Una delle grandi condizioni di sofferenza del dottorato di ricerca in Italia è la presenza di una enorme quantità di posti di dottorato “senza borsa di studio”, più un terzo del totale (CNVSU 2011, p. 130). Questa condizione scoraggia molti giovani italiani ad intraprendere un dottorato di ricerca se privi di mezzi economici. Oltre al danno la beffa: questi fortunati “ricercatori in erba senza portafoglio”, pagano anche tasse di frequenza che, a seconda degli Atenei, possono arrivare a superare i duemila euro annui. Come abbiamo messo in evidenza nella Terza indagine ADI sul dottorato e il PostDoc  la disparità a livello geografico della tassazione è enorme e non sempre è prevista una fasciazione per reddito. E’ bene ricordare, che da queste tasse sono esonerati i dottorandi con borsa di studio. Da anni chiediamo che qualcuno si adoperi per cambiare questa situazione, superando il dottorato senza borsa e almeno eliminando le tasse per i dottorandi senza borsa.

Alcune Università, finalmente, hanno deciso di mettere fine allo “status quo”. Come? Introducendo la tassazione anche per i dottorandi con borsa di studio. Con il nuovo bando di concorso per il dottorato, l’Università Politecnica delle Marche si appresta a chiedere a tutti i suoi dottorandi, borsisti compresi, un contributo per l’accesso e la frequenza ai corsi pari a 1051.38 €. Tale contributo, approvato dal Consiglio di Amministrazione del 28 giugno 2013, include una quota di 888.38 € destinata a rimpinguare le casse dell’ateneo di Ancona. Tale cifra rappresenta un aggravio del 545% rispetto a quanto dovuto dai borsisti fino allo scorso anno, ed in pratica equivale a privare i borsisti di una intera mensilità della borsa di studio.

Invece di attrarre i “cervelli” dall’estero e arginare la fuga dei nostri talenti, la lungimirante “impresa Italia” continua a scoraggiare chi abbia intenzione di formarsi ad alti livelli. Ci chiediamo a questo punto se questa “best practice” sarà seguita da altri Atenei per far fronte al dissesto finanziario. A volte la Grecia fa davvero paura.

 

 

 

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12 Commenti

  1. Le tasse sui dottorandi ci sono in tutto il mondo.
    Ogni universita’ li gestisce in modo diverso, ma di solito a quelli senza borsa vengono chieste le normali tasse, mentre si tende ad esonerare quelli con borsa finanziata dall’universita’.
    Non trovo scandalosa la cosa in se, in quanto in UK un dottorando (senza borsa dell’universita’, quindi anche con borse esterne) a tempo pieno puo’ pagare anche 4000 sterline di tasse l’anno, che sono 5 volte di piu’ di quanto chiesto dalle Marche, ma sono pronto a scommettere che i servizi offerti (e l’attivita’ svolta) valgono la differenza.

  2. Nonostante il paradosso, mi pare non sia una idea nuova neanche all’estero. Mi sembra che in alcune universita’ USA anche se ricevi un compenso come dottorando, o research fellow, o qualsivoglia altra posizione, paghi una tassa per usufruire dei servizi dell’ateneo.
    E credo che se le borse di dottorato avessero importi maggiori in Italia ed i servizi erogati da un ateneo fossero di buon livello, la cosa non dovrebbe scandalizzare. Certo e’ che allo stato attuale delle cose, la strategia dell’Universita’ delle Marche pare solo un modo per ridurre di fatto l’importo della borsa di dottorato.

    • Leggo solo ora il commento sopra di Plymouthian, lieto di sapere che quindi probabilmente mi ricordavo bene.

  3. il fatto è che fino ad ora le tasse sono state imposte, in tutti gli atenei italiani, solo ai NON borsisti (se Bologna tassava, come anche Ancona, lo faceva solo per chi NON aveva BORSA), i BORSISTI ERANO ESENTI per legge nazionale. A seguito del DM 45/2013 (aprile di quest’anno) questo vincolo di esenzione per i BORSISTI non esiste più e ogni ateneo (meglio ogni CdA) può decidere come crede. Vi dice nulla, invece, la necessità di incremento del fondo per singolo dottorando, pari almeno al 10% dell’importo stesso di borsa, inserito dalla Gelmini che deve essere erogato dagli atenei??..per la serie i dottorandi si autopagano il surplus di investimento in ricerca dettato dalla riforma Gelmini!

    • Tra l’altro il DM prescrive che l’importo del 10% sia “in aggiunta rispetto alla borsa”. Basta fare due conti per capire che così l’ateneo è a posto: con una mano toglie, con l’altra da; e rimangono pure due spicci con cui fare la cresta.

  4. Sono un assegnista all’Università Politecnica delle Marche, e ho seguito da vicino la vicenda di cui parla Francesco. Pagare per frequentare un dottorato è ragionevole solo se il PhD offre delle opportunità di crescita e impiego (nel settore pubblico o privato) di assoluto rilievo. Purtroppo mi pare che in Italia, e ancor più nelle Marche, il PhD sia scarsamente spendibile. Per quanto riguarda i servizi offerti dall’Università Politecnica delle Marche… stendiamo un velo pietoso.

  5. Penso che tassare i dottorandi sia abbastanza vile, a meno che – concordo con l’assegnista dell’ Università Politecnica delle Marche – il dottorato non possa essere un investimento per il futuro, ma, per esserlo, deve essere spendibile. Quanto sono spendibili i dottorati presi in Italia e, nel caso particolare, ad Ancona? Ho letto che l’ Università Politecnica delle Marche è uno degli Atenei che si vanta di avere il bilancio in attivo; mi pare, da quanto scrive whispererindarkness, che sia un Ateneo che punta a prendere il più possibile (tasse) ed a dare il meno possibile (servizi). Mi sono incuriosita ed ho fatto un pò di ricerca. Visto che l’ articolo menziona anche, alla fine, l’ attrazione dei “cervelli” dall’estero, nella relazione sull’ attività di ricerca dell’ Università Politecnica delle Marche del 2010 (che si trova su Internet) ho letto che l’Ateneo era felice di vedersi “attribuiti” due progetti del programma Rita Levi Montalcini 2009 -rientro dei cervelli in quanto portavano “un contributo complessivo di € 413.754,68” !! Solo questo e nient’altro. La relazione non diceva nemmeno chi fossero i due “cervelli” in arrivo né faceva un cenno ai loro progetti; all’ Università Politecnica delle Marche interessava soltanto incassare la grana, senza prendersi un minimo di impegno verso i due. Se ha costruito il bilancio in attivo solo con questo approccio da succhiarisorse, non mi stupisce che abbia fatto anche pagare le tasse ai dottorandi senza preoccuparsi poi di quale potesse essere la spendibilità effettiva dei suoi titoli. Chissà se alla fine sia i dottorandi che i due “cervelli” manderanno a quel paese quell’ Università, e quante altre Università in Italia hanno, immagino, lo stesso approccio.

  6. Forese sbaglio, ma a volte sembra che non ci si renda conto che le condizioni italiane non siano poi cosi’ tanto vessatorie. I costi che deve sostenere un dottorando in Australia, o negli Stati Uniti, sono elevatissimi (e per gli stranieri ben piu’ elevati che per i ‘locali’). L’accesso alle borse di studio (ne occorrono almeno due a testa: una che copra i costi dei corsi, tasse incluse, e un’altra che garantisca un salario) e’ altamente competitivo (e presuppone che si siano raggiunti livelli di eccellenza nelle fasi precedenti della formazione universitaria e si siano superati vari livelli di selezione). Pochi le ottengono entrambe e molti ne’ l’una ne’ l’altra. Molti studenti concordano un percorso di studio part-time che gli consenta di lavorare e mantenersi. Inoltre l’impegno richiesto ai dottorandi, in termini di didattica (questa si’ generalmente retribuita, benche’ poco), convegni e pubblicazioni, non e’ generalmente comparabile ai dottorandi italiani. (Benche’ si possa legittimamente obiettare, su questo punto, che il dottorato dovrebbe essere puro addestramento alla ricerca, l’esercizio alla didattica non puo’ non far parte del training di un futuro accademico: anche per questo i dottori di ricerca italiani faticano a competere per posizioni di insegnamento all’estero — a proposito d spendibilita’ del titolo). Il dottorato non e’ concepito, come temo ancora accada talora in Italia, come un sussidio triennale procurato agli studenti (i migliori?) in attesa di tempi migliori. Non a caso e’ tutt’altro che insolito che i graduate student siano studenti maturi con alle spalle anni di esperienze lavorative nei settori piu’ disparati e nient’affatto attinenti agli studi dottorali intrapresi.

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