La protesta contro la VQR ha permesso in queste settimane di evidenziare tre fondamentali vettori di disagio e il fronte degli oppositori rischia in effetti di apparire eterogeneo. C’è, innanzitutto, l’azione promossa da Carlo Ferraro per il recupero degli scatti stipendiali. Essa è nata dalla situazione insieme paradossale e intollerabile nella quale si sono venuti a trovare i docenti universitari. A loro, rispetto a tanti altri servitori dello Stato, si è chiesto un sacrificio supplementare che appare una vera e propria “punizione”, della quale si attende ancora una plausibile giustificazione e che umilia chi continua a frequentare biblioteche e laboratori per produrre ricerca di qualità e a entrare in aula con la passione di insegnare. Questa protesta non esclude l’esistenza di altre urgenze delle quali occuparsi, ma ha un obiettivo preciso e utilizza l’astensione dalla VQR come uno strumento in vista di questo scopo: «Se tra dieci giorni sbloccano le classi come chiediamo noi – così si è espresso Ferraro in una intervista di qualche settimana fa – noi ci rimettiamo subito a fornire i dati per la VQR».
Una seconda posizione è quella della denuncia di tutti gli effetti del sottofinanziamento del sistema universitario, che include naturalmente la questione dello sblocco delle retribuzioni, ma si amplia a temi come il diritto allo studio, la lotta al precariato, l’esigenza di far davvero ripartire il reclutamento, il rinnovo del contratto del personale tecnico-amministrativo. Anche in questo caso, tuttavia, le classifiche dell’ANVUR potrebbero sopravvivere tranquillamente al successo della protesta. Per soddisfare le richieste avanzate dall’Intersindacale nel documento preparato in vista delle iniziative che si sono svolte in diverse città italiane il 1 dicembre, per esempio, servono certamente più soldi ma non necessariamente il blocco della VQR. Una volta ottenute le risorse, potrebbe non esserci più motivo per rifiutare obbedienza alle disposizioni dell’ANVUR.
Ci sono infine coloro che ritengono che questa VQR debba essere in ogni caso rifiutata, con le sue bibliometrie, i suoi GEV e le sue graduatorie. E ciò perché essa produce l’oblio della didattica come “missione” dell’università alla pari della ricerca, la trasformazione delle nostre comunità scientifiche in arene di gladiatori pronti a tutto per sopravvivere e un pantano di criteri, regolamenti e procedure nel quale il sano principio del merito rischia di affondare insieme al buon senso (vedere, per credere, alcuni dei criteri elaborati dai GEV per la valutazione dei prodotti). All’obiezione che la difesa della didattica può nascondere la pigrizia e una scarsa qualità nella ricerca si risponde che il rischio simmetrico è ugualmente pericoloso: fra gli zelatori della VQR potrebbero nascondersi “professori” non proprio impeccabili nel rispetto dei loro doveri nei confronti degli studenti.
Non è tuttavia questo panorama frastagliato e anche contraddittorio ciò che spianerà la strada ai convinti sostenitori della tesi che solo la Valutazione – per quanto mal congegnata e iniqua essa possa essere – salverà l’università italiana, liberandola dalla zavorra dei nullafacenti. Il vero punto di forza della politica bipartisan di questi ultimi anni è la miscela di apatia ed egoismo (frutto più di rassegnazione che di convinzione) ormai penetrata a fondo nei comportamenti individuali e collettivi. Tanto è vero che neppure di fronte alla differenza davvero odiosa tra le sanzioni che diverse università hanno previsto nei confronti di chi obietterà alla VQR si è sollevata la reazione che sarebbe stato lecito attendersi. Ma è proprio per questa ragione che è necessario non arrendersi. Era chiaro fin dal primo momento che i veri destinatari delle iniziative sorte “dal basso” in tanti dipartimenti e università erano il governo e il parlamento, più che la CRUI, il CUN e la stessa ANVUR. E ai timidi, agli impauriti, agli assenti, vorrei allora ricordare fatti e dati che riassumono, anche simbolicamente, il senso di quanto sta accadendo.
Sulla questione delle risorse è sufficiente confrontare le briciole di propaganda sparpagliate nella Legge di Stabilità con quello che servirebbe per garantire al sistema universitario un finanziamento almeno comparabile alla media di quello che accade nei paesi più avanzati. C’è però una novità che merita attenzione. Il governo si dimostra capace di investimenti anche importanti per la ricerca. Di questi investimenti, tuttavia, l’università non è evidentemente ritenuta degna. Fra le norme più pubblicizzate della Legge di Stabilità, per esempio, c’è quella che destina 47 milioni per il 2016 e 50,5 a decorrere dal 2017 all’assunzione di ricercatori di cui all’articolo 24, comma 3, lettera b), della legge 30 dicembre 2010, «al fine di sostenere l’accesso dei giovani alla ricerca, l’autonomia responsabile delle università e la competitività del sistema universitario e della ricerca italiana a livello internazionale». E queste briciole verranno immancabilmente distribuite sulla base dei risultati della VQR (senza neppure curarsi del fatto che le classifiche usate saranno quelle relative al 2004-2010). Ma sono ben 80 i milioni di euro assegnati per il solo 2015, addirittura per decreto-legge, all’Istituto Italiano di Tecnologia di Genova, come «primo contributo» per la realizzazione di un progetto scientifico e di ricerca da attuarsi anche utilizzando parte delle aree in uso a EXPO S.p.a. Il relativo progetto esecutivo sarà approvato con decreto del Presidente del Consiglio dei ministri. Sono favorevole alla realizzazione di questo polo, a condizione che uguali risorse vengano immediatamente rese disponibili per inziative analoghe in regioni del Mezzogiorno. Ma perché risorse così cospicue devono essere assegnate senza una procedura “competitiva” aperta anche alle università? Quali sono stati i criteri? L’Istituto di Genova, con tutti i suoi meriti, non è per fortuna una perla solitaria in un catino di fango. Dovrebbe bastare questo atto del governo per convincere tutti che l’obiezione alla VQR è un dovere di razionalità, anche per dare un segnale forte sulla necessità di una assoluta chiarezza sul percorso utilizzato per riconoscere e premiare le eccellenze quando si tratta di assumere le decisioni e di distribuire le risorse che davvero contano.
Per quanto riguarda la missione dell’università, i dati sono ancora più drammatici. Nell’epoca della VQR l’Italia “avanza” con passo sicuro nelle graduatorie internazionali ed è di questi giorni la notizia che abbiamo “raggiunto” l’ultimo posto fra tutti i paesi OCSE per percentuale di laureati sul totale della popolazione fra i 25 e i 34 anni. Il drenaggio ininterrotto di risorse, diritti e speranze dal Sud al Nord del paese ha l’evidenza di numeri macroscopici, che allargano vere e proprie voragini di iniquità e di fronte ai quali il silenzio è colpa. Il silenzio del governo, il silenzio dei parlamentari che con il loro voto lo sostengono, ma anche il silenzio dei professori che vedono, giorno dopo giorno, appassire il senso, la bellezza e la responsabilità del loro lavoro. Questa VQR è la bandiera di un’idea di università che non risolve questi problemi e anzi li aggrava. È assolutamente vero che ci vuole più “merito” per uscire da questa situazione. Ma la VQR ne vede un solo aspetto e incentiva i docenti a diventare cacciatori spietati di citazioni, infischiandosene del loro ruolo di insegnanti al servizio dei nostri giovani. L’articolo 2, comma 1, della Legge 9 gennaio 2009, n.1, intitolato alle misure per la qualità del sistema universitario e punto di riferimento obbligato per tutti i successivi interventi “premiali”, indicava inequivocabilmente che essi dovevano essere stabiliti prendendo in considerazione: a) la qualità dell’offerta formativa e i risultati dei processi formativi; b) la qualità della ricerca scientifica; c) la qualità, l’efficacia e l’efficienza delle sedi didattiche. Il meno che si può dire è che un paio di queste lettere sono andate smarrite. E anche per questa via si arriva alla conclusione inevitabile che l’obiezione alla VQR è diventata un dovere. Non basta la promessa che il “terzo” giro sarà finalmente diverso. Si cambi il sistema. Si rispetti la legge. E solo a quel punto si faccia partire il secondo esercizio della valutazione della ricerca. Che io voglio rigorosa. Al pari di quella dell’impegno dei docenti universitari nell’attività didattica.
Questo è il momento. Ma dobbiamo essere tanti, se non vogliamo aggiungere al danno la beffa e colpire con la nostra protesta solo noi stessi, i nostri dipartimenti e le nostre università. E alla protesta si dovrebbe a quel punto rinunciare, cercando strade diverse e certamente più tortuose e difficili per testimoniare che è possibile un’altra idea di università, più giusta e non per questo meno efficiente. La CRUI e il CUN hanno provato a chiedere almeno un rinvio. I modi della richiesta, che pure corrisponde al sentimento di gran parte del mondo universitario italiano, sono prova della loro timidezza. I risultati ottenuti sono prova della loro scarsa rilevanza agli occhi del decisore politico. Tocca a noi. Uniamo le nostre forze – come si è cominciato a fare in queste settimane – e proviamoci. Nessuno deve poter dire che è stata anche colpa nostra.
E mentre gli altri si trastullano con le valutazioni questi sono i risultati dal 2008: “gli studenti immatricolati si sono ridotti di oltre 66mila (-20%); i docenti sono scesi a meno di 52mila (-17%); il personale tecnico amministrativo a 59mila (-18%); i corsi di studio a 4.628 (-18%)”
Tra non molto spenderemo più soldi per imbastire queste valutazioni che per l’università stessa.
http://www.corriere.it/scuola/universita/15_dicembre_10/gli-studenti-italiani-voltano-spalle-all-universita-sette-anni-20percento-095e7a3e-9f59-11e5-a5b0-fde61a79d58b.shtml
Il punto principale è che abbiamo dei ministri totalmente secondari di scarso livello e profilo. Dovremmo esprimere il nostro disagio con forme più “universitarie”, minacce di sciopero etc. sono obsolete, ci fanno collocare tra le migliaia di rivendicazionisti: se non sono chiaro date una occhiata a quello che sta ottenendo Franceschini per la cultura. Via la Giannini una bella fascia gialla da indossare al braccio (come le proteste civili dei lavoratori giapponesi). Vorrei un D’Alema, un Bersani, una Rosy Bindi o simili. Politici con gli attributi, questa nostra non otterrà mai nulla di decente per l’università pubblica da Renzik. Mi sbaglio?