, con le parole di Erdoğan, “è stato una benedizione”) emerge con evidenza dal fatto che 115 degli accademici licenziati con l’ultimo provvedimento erano tra i 2218 docenti che nel gennaio del 2016 avevano firmato un appello dal titolo “We will not be a party to this crime”, che che chiedeva la cessazione dello stato d’assedio e delle violazioni dei diritti commesse dall’esercito turco nei territori kurdi del sud-est della Turchia e l’apertura di negoziati di pace (Academics for peace). Molti dei firmatari erano stati sottoposti ad inchieste penali ed alcuni di essi erano stati arrestati o licenziati già nei mesi seguenti all’appello, ben prima, cioè, della proclamazione dello stato di emergenza, suscitando reazioni di sdegno in tutto il mondo.
Il licenziamento di Ibrahim ha avuto particolare risonanza (almeno questo!) sia in Turchia che a livello internazionale. Da un lato, ovviamente, c’è la levatura della sua figura, la sua presenza in tutte le battaglie per la garanzia dei diritti e del rule of law in Turchia, dalla questione curda fino ad arrivare a Gezi Park. Dall’altro, c’è l’imminente referendum costituzionale del 16 aprile, su una revisione della costituzione che Erdoğan persegue da anni come un chiodo fisso, per sbarazzarsi degli ultimi paletti verso un regime autoritario. Ibrahim Kaboğlu in questi mesi si sta opponendo, come molti costituzionalisti e insieme ai deputati dell’opposizione a questo tentativo di riforma, ma soprattutto sta denunciando che è impossibile condurre una campagna referendaria libera e corretta durante lo stato di emergenza.
A fronte di questa situazione, è inevitabile interrogarsi sulla reazione che debbono avere i singoli accademici, le università europee, i titolari, a livello governativo, dell’università e della ricerca, ciascuno nel suo campo e secondo le sue responsabilità. Mi pare evidente che dichiarazioni e appelli, che si succedono ormai da tempo, a difesa dei colleghi turchi, non bastano più.
Da anni, di fronte all’intensificarsi della persecuzione del regime dell’AKP contro le voci critiche, si sono moltiplicate le dichiarazioni di condanna e di solidarietà da parte della comunità internazionale, compresa l’Unione europea. E ciò ancor più dopo il fallito colpo di Stato e la dichiarazione dello stato di emergenza, nonostante l’ambiguità che circonda da sempre la relazione tra Unione europea e Turchia, ulteriormente accresciuta dopo l’accordo sui profughi siriani del 18 marzo 2016.
Intensa è stata anche l’attività della comunità accademica, compresa quella italiana. Ci sono state dichiarazioni della CRUI, di singoli Atenei, di dipartimenti, centri di ricerca, associazioni scientifiche dei più diversi ambiti. I giuristi sono stati particolarmente presenti, come è ovvio di fronte a misure che hanno colpito gli elementi più basilari dello Stato di diritto. Io stessa mi sono fatta promotrice, nel gennaio del 2016, di un appello in favore degli Academics for peace. Queste iniziative sono, ovviamente, pregevoli. Tutto quello che, nell’infinito oceano della rete, serve a tenere desta l’attenzione di opinioni pubbliche distratte e sperdute nel bombardamento di informazioni che circolano sul web, è benvenuto.
E’ però evidente che l’involuzione autoritaria che sta attraversando la Turchia, con le conseguenti ripercussioni in tutti i campi, comprese le università, rappresenta un’assoluta novità. E’ la prima volta che ci troviamo a fronteggiare un fenomeno di questa portata in uno Stato dell’area europea, a partire dalla Seconda guerra mondiale. La questione dei rapporti accademici con paesi non democratici non è, di per sé, nuova. Né lo sono le problematiche che pone specialmente nei settori disciplinari, come il diritto, la scienza politica, l’economia, la storia, più direttamente colpiti dai regimi autoritari. Senza andare tanto lontani, pensiamo alla Cina, a Cuba, al Venezuela, all’Iran, ai paesi del Golfo. In passato, analoghe questioni si sono poste per molti paesi dell’America latina, per la Tunisia, per i paesi ex-comunisti, e potremmo continuare a lungo.
Benché anche tale tematica generale meriti, a mio avviso, una più attenta riflessione alla luce della globalizzazione giuridica e della nascita di una figura di giurista sempre più globale, il caso della Turchia è alquanto diverso e singolare. Si tratta infatti di un paese che, a seguito dell’azione congiunta del processo di internazionalizzazione delle università e della democratizzazione vissuta negli ultimi due decenni, si è integrato progressivamente nel sistema universitario europeo. Da ciò derivano molteplici legami diretti tra università turche e università europee, che hanno dato vita a una rete sempre più intensa di contatti e attività.
Proprio per questo, la situazione che si è venuta a determinare nelle università in Turchia pone una sfida difficile e senza precedenti: come tale, essa deve essere affrontata con strumenti innovativi.
Non si tratta soltanto di promuovere appelli, ma, per fare solo qualche esempio, di porre direttamente la questione alle università partners, di organizzare visite in loco di delegazioni accademiche, di dar vita a seminari e workshop sulla libertà di cattedra e l’autonomia universitaria in Turchia, di istituire borse di studio e incarichi di insegnamento per i docenti oggetto dei provvedimenti repressivi. E tante altre misure, tutte da delineare e da sperimentare. Credo che ciò interpelli ancor di più i quegli studiosi che hanno al centro della loro ricerca e del loro insegnamento il “rule of law”.
Come portare avanti la propria collaborazione in corsi di studio o in progetti di ricerca, o persino semplicemente gli scambi di studenti, in un contesto in cui questi principi vengono sistematicamente negati? In cui i docenti di riferimento sono stati rimossi proprio perché sostenitori di tali principi? E in molti casi sostituiti da docenti nominati dal regime, per meriti spesso ben diversi da quelli accademici?
D’altra parte, chiudere i programmi congiunti, bloccare ogni forma di cooperazione accademica non vorrebbe forse dire lasciare sempre più soli e isolati coloro che, per scelta militante o per necessità, restano nel paese? E incoraggiare ulteriormente l’esodo degli universitari dalla Turchia, un esodo che già sta svuotando, di pari passo con i licenziamenti, le università turche di tutte le migliori intelligenze?
Come dicevo all’inizio, in quanto coordinatore italiano di un programma Erasmus il cui coordinatore turco è appena stato licenziato attraverso un provvedimento manifestamente repressivo, mi sento particolarmente interpellata da queste domande. Ho avvertito la necessità di condividere queste mie considerazioni, soprattutto nella speranza di poter dare l’avvio a una riflessione nell’accademia italiana, specie tra i costituzionalisti. Questo testo vuol offrire un primo spunto, al quale spero segua qualche reazione.
Quel che è certo è che non possiamo stare a guardare.
Tania Groppi
Siena, 25 febbraio 2017
Lo Stato italiano deve ritirare l’ambasciatore da Ankara fino a quando permarrà il fascismo in Turchia.
Gentile Tania Groppi, anche a me -che ho avuto ed ho contatti con colleghi turchi- la situazione attuale mi pare discriminatoria oltre ogni limite tollerabile. forse si potrebbe stilare un appello pubblico da sottoscrivere e inviare alle autorità turche? non mi aspetto molto, ma forse tacere è peggio.
The Minority Report Affair, di Baskin Oran , è leggibile
a http://baskinoran.com/makale/Minorityreportaffair-RegentJournal.pdf. La questione centrale concerne le minoranze e il loro rapporto con lo Stato, questione che dalla Grande Guerra non è stata ancora né ben definita né tanto meno risolta.