Il costo delle riviste scientifiche è aumentato più del 100% negli ultimi cinque anni. Il “mercato” delle riviste è in realtà un oligopolio in mano a poche case editrici a livello internazionale il cui ruolo è strettamente legato al “valore” dei parametri bibliometrici, come l’impact factor. Le istituzioni universitarie pagano due volte il costo delle riviste: in termini di tempo impiegato dai proprio dipendenti per fare la revisione degli articoli e per abbonarsi. Il costo sta diventando esorbitante e sia nel Regno Unito che all’universita’ di Harvard si pensa al boicotaggio delle maggiori case editrici internazionali.
In questo articolo di Elena Dusi su Repubblica si discute di una iniziativa, The Cost of Knowledge, che si propone di raccogliere firme di scienziati che sono d’acordo con il boicottaggio dell’Elesevier. Questa iniziativa è appoggiata dal fondatore di Wikipedia Jimmy Wales che scrive sul Guardian “In un mondo che cambia, c’è bisogno di cambiare il modello economico delle pubblicazioni scientifiche”. A questa problematica è dedicata la discussione su Radio3Scienza nell’ambito della quale è stato intervistato Francesco Sylos Labini. Il podcast è disponibile a questo indirizzo.
Come icona esplicativa e’ piu’ carina questa
http://blog.thecostofknowledge.com/wp-content/uploads/2012/02/Botcott_Elsevier_3-1024×1024.png
È vero. Ho provveduto a metterla al posto del logo Elsevier.
Sarebbe importante che tutti coloro che parlano di accesso aperto alla conoscenza scientifica cominciassero a pubblicare i loro lavori in riviste ad accesso aperto. Che lavorassero nelle proprie istituzioni per la creazioni di archivi istituzionali dove depositare i post print o le versioni pubblicate dei loro articoli secondo modalità strutturate e standardizzate (è una buona cosa che un ricercatore metta sul proprio sito i propri lavori ma non è abbastanza, soprattutto non è abbastanza visibile), che contrattassero con gli editori la possibilità di deposito dei loro lavori, subito se l’Ateneo finanzia la pubblicazione, dopo un breve embargo se l’editore sostiene in toto l’investimento. Da anni stiamo lavorando con la CRUI su questi temi, abbiamo creato un wiki informativo sull’open access http://wiki.openarchives.it/index.php/Pagina_principale , buoni risultati sono stati ottenuti con le tesi di dottorato, 34 atenei hanno ad oggi applicato le linee guida della CRUI, tuttavia gli archivi istituzionali sono ancora pochi e quelli che ci sono vanno riempiti. Se il boicottaggio di Elsevier è doveroso, altrettanto doveroso è rendere disponibili a tutti ciò che è stato pagato coi fondi di tutti.
Sono d’accordo. Per la cronoca in fisica, matematica e computer science c’è http://arxiv.org/ in cui si possono mettere i proprio lavori sia prima che dopo la pubblicazione. Nel primo caso sono dei preprint e che non sono stati soggetti a peer review e nel secondo caso la revisione è stata effettuata dai referees per le particolare rivista in cui l’articolo è stato pubblicato. In pratica, a parte dettagli infinitesimi (tipo una correzione di bozze da parte della rivista) l’articolo sugli archives è identico a quello pubblicato (se l’autore ha la cura non solo di metterlo in forma di prerpint ma anche di aggiornarlo via via). Dunque quest’archivio è lo strumento in genere usato dal ricercatore che ha reso inutile cercare l’articolo sulla rivista originale in cui è stato pubblicato
Ho la sensazione che ci sia una parziale contraddizione in chi pubblica in modo tradizionale su rivista, magari impattata e di alto ranking ISI, e poi aggira il problema della proprietà pubblicando su siti propri i preprint rivisti in seguito alla peer-review organizzata da quelle stesse riviste. MI spiego meglio: voglio la certificazione della bontà delle mie tesi e della mia ricerca empirica da un gruppo di pari scelto in modo double blind dall’editore della rivista xy (i.e. il massimo della convenzionalità) ma poi divento, tutto insieme, il massimo dell’anticonvenzionale rendendo pubblici i contenuti dell’articolo prima ancora che diventi disponibile sulla rivista che lo ha accettato. Non dimenticando, però, di citare sul preprint che è stato accettato sulla rivista xy degli “odiosi” editori internazionali. Il tutto mi pare poco elegante. Fino a quando non ci sarà un sistema alternativo ritengo si debba accettare la modalità di pubblicazione su riviste di editori internazionali perché, al momento, sono l’unica garanzia di giustizia nell’accesso alla pubblicazione. NOn credo che nessun sistema nazionale, al momento, risulterebbe efficace per sostituire il sistema di pubblicazione internazionale retto dall’oligopolio Elsevier, Springer, Sage etc.
Non ho capito quale sia la contraddizione. Gli arxives sono accessibili a tutti, anche a quelli che non hanno abbonamenti su rivista: ormai anticonvenzionale è chi non mette un articolo (preprint o meno che sia) sugli arrxivs e non chi lo mette (tutti).
Da un lato la pratica di mettere a disposizione i propri lavori prima che essi siano pubblicati (Rapporti Interni, Technical Reports, Working Papers) è assai consolidata e serve a far circolare più rapidamente i nuovi risultati. Dopo la pubblicazione, mantenere accessibile al pubblico una versione, anche molto simile a quella pubblicata sulla rivista “tradizionale” dipende dalle politiche di copyright della rivista stessa che possono essere più o meno restrittive. A me sembra che alcune riviste accettino ufficialmente che l’autore lasci a disposizione un preprint, purché non identico alla versione finale. In tal caso, non vedrei contraddizione. Per quanto riguarda l’inefficacia di soluzioni alternative, cito il seguente esempio che, per quanto riguardi una singola (importante) rivista e non un sistema nazionale, mi sembra significativo.
“The Journal of Machine Learning Research (usually abbreviated JMLR), is a scientific journal focusing on machine learning, a subfield of artificial intelligence. It was founded in 2000.
The journal was founded as an open-access alternative to the journal Machine Learning. In 2001, forty editors of Machine Learning resigned in order to support JMLR, saying that in the era of the internet, it was detrimental for researchers to continue publishing their papers in expensive journals with pay-access archives. Instead, they wrote, they supported the model of JMLR, in which authors retained copyright over their papers and archives were freely available on the internet.”
da Wikipedia:
http://en.wikipedia.org/wiki/Journal_of_Machine_Learning_Research
Consiglio anche di leggere la “resignation letter” dei 40 membri del comitato editoriale:
http://www.acm.org/sigs/sigir/forum/F2001/sigirFall01Letters.html
C’è molto che non mi torna in quanto leggo.
Per quanto riguarda il problema della proprietà, i contratti di edizione sono negoziabili e ormai i ricercatori lo fanno, chiedendo la possibilità di mettere negli archivi la propria versione del lavoro accettato dalla rivista (post print). Se questa prassi fosse stata introdotta prima ora non ci troveremmo a dover rincorrere gli editori per avere i pdf da presentare all’ANVUR per la valutazione. Alcuni editori (uno fra tanti Nature publishing group) hanno ormai accettato il fatto di non dover spogliare l’autore di tutti i suoi diritti per pubblicare, e propongono ai propri autori invece che il copyright transfer agreement un modello di license to publish.
Il poter mettere il proprio lavoro a disposizione di tutti implica che la revisione non venga fatta solo dai due pari scelti dall’editore, ma potenzialmente da tutta la comunità scientifica disciplinare, favorendo il progresso delle ricerche. Nessuno vuole togliere agli editori il lavoro, ma forse è giunto il momento di pensare ad una diversa distribuzione dei compiti e delle responsabilità nella filiera editoriale. Come propone Armbruster qui http://papers.ssrn.com/sol3/papers.cfm?abstract_id=1106162 dove si suggerisce di separare i tre momenti della certificazione e dei servizi a valore aggiunto (editori), della diffusione (archivi istituzionali/disciplinari), e della conservazione (biblioteche).
“Sarebbe importante che tutti coloro che parlano di accesso aperto alla conoscenza scientifica cominciassero a pubblicare i loro lavori in riviste ad accesso aperto”
…aperto a chi tra i singoli ricercatori ha i soldi di grants personali.. ?
Esempi di fees di alcune della maggiori e piu’ scientificamente serie “ad accesso aperto”:
PLoS Biology US$2900
PLoS Medicine US$2900
PLoS Computational Biology US$2250
PLoS Genetics US$2250
PLoS Pathogens US$2250
PLoS Neglected Tropical Diseases US$2250
PLoS ONE US$1350
BMC Bioinformatics US$ 1990
BMC Biology US$ 2335
BMC Biology US$ 1525
etc…
?
Attenzione a non far ricadere sul singolo ricercatore costi per lui insopportabili.
Alternativa: pietire sconti “fo’ umilmente notare che…” (*)
Sulla sottomissione dei preprints e postprints in pubblici archivi come arxiv sono senz’altro d’accordo.
ciao
Alberto d’Onofrio
(*) (C) J. Hasek
Non si tratta di fare ricadere i costi sul singolo ricercatore, ma di passare da un modello reader pays ad uno author pays.
Chi paga sono sempre le istituzioni. Solo che con il modello attuale i ricercatori non se ne accorgono, perché chi paga (le biblioteche) non è chi fruisce direttamente l’informazione.
un abbonamento preso nel mucchio: Brain Research
Institutional print price:
EUR 21,440 for European countries and Iran
Se questo modello “author pay” non prevede una contemporanea moderazione “statale” dei prezzi (cosa non gradita al modello liberista sinora imperante), il bel risultato sara’ che pubblicheranno molto solo gli authors con un sacco di grants. In una logica puramente monetarista nulla da eccepire…
Il modello vero dovrebbe essere: institutions pay a very small fee per accepted paper.
Una rivista con un buon template latex (NON come quelli di BMC e PLoS) e un buon programma di upload, e con un sistema di servers volontari distributi ha costi di gestione sopportabili (see http://www.arxiv.org). E pagabili da istituzioni all’atto dell’accetazione di un articolo.
Ho letto i commenti e ringrazio quanti hanno voluto condividere gli url di siti che visiterò presto per capire meglio il punto di vista di chi vuole superare i vincoli della pubblicazione a valore aggiunto che difendo non certo perché ho qualche interesse (magari…). Io mi occupo di psicometria e psicologia cognitiva e faticosamente ho cercato negli anni di difendere, dal basso, la logica della pubblicazione internazionale in un contesto che in molti casi la rifiuta e ha favorito, spesso, la monografia nazionale. Se esistono però sistemi in grado di garantire una valutazione esterna rigorosa e possibilmente giusta del contenuto del paper allora potrebbe funzionare. Temo però che le discipline non ricomprese nelle hard science siano un po’ indietro…
Ma è mai possibile che le università, che producono la ricerca, effettuano la peer review, non possano mettere in piedi un sistema di editoria accademica on line autonomo e ad accesso aperto? Possibile che non si riescano a mettere assieme, in maniera sistematica (gli esempi singoli ci sono, e funzionano bene) le competenze per un progetto editoriale in questa direzione? Pigrizia mentale, incapacità o interessi in campo lo impediscono? I costi, tramite programmi open source (uno su tutti: Open Journal System) sarebbero molto più contenuti delle richieste economiche di PloS o comunque delle opzioni offerte dagli editori commerciali, garantendo dunque a giovani ricercatori di poter pubblicare.
Forse, a questo punto, bisognerebbe fare una scelta drastica: non valutare i prodotti che non siano stati pubblicati autonomamente dalle università e soprattuttutto ad accesso aperto.
Non è cosa da poco il fatto che organi di informazione come Linkiesta pubblichino articoli come questo:
Il Governo inglese chiama Wikipedia: “Diffondiamo gratis le ricerche accademiche”
http://www.linkiesta.it/wikipedia-ricerca
L’accademia italiana (la politica accademica e la politica in generale) è indietro non sulla produzione scientifica, ma sulla capacità di cogliere le opportunità che il futuro ci prospetta. Siamo indietro e capaci di applicare – male – solo modelli già obsoleti.
Noi discutiamo di agenzie governative, riviste quotate, eligibilità della ricerca, mentre altrove già si parla del crollo del modello selettivo e della condivisione pubblica dei prodotti della ricerca.
Sarebbe bello non avere più l’anima di un provinciale…