Esistono le condizioni per costruire un fronte ampio nell’università, capace di mobilitarsi e invertire la rotta delle politiche su istruzione e ricerca. Education at a glance conferma l’abisso che ci separa dai paesi che hanno investito in questi settori e che non a caso sono quelli dove la qualità della vita, le performance economiche e i livelli occupazionali sono più alti.
Oggi, se tutti spingiamo nella stessa direzione, si possono realizzare le condizioni per un movimento ampio capace di invertire la tendenza. Solo un movimento ampio, capace di mobilitare l’insieme della comunità universitaria, è in grado di incidere sulla deriva in corso da tempo. Quello del 2011, innescato dall’iniziativa coraggiosa dei ricercatori, non riuscì solo per poco a fermare la legge 240! Oggi sappiamo quale prezzo ha pagato l’università a causa di quella legge, dei tagli draconiani del 2008 e di un sistema di valutazione ideologicamente orientato. Lo sa bene la docenza universitaria che si sta giustamente mobilitando in queste settimane.
La condizione per ricostruire un movimento di quella portata, realmente capace di conquistare nuove risorse e modificare gli assetti che si stanno determinando negli atenei, è però quella di costruire un dialogo tra tutte le diversi parti del mondo universitario, condividendo analisi e obiettivi. Fondamentali furono nel passato le assemblee di ateneo e soprattutto, come sempre, il ruolo degli studenti che hanno animato a migliaia i cortei e le occupazioni. Da quelle si può ripartire. Come fondamentale oggi è coinvolgere il vasto e articolato mondo della precarietà, così come il personale tecnico e amministrativo che da quasi 9 anni vede il blocco dei propri salari. Lo sciopero promosso dalla docenza universitaria può quindi combinarsi con tutte le altre istanze che sono presenti nell’università, come peraltro proposto in un appello recente promosso anche dalla FLC CGIL.
Investimenti diretti nel fondo ordinario, reclutamento straordinario, diritto allo studio e questione salariale sono rivendicazioni che si tengono insieme e si rafforzano a vicenda. Peraltro siamo all’avvio del confronto sul rinnovo del CCNL che interessa direttamente il personale tecnico amministrativo, dove un nodo importante saranno le risorse da trovare nella legge di stabilità. Proprio in questi giorni si avvieranno le assemblee, per discutere con le lavoratrici e i lavoratori delle nostre proposte per il contratto e della necessità di costruire una mobilitazione per sostenerle. Così come riprenderà la battaglia dei precari negli enti di ricerca a partire dal CNR per rivendicare risorse necessarie e strumenti veri per essere stabilizzati. Moltissimi di loro sono anche precari dell’università e le loro istanze parlano anche al mondo dell’università.
Per questo crediamo che, come è già avvenuto con le mobilitazioni più importanti degli ultimi anni, l’università possa diventare un punto di riferimento fondamentale per costruire un fronte ampio che abbia come primo obiettivo la legge di stabilità, dove le risorse non possono andare ancora agli incentivi per le imprese la cui efficacia è peraltro nulla sia sotto il profilo dell’occupazione che degli effetti sull’innovazione tecnologica.
Manca un punto di PIL per avvicinarci ad una soglia significativa di investimenti nei settori dell’istruzione e della ricerca. Iniziamo a rivendicarlo, per colmare il divario in termini di salari, infrastrutture, diritto allo studio.
Finalmente qualcuno che guarda oltre il proprio orticello, come Sinopoli. Non bisognerebbe tuttavia aprire soltanto alle istanze delle altre categorie (personale tecnico-amministrativo e precari), ma fare in modo che si eliminino le disuguaglianze sopravvissute anche alla legge Gelmini, che non consentono una vera competizione tra esterni ed interni ai dip, o tra strutturati e non strutturati.
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L’intervento di Sinopoli ci ricorda che i paesi che hanno investito nei settori dell’istruzione e della ricerca sono, non a caso “quelli dove la qualità della vita, le performance economiche e i livelli occupazionali sono più alti. ” Poichè nessuno mi sembra abbia mai contestato affermazioni del genere, occorre cercare una spiegazione dell’esistenza di quell’abisso che Sinopoli ci ricorda esistere tra noi e questi paesi; senza ricorrere alla tautologia della nostra bassa spesa in istruzione e ricerca dal momento che l’entità di questa spesa non dipende da una evento naturale ma da decisioni di uomini.
La seconda indicazione fornita da Sinopoli – questa di ordine qualitativo – riguarda il fatto che da questa situazione di scarsa spesa per l’istruzione e la ricerca. certamente chi ne paga i prezzi maggiori sono tutti coloro che per i motivi più ovvi, appartengono a questo mondo. Ma in seconda istanza chi soffre maggiormente è tutto il paese dal momento che una economia basata sulla competitività del costo del lavoro quale quella che rinuncia alla competitività tecnologica, rappresenta una scelta che ne investe gran parte in termini negativi. Inutile riportare ancora una volta i ben noti numeri relativi alla spesa pubblica e privata in materia di ricerca e sviluppo, al numero degli addetti alla ricerca nel sistema delle imprese e nelle strutture pubbliche, ecc. ecc. , Peraltro la spesa in ricerca da parte delle imprese è fortemente connessa e vincolata alla struttura dimensionale e alla specializzazione produttiva dei singoli attori, ed è questo il motivo per cui le ipotesi di correggere il nostro sistema incentivando la spesa in ricerca con finanziamenti pubblici diretti alle imprese ha risultati, oltre certi limiti, del tutto marginali se non negativi anche in quanto possono svolgere un ruolo alternativo alla spesa diretta in ricerca. Ma anche in quanto il processo dell’innovazione tecnologica non si realizza solo con la spesa in ricerca poichè esiste tutta una serie di istituzioni, di interventi e poi di capacità strutturali dirette e indirette da parte della politica economica pubblica, delle relazioni internazionali nel mondo della ricerca, degli scambi in materia di ricerca fondamentale, sino alle capacità brevettuali, ecc., senza le quali non esiste un Sistema Nazionale dell’Innovazione.
Ma il livello culturale della gestione politica di una tale questione è rappresentato, nel caso del nostro paese, ad esempio, dalla valutazione ragionieristica del costi di formazione di un laureato, che se poi sceglie la strada dell’emigrazione per non restare disoccupato, diventa un onere tutto negativo per cui è necessario……ridurre la spesa per le Università. Sono ormai molti anni che culture del genere hanno prodotto disastri che oggi si fa fatica anche solo a correggere. Pensare che i singoli attori del sistema possano risolvere, ognuno per conto suo, le proprie specifiche “disgrazie” vuol dire fare finta che all’origine non ci sia quella specifica cultura politica che da anni ha condotto il sistema della ricerca, gli Enti pubblici di ricerca,le Università, nell’attuale vicolo cieco. Questa situazione ha una evidente dimensione collettiva che proprio per gli aspetti culturali, sociali, ambientali ed economici, riguarda tutto il paese. E’ possibile allora immaginare che proprio dal mondo della formazione, della scuola, della ricerca e dell’innovazione, si manifesti quella capacità collettiva di interpretare gli interessi generali del paese ?.